Silvia Cavalieri
Tipologie del racconto nella Generazione del '90 in Portogallo

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
Introduzione
Pedro Paixão, o l'apologia della mediocrità
L'opzione fantastica: Isabel Cristina Pires
L'eterno ciclo fatale: José Riço Direitinho
José Luís Peixoto: una scrittura che nasce dall'assenza



§ II. Pedro Paixão, o l'apologia della mediocrità

I. Introduzione

Nell'ultimo decennio, il panorama della narrativa portoghese si è riempito di nuovi contributi che, pur recuperando sotto svariate spoglie il retaggio della tradizione più o meno consolidata, giungono a delineare un paesaggio per certi aspetti inedito.
La forte incidenza di queste nuove leve - in senso non necessariamente anagrafico - sul panorama letterario nazionale è particolarmente rilevante nell'ambito del romanzo. Più scarsa sembra invece la produzione di racconti, o quanto meno la loro pubblicazione, visto che uno dei motivi basilari di questa mancata visibilità sembrano essere proprio le strategie editoriali e molto materiale può invece essere recuperato nelle riviste letterarie.
È tuttavia possibile, utilizzando alcuni testi diversamente significativi, individuare quelle che sono le inclinazioni preminenti all'interno del flusso polimorfico che caratterizza la nuova scrittura narrativa portoghese e, più specificamente, il genere racconto.

 

§ III. L'opzione fantastica: Isabel Cristina Pires Torna al sommario dell'articolo

II. Pedro Paixão, o l'apologia della mediocrità

Tanta narrativa portoghese sullo scorcio del secolo XX sembra vivere la fine del millennio come una sorta di malattia giunta allo stadio terminale. Dopo il risveglio in senso militante che il contesto culturale ha conosciuto tra la fine degli anni Settanta e l'inizio del decennio successivo, nel corso degli anni Novanta ha preso il sopravvento un atteggiamento di disincanto una tendenza alla negazione, almeno apparente, di quell'istanza identitaria che ha contraddistinto la letteratura portoghese nei secoli della sua storia e che aveva assunto tratti decisamente innovativi in conseguenza della guerra coloniale (1961-1974) e della successiva decolonizzazione.
Questa rappresentazione di una realtà «svuotata» di senso in cui la letteratura si fa atto puro per eccellenza, privo di moventi e di scopi, è rappresentata in particolare da quei numerosi autori riconducibili alla corrente del cosiddetto «realismo urbano totale», apprezzabili se non altro perché riflettono il fenomeno dell'urbanizzazione, con tutte le sue conseguenze sulla vita sociale e sulla psiche dell'individuo, che il Portogallo ha conosciuto con alcuni decenni di ritardo rispetto alla maggior parte degli altri paesi europei, ma decisamente deludenti - salvo rarissime eccezioni - dal punto di vista estetico, «semplicemente perché sono tutti uguali e soffrono di un'assenza palese di stile individuale».1 Questa aspirazione, del tutto legittima e indubbiamente sincera, a raccontare una realtà umana e sociale nuova e scarsamente rappresentata dalla tradizione letteraria nazionale, fatica, in effetti, a tradursi in opere innovative, dal punto di vista stilistico e linguistico, e dà luogo a una produzione piatta e impersonale, che sembra peccare di un'immaturità estetica cronica.
È come se, nel tentativo di colmare la distanza che, a livello di rappresentazioni estetiche, separa la produzione contemporanea nazionale da quella europea e nordamericana, questi autori rinunciassero del tutto a quella postazione semiperiferica che Boaventura de Sousa Santos individua come punto d'osservazione privilegiato per interpretare i meccanismi del sistema mondiale (perché intermedia fra i due poli dei paesi centrali e di quelli marginali, o marginalizzati),2 privandosi così di uno sguardo eccezionalmente penetrante e abdicando alla possibilità di partecipare alla costruzione di un paradigma letterario innovativo, strumento efficace per dare della contemporaneità una rappresentazione finalmente densa.
Un esempio significativo in questo senso mi sembra quello di Pedro Paixão, uno degli esponenti più noti e prolifici della corrente suddetta. In Nos Teus Braços Morreríamos, una raccolta di brevi racconti uscita nel 1998, il tema principale è l'amore, o meglio la sua evanescenza, nei rapporti fra uomo e donna. Aderendo apparentemente al nichilismo ideologico che sembra tatuato sulla pelle della cultura di massa contemporanea, nascondendosi quasi sempre dietro la maschera fissa di un narratore marchiato da un'inettitudine ormai priva di qualsiasi possibilità di riscatto (anche sul piano artistico), l'autore non riesce in realtà a liberarsi dal vizio di pontificare e costella i suoi racconti di considerazioni pseudo-filosofiche pronunciate a mezze labbra, in toni dimessi, che non riescono a celarne la presunzione di fondo:

«Nunca se sabe o que é para sempre, sobretudo nas coisas do amor. E era uma coisa do amor, isto tudo. São tão estranhas as coisas do amor que não se compreendem por inteiro. Tem de se estar sempre a fazer suposições. Nunca se sabe como e até que ponto a até quando. Esta obsessão chega para impedir a vida, o amor pode impedir o amor, amaldiçoá-lo como um espectro. Não foi sempre assim. Quando se perde tudo pela primeira vez fica-se com o terror de perder todas as vezes. Basta uma mulher para dar cabo de nós. Uma mãe, uma irmã, uma filha. O primeiro amor dá cabo de nós. E o último é sempre o primeiro».3

I narratori mutano da un racconto all'altro, ma la prospettiva è sempre quella di un io «assolutamente triste, inconsolabilmente malinconico»,4 che si crogiola nelle sue sconfitte dal sapore dolce-amaro, a cui è dedicato un intero racconto:5 quel «narcisismo della rinuncia» e la «tanto portoghese auto-tenerezza della sconfitta»,6 che il protagonista di Jornada de África di Manuel Alegre individua come tratti distintivi del suo popolo e che aborre, sono assunti in questi racconti con compiaciuta indulgenza da una schiera di antieroi che ostentano il loro credo disincantato, con barlumi d'ironia che però scadono subito nella cupezza più torva o nel cattivo gusto, un cattivo gusto che non riusciamo a condividere nemmeno esteticamente.
Le oasi di appagamento sono rare ed effimere: il mito solare dell'antica Grecia, celebrata a più riprese, sembra individuare la possibilità di uno scarto, ma anche la bellezza diventa ossessione e porta alla rovina.
In sintonia con le poetiche del postmodernismo, l'autore affida ai testi le sue considerazioni metaletterarie, che ribadiscono il quadro di una desertificazione della quotidianità, abbozzando a una remota possibilità di redenzione, come nel brevissimo frammento dal titolo «Confissão» che riportiamo integralmente:

«Escrever pode ser uma óptima desculpa para quem na vida não tem qualquer esperança. É uma maneira de preencher uma sombra e há momentos em que um beijo escrito vale por muitos.
É sempre a vida, é claro, mas com a distância limpíssima das palavras. E tudo sofre de uma insuficiência que a arte tenta reparar, e falha.
Eu espero que a esperança um dia venha e tudo isto não seja mais do que um exercício de gramática».7

Che la speranza torni o meno, ci auguriamo di incontrare presto un rappresentante di questa frequentatissima corrente del realismo urbano totale che ci regali qualcosa di radicalmente diverso da quelli che purtroppo suonano proprio come meri esercizi di grammatica, o poco più.

 

§ IV. L'eterno ciclo fatale: José Riço Direitinho Torna al sommario dell'articolo

III. L'opzione fantastica: Isabel Cristina Pires

A questi sguardi troppo poco schermati nella percezione della realtà si affiancano fortunatamente altri tentativi, di autori che non rinunciano a pescare nel grande serbatoio dell'immaginazione o, meglio, s'inseriscono in quel filone di realismo magico, che conosce una sua declinazione specificamente portoghese, frequentato soprattutto da alcune delle voci femminili che cominciano a riempire il panorama della letteratura nazionale dopo la rivoluzione del 1974, come Lídia Jorge e Teolinda Gersão, e condotto ai suoi esiti più alti in certa narrativa di José Saramago.
Nei racconti di A Casa em Espiral,8 di Isabel Cristina Pires, si respira un'atmosfera sospesa tra realtà e sogno che rievoca direttamente quella di Alice in Wonderland, attraversando svariate sfumature, dalla parodia al macabro.
La realtà, con i suoi angusti confini, sembra comprimere l'espressione e generare la necessità di mondi paralleli o di aprire squarci inattesi dentro alla normalità; la narrazione si apre allora su spazi lontani e si trasla in tempi remoti, costruisce complicati labirinti9 e innesca una temporalità spiraliforme, oggettivandola in continui richiami iconologici, a partire dal titolo stesso della raccolta.
Nonostante gli esiti non siano eccellenti, è apprezzabile l'estro con cui l'autrice ricama le sue storie senza sottrarsi al piacere dell'invenzione, perché «chi ha conosciuto un negromante, un litigioso defunto, una aiuola di salamandre, non li cederà in cambio di un patetico adolescente, o di un esangue ed eccitato uomo di lettere, o di un frustrato oggidiano».10
Positiva è anche la sperimentazione di un registro comico-parodico, come in «Criação» dove, con toni giocosi e impertinenti, viene raccontata la creazione della terra da parte di un Dio che alterna «gesti allegri e indolenti» a moti di rabbia determinati da vere e proprie crisi di creatività - «non riusciva a creare niente di ingegnoso, tutto quello [l'Universo e i milioni di stelle che lo circondano scintillanti] era una noia mortale».11 Sempre più irritato, questo Dio «ciclotimico», comincia a plasmare delle palline di argilla e a soffiarci sopra infuriato, ci attacca «due gambe lunghe, due trionfi d'ispirazione» (p. 16), allunga il naso e stringe violentemente per fare il collo. Aggiunge poi braccia e mani.
Da questo punto in poi, quando Dio comincia ad attribuire all'uomo le sue qualità psichiche, viene meno l'ironia leggera delle prime pagine, che lascia il posto a un sarcasmo poco velatamente moralista, abbastanza malriuscito. Viene meno la capacità di abbandonarsi interamente al gioco della finzione.
In tutta la nuova letteratura portoghese - ma questa considerazione è probabilmente estendibile su un piano ancora più globale - si sente la mancanza di uno sguardo che sappia conservarsi intatto dall'inizio alla fine, che si limiti ad aderire e a descrivere, senza intervenire criticamente o concludere razionalizzando, manca una linea che, per collegarci al contesto italiano, si potrebbe definire celatiana.

 

§ V. José Luís Peixoto: una scrittura che nasce dall'assenza Torna al sommario dell'articolo

IV. L'eterno ciclo fatale: José Riço Direitinho

Se l'immaginario metropolitano è spesso frequentato dai nuovi autori in termini conformistici e raccontato con una scrittura piatta e noiosa, non si può dire lo stesso del mondo rurale che, secondo una tendenza che si afferma soprattutto a partire dal periodo neorealista, assume una connotazione di violenta fisicità e una forte tensione drammatica. Spogliata delle sue istanze sociali più esplicite e collocata in una dimensione temporale rarefatta, la direttrice ruralista riemerge in alcuni testi della Generazione del '90, che accentuano soprattutto l'immobilità ciclica del mondo agricolo e la tragica ineluttabilità delle vicende che vi si svolgono. La staticità del paesaggio naturale e umano delle campagne portoghesi, ancora legate a ritmi arcaici, sembra spesso richiamare analogicamente l'universo biblico. Ritroviamo questa commistione in diversi testi, tra cui la raccolta di racconti A Casa do Fim di José Riço Direitinho.
Un'atmosfera esiziale li pervade dal primo all'ultimo, che è quello che dà il titolo all'opera. Tutto sembra svolgersi in prossimità della fine: i personaggi sono vecchi o comunque vicini alla morte, la casa è l'ultima del paese, il racconto si apre sulla fine della storia, «alla fine del settimo giorno»,12 l'ultimo per eccellenza. Il racconto sembra sottrarsi alla possibilità di essere collocato spazialmente e temporalmente: le maiuscole trasformano le indicazioni generiche in veri e propri toponimi, la Casa do Fim (Casa sul Confine, ma anche Casa della Fine), il Caminho do Canavial (Sentiero del Canneto), la Vila do Fogo (Villaggio del Fuoco), il Cerro do Anjo (Collina dell'Angelo); le epoche sono denominate attraverso le gravi catastrofi che si sono abbattute sulla terra (la piaga delle rane, la peste dei maiali da monta, l'invasione delle cavallette). I personaggi hanno nomi biblici e la cadenza stessa della narrazione assume a tratti un ritmo da Sacre Scritture. Le colpe dei padri - il peccato sembra sempre incombere ma la colpa rimane comunque inspiegabile - si ripercuotono inesorabilmente sui figli perché esistono leggi mute e immutabili che descrivono quella «geografia del fatalismo»13 tanto coriacea e tanto portoghese. In una narrazione che assume i tratti di un realismo magico dai toni crepuscolari, le donne sono sempre portatrici di un mistero, come ci viene detto fin dall'epigrafe, estratta da Fado Alexandrino di António Lobo Antunes:

«…perché la testa delle donne lavora obliqua e attraverso il futuro e quella degli uomini diritta e tanto inutile e attaccata al presente come un'oliva secca». (p. 74)

La storia s'impernia su una serie di contrasti dialettici ossessivamente ribaditi: fra visione e cecità e fra fuoco e gelo (giustapposti nel gioco ossimorico-paronomastico inverno-inferno, a p. 76), che si condensano nella figura principale del racconto, Ester la veggente, che già nel suo nome (stella in ebraico) racchiude un'idea di luce e calore.
Il processo, doloroso e inevitabile, di ricostituzione della memoria (personale e atavica) è sempre stimolato da percezioni olfattive: questo elemento sensoriale ricorre spesso fin dai titoli: «O ar cheirou a velas derretidas» (L'aria profumò di candele sciolte), «Um cheiro forte a flores velhas» (Un odore forte di fiori vecchi), «Nasci a cheirar a tomilho» (Nacqui che profumavo di timo).
Il fatalismo ossessivo acquista concretezza spaziale nella rappresentazione architettonica della Casa do Fim, piena di porte false, che non portano a niente: una e una sola è la via, non esistono alternative.
In questo universo senza sbocchi, la scrittura di José Riço Direitinho si muove lenta e sicura: i tempi sono dilatati e le esistenze si consumano in un'attesa comunque vana. Unica possibilità per contrastare lo scorrere logorante di un tempo sempre identico a se stesso è, prevedibilmente, il suicidio, che ricorre in quasi tutti i racconti ed entra ben presto, con la sua ripetitività anodina, nel ciclo asfissiante della necessità fatale.

 

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V. José Luís Peixoto: una scrittura che nasce dall'assenza

Un itinerario che presenta alcuni punti di contatto con la poetica di A Casa do Fim, ma di grande originalità, è indubbiamente quello descritto da José Luís Peixoto, in tempi rapidissimi e con un riscontro immediato forse unico.
È proprio con quello che potremmo definire un racconto lungo dai tratti evidentemente molto peculiari, che Peixoto esordisce, nel maggio del 2000, pubblicando a sue spese Morreste-me, un testo scritto per la morte del padre e a lui dedicato, composto tra il 1996 e il 1997.14
La sua scrittura, contrariamente a quanto si diceva a proposito del realismo urbano totale, si distingue per una densità personalissima - «allo stesso tempo scarna e barocca»15 - riconoscibile in poche righe: le frasi brevi, che scandiscono un ritmo franto e ridondante, quasi a voler sforare i limiti imposti dalla sintassi istituzionalizzata denunciandone l'angustezza opprimente, contraddistinguono l'affabulazione tipica della malinconia. Tutta la produzione letteraria di questo autore può, in effetti, essere letta alla luce di questa categoria interpretativa. Il trauma della perdita, di un mondo che progressivamente si svuota, genera l'istanza rappresentativa:

«Il lutto è la mentalità nel cui ambito il sentimento rianima il mondo svuotato nella forma di una maschera, per attingere un enigmatico compiacimento alla sua vista. […] mentre nell'ambito dell'affettività non di rado, nel rapporto tra l'intenzione e l'oggetto, l'attrazione spesso si alterna all'estraneità, il lutto ha la facoltà di una particolare intensificazione, di un continuo approfondimento della sua intenzione. La profondità (Tiefsinn) è soprattutto di chi è triste. […] la profondità si sente attratta dalla gravità. In essa la profondità torna a riconoscere il proprio ritmo. L'affinità tra lutto e ostentazione […] ha qui una delle sue radici».16

La scrittura di Peixoto è figlia del lutto, si forgia sulle rovine di una vita che ha ormai definitivamente perso la sua pienezza vergine, su cui si spalanca uno sguardo che conserva lo stupore dell'infanzia, assimilandolo in una consapevolezza dolente (in questo senso mi pare estremamente pregnante il titolo, quasi ossimorico, della raccolta poetica A Criança em Ruínas,17 Il bambino in rovina). Lo scrittore si costruisce una sua personale temporalità traslata, in cui la sincronia prevale sulla successione lineare degli eventi e tutto viene risucchiato nel presente. Come il Benjamin dell'Infanzia berlinese e della Berliner Chronik, egli

«evoca gli eventi per le reazioni a quegli eventi, i luoghi per le emozioni che in quei luoghi sono state deposte, gli altri per gli incontri con lui, i sentimenti e i comportamenti per le loro implicazioni di future passioni e futuri fallimenti […]
considera ogni fatto del passato che decide di rievocare come una profezia del futuro, perché il lavorio della memoria (che chiama: leggersi all'indietro) fa crollare il tempo».18

L'istanza testimoniale, tanto viva nella letteratura portoghese delle generazioni immediatamente precedenti quella di Peixoto (nato nel 1974), torna in questo autore con una cifra più intima, ma mai esclusivamente autobiografica. Come in António Lobo Antunes - che insieme a José Saramago costituisce uno dei due grandi modelli nazionali per la Generazione del '90 - la ferita personale raggiunge dimensioni cosmiche e l'apparente monologo della confessione-sfogo assume la forma di un dialogo implicito che va a toccare i nervi più delicati della sensibilità del lettore.
Ricostruendo con ostinata pazienza il proprio lessico famigliare, che implica il recupero di una lingua dalle sfumature regionali tipica di un Alentejo ormai in via d'estinzione, l'autore tiene fede alla promessa fatta al padre in fin di vita:

«Vou trazer de novo aqui o mundo que foi nosso. Vou mesmo, pai. O mundo solar. Reconhecê-lo-ei porque não o esqueci. E também o tempo será de novo, e também a vida. Sem ti e sempre contigo».19

Nella ferma convinzione che «un uomo sono gli uomini che lo accompagnano»20 - in cui la discrepanza fra soggetto e verbo, di rimbaudiana memoria, si complica con lo slittamento dal singolare al plurale, che trasforma lo stesso individuo in collettività - l'autore scrive e riscrive il proprio universo, neutralizzando attraverso la parola la tentazione di cadere nel vortice della passività, che è l'altra faccia del temperamento malinconico:

«Il nucleo della malinconia è una sorta di intensa incapacità di formulare ogni pensiero, c'è come un buco intorno al quale stanno delle figure: sono le figurazioni dell'angoscia. Dunque, questa fuga dell'energia psichica suscita delle risposte da parte dei poeti, i quali cercano di scongiurare il pericolo dandogli delle forme, delle figurazioni».21

Nella sua insistenza ossessiva, lo sguardo del malinconico accumula memorie, come in una soffitta polverosa, e sviluppa una capacità di decifrazione a tratti divinatoria. L'atto di scrivere si pone, dunque, come un gesto di strenua resistenza contro il tempo, fragile e silenzioso, cieco forse nella sua drammatica ossessività, ma comunque irrinunciabile.

 

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Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2002-2003

Giugno-dicembre 2002, n. 1-2