Christian Sinicco
Città esplosa

 

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vidi
un occhio, e saltai l'azzurro
lontano: lo spazio violentava non meno
       una città esplosa
di colpo e frenetica
su orizzonti di cielo

con la velocità della bomba
(e in sussulto
in preghiera
calma, come fluido denso
annegare nel caldo violetto di una
radiazione

               l'universo,
una città nella stella,
i vuoti erodere motori come vento
tra rovine di civiltà, al collasso
i vapori salire per ricadere
                come pioggia e

atomi: fra le ceneri gas di vestiti,
bambini dalle teste dorate rotolanti
                   nella sabbia
indossare nudi questo bacio)
quando la palpebra chiude
forme creare dall'informe


***

e se la realtà dovesse frantumarsi del tutto
vetro sul brusio sulle onde
come tamburi battono sui verdi fondali
le risacche parlano di guanciali
d'alghe ai pesci infiniti
caricando di legno le cupole superstiti
nell'antro dominato dai leoni di fuoco
il pianto lontano di una madre stregata
dal destino animato che erode la carne
di anime calde sulla scorza dei mondi
e mani allattate dai mobili cantori
delle ere che intrecciano le brame
e le voluttà quei mostri mitologici
e la nostra parola cade sui sentieri
e il carro della sera parla di misteri
il pastore narra dei rifugi
di una corte di tarli il magma delle anime
sputa storia dai lembi di una fogna
beve tutto il sangue e da quelle corna
cavalchiamo il ponte della pestilenza
sulla lama di una pioggia altera e inesplicabile
come la baia incendiata di petrolio
sull'esatto ronzio rotante dei motori
per cui un uomo si uccide e degenera
e se la realtà dovesse frantumarsi del tutto
come aspettiamo del resto che accada
attaccando ogni forma di vita
resistendo ad ogni terribile fontana
che strappa la scoria di sciami di pensieri
che traccia nel vortice il verme delle api
e morde la voglia di cupe inadempienze
di un futuro risibile e di oggi e di ieri
io
prima di lei
frantumo tutto
e genero


***

sull'asfalto il flusso dei pensieri
esplode mentre scuoia
intagliato
nere eternità di una ruota
che stretta
a ghiandola sull'albero
s'è fatta pugno
ospitando il tempo
maturo
brillando polveri

dopo l'attimo
del suo passaggio
ruota
che avanti rotola
s'apre il
buio
e vortica frenesia
vuoto

e nel futuro
le luci impazziscono sulla strada
il silenzio
straripa di radici lacerando
l'asfalto
esplode e brilla al passaggio
ma non c'è più
sulla strada
non c'è nulla
tranne l'ombra
dell'albero


***

raggiunta la Città,
oltrepassata l'atmosfera,
argento fuso per i granuli
d'aria,
il disco vi stazionò luccicante
di reazioni a catena, e come pericolo
si tramutò in corno e suonò
la sembianza scomposta

non era chiaro se fuggire o combattere
quel corpo che si insinuava aorta,
non era chiaro
se nella grande arena vibrasse
la distruzione o il ricongiungimento
alla natura
del segnale
che emetteva

con le parti luminose l'eco
sopra la Città sciolse
la visione e la forza
espanse
in ogni direzione l'essere
fu senza
misura il silenzio che si creò
non spazio
per la dimensione


***

oltre le nevi ghiacciate delle montagne più alte
dove la carne è privata della colorazione
tra le oscure propaggini dell'universo    caos
la terra è l'imbuto di ogni cosa:
del cielo del blu siderale
lo sguardo è la riflessione del bianco;
dove i triangoli moltiplicano senza un'idea
nelle ambrate crepe della roccia densa e minerale
dove i mirtilli sciolgono la chiesa primigenia
e le scavate stelle nella forma non verbale
dove il suolo è inimmaginabile e santo
e dove i semi sviluppano venature
giù, nelle viscere ottagonali
fra gli azzurri sentieri e i marmorei vitigni
tra le gambe dei giganti e i suoni delle epoche
di materia indissolubile in materia indissolubile
è lo squarcio
della visione
come la scia
madida di
una nube


***

in un tempo indeterminato del respiro quelle mani
lampi come oceani di cristallo e tuoni di campane
anelli limpidi incatenati al destino come canto
soli d'ore nelle bocche e dei venti
che turchini sciolgono l'ultimo deserto
boschi dispersi sotto le rose di diamante
verdi nell'est dove apostrofano miraggi
amore come lettere di fuoco che non finiscono mai
orme che corrono nude per la pianura ed elettricità pura
raggi che entrano nelle vene sulle spighe e nei carri
nomadi che attraversano la sera di una goccia
sul temporale e sul dolce risveglio di mattina
nell'addio e nel riconoscere la mite musica
della brina scura che salta l'orizzonte, arancio
che affonda le radici sinuose della notte
che raccoglie acqua dai ruscelli della voce
e scorre veloce oltre l'ansa del mistero
in un tempo indeterminato del respiro
quelle mani possiedono il cerchio
la volontà che si possa catturare
qualsiasi esile e piccolo
attimo del
movimento


***

quando fra i ruscelli che portano alla metropoli
sgorga e scompare la pozzanghera del cosmo
sulla notte che cade come un'arpa rossa
sul pulviscolo acre rimbombano gli ottoni:
ecco un ragno dove musica la pioggia
forgiare la ragnatela
dei suoni

sulle antiche case e le poltrone grigie
dei brandelli ammassati di una creazione evoluta
nei pergolati bui del cervello veloce
nelle corse luminose dei propri motori
le spire audaci dagli sbuffi ornamentali
vorticano tentacoli che erodono il cemento
meditano piramidi e il triclinio fra gli alberi
capovolti e sderenati che svaporano fra i gas
mutano con le ombre nei silenzi e fra le pause
la sinfonia dei corvi è mangiata dai gabbiani
rosa nell'alba gialla e nucleare
bianchi fra i detriti tra le case
antiche, ridotte a nulla
con occhi e cascate
bruciate oramai,
i vapori

ed appesi come lingue
i sopravvissuti
ragni
muovono sul pulviscolo acre rimbombano gli ottoni
sulla notte che cade come un'arpa rossa


***

la lunga via
ha petali arsi
di fiori, e la magnolia
nana, rarefatta
quasi sboccia
nevi cadenti
sul paesaggio aspro

e sulle alture
che si levano dai mari
danze di carovane ocra
percorrono le insediate mura
ruggine d'industria
dissepolta
abbandonate, sterili
maglie di cellulosa - nylon
spezzate da
torbidi veicoli
carcasse al suolo frastagliato
di un evo andato
metallico
che afferrano luci d'aldilà
come pesci sferraglianti

nella cavità
di un cielo a venire
la lunga via di una nuova umanità
ha danze di carovane ocra
ha petali arsi
di fiori, ha la magnolia
una tomba aperta
di stelle infinite
che sbocciano
cadono nude
ballano con gioia il tamtam
sulle dita di musici
la fuga
di fiati
lire
e sono neri
i carovanieri
e hanno pelle squamosa
fine
bellissima
luccicante
all'alba


***

la rotaia curva degli abissi
porta acqua nelle bocche
di perle
scie
di esagoni lucenti alla lingua
di un mare trasparente fra i treni
che salgono in superficie come spade lineari
e tra le correnti
un'isola affiorante fra gli aguzzi fiordi
tra i pesci stralunati dalla luce fra i batteri
una volta di mitili incastonati dai denti
salpati in un miracolo
di costa
una stazione centrale semiabbandonata
dalle onde è il naufragio dell'annegato
                          che non torna

è la vetta che esce allo scoperto
e sputa l'aria in un boato che stride
il linguaggio come cupola d'acciaio
apre il peso del mantello tra le pietre
                  ciò che rimane della stazione dell'umano
arcipelago di ormai scomparsi
palazzi con profonde spaccature, invasi d'edera
un vortice rubicondo una tempesta li attacca
finché il fulmine con tutta l'energia
esplode ed incendia l'etere,
esplode ed incendia i muri
dove hanno nidi i volatili

il cielo delle evoluzioni
il mare di una luce sfolgorante
illumina sulle rotaie che portano indietro
                    di nuovo
                      all'abisso


***

irruppe nel cielo grigio come una ciminiera
scaduta
in un pacchetto di terreno
                                   artico, desolata
                        come prateria d'anima
              in bianco e nero, uno squalo
       che sembri essersi impossessato
senza volto
del cielo che spolpa, una foglia
          sull'albero scarno di un abito
                          che cerchi una preda,
                                il vento appeso
                                      del deserto
                                       la sabbia,
                          per morire nuda
                                         nuda
                        sulle tue labbra

               una bomba
               sciolse
               noi

ma il tempo non parla,
              non c'è
nessuno che pensi,
non c'è
il tempo


***

vive ancora nei petali
ma le foglie sono appassite
goccia di ghiaccio dove il vivere
significa morire
ma cosa significa morire?

è una Babele distrutta dalle generazioni in corsa
che ha fermate di steli e scende la curva,
è l'altare
dalla coda dura
cortina perenne di nevi, bestia
che grugnisce i prati, mugugna
sorda per le vie del muschio
livido, e su acciai avvelenati
rosso torpore della luce fievole
circonda i palazzi grandi meridiani
con grossi montoni che divorano i residui
di ossa in chiesa e da salme congelate
stacca le mani sul vento che raccoglie
aliti spenti
da sfere di crani

ma vive ancora nei petali
le foglie sono appassite
vive goccia di ghiaccio
questa Babele
vive


***

increspate
grandi bolle colorate
e fili che giungono al cielo
nel chiarore che avanza sempre più
scompaiono, e dal promontorio
scendo; blu
di sasso
i chip
battono
forti l'immensità
dentro
il corpo:
profuma
a poco a poco il vento di ciliegie,
il vento di ciliegie scopre l'osso
del mondo

in sinfonia perfetta grilli elettronici
scandiscano valvole di sfogo nel ritmante
battiti perenne, cuore, in andirivieni
sotto la ceramica
del corpo...

sono l'ultimo della specie
ordinato dal centro di controllo,
sarò l'ultimo con bioniche membra
in giunture vertebrali:
l'ultimo che sente i profumi
trasmette i pensieri,
chi ordina la mente non progetta
più il corpo
il centro di controllo mi dice dal satellite
che verrà l'angelo dell'embrione solare
e supererà tutti i modelli,
verrà l'angelo distruttore di fuoco
che polverizzerà il mondo
il corpo

ma non aver paura
ultimo uomo
dopo di te
l'angelo dell'embrione solare
brucerà il vento e scoprirà
l'osso del mondo,
il vento di ciliegie
sarà
stella


***

nella solitudine
qui
sui monti della Luna
gli angeli
non sanno quello che fanno ma dipingono
graziose creature
un Mondo opaco
bimbi, piccole mani
assonnate
qui
sui monti della Luna









dov'è la Terra
la Terra è aspra
e il Cielo d'argento
curvi e spaventosi stanno
gli alberi del male
a rendere grazie
in preghiera,
ottone
come i monti sulla Luna
la Terra è aspra
e il Cielo
argento

 

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Giugno-dicembre 2013, n. 1-2