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Arte: la destituzione della comunicazione

di Luciano Nanni, Parol 13, 1997

(Conversazione tenuta all'Università di Yale all'interno del convegno avente per tema The End of Language, 7-8 aprile 1995.)

Il proposito di questa mia conversazione è quello di fare vedere che la cosí-detta comunicazione, se decostruita a dovere, si rivela invece solo auto-comunicazione e che l'arte si distingue oggi da essa non in base alla corrente opposizione comunicazione anomala (quella dell'arte) vs comunicazione in senso proprio, ma in base all'opposizione polisemia vs monosemia. Occorre però andare con ordine. Diciamo intanto, e in via ancora preliminare, che il rinvio a Arthur C. Danto, implicito nel titolo che ho dato a questo mio intervento [Il libro di Arthur C. Danto a cui penso è The Philosophical Disenfrancbisement of Art (New York: Columbia Universíty Press, 1986), tradotto in italiano appunto con il seguente titolo: La destituzione filosofica dell'arte (Siracusa: Tema Celeste, 1992). Con l'evidente uso, da parte mia, del termine "critica" al posto di quello di "filosofia", che invece avevo conservato nella redazione di questo testo letta al convegno], è da intendersi analogicamente, come indicazione di un orizzonte, non importa se a sfondo o in parallelo, ma certamente d'accompagnamento di questo mio breve percorso e d'implicita attestazione del suo senso. A differenza di quanto accade in Danto, per altro, qui l'arte non sarà chiamata in causa come fine ma come mezzo per dire quanto si intende dire sul linguaggio o, meglio, sull'uso dei segni in generale. Anche se, è ovvio, non parlandone a caso ma secondo intenzioni esplicative della sua specifica identità si finirà per dire, seppure en passanti qualcosa di suo e di soltanto suo.

Comincerei mettendo subito tutte le carte in tavola e rinviando ad un secondo momento l'analisi delle loro relazione e gerarchie. Ciò è possibile soltanto - e non è chi non lo capisca - ricorrendo a quella che Kant diceva una intuizione e che qui, più correntemente, si preferisce dire un esempio, seppur strano, da mondi possibili.

Mi dà un caffè?

Prendiamo la frase (la domanda) "Mi dà un caffè?" E' un esempio cui ricorro spesso per dire quanto, nel caso, voglio dire.

Supponiamo che un alieno atterri sul nostro pianete (precisamente nel nostro paese: in altri, detta domanda, non è proprio cosi diffusa) e che, impossessatosi d'acchito, supponiamo, dell'insieme del nostro lessico e di tutte le regole per usarlo, voglia subito formulare, anche lui, tale domanda capace di fargli assaggiare quella strana cosa che noi chiamiamo appunto caffè. Gli basterà, forse, per ottenerlo, operare sull'indeterminato (sull'entropico) campo del lessico e delle sue regole combinatorie la doppia selezione (la doppia scelta, la doppia determinazione o messa a fuoco che dir si voglia) delle cinque fonie - quattro le parole e una, l'intonazione interrogativa - da un lato, e della regola (anch'essa tra le tante) della loro unione (nel caso: pronome + verbo + articolo ecc.)? Evidentemente no e credo che siamo tutti d'accordo. Sarà infatti necessario che tale messa a punto (messa in determinazione) del linguaggio, al fine di ottenere codesto benedetto caffè, avvenga all'interno di un bar o, se volete - concedo in qualsiasi altro luogo, ma non, per esempio, in un palcoscenico, all'interno di una recita. Ve l'immaginate la sorpresa del nostro alieno, nel caso avesse a chiedere un caffè in tale luogo? Nessuno si alzerebbe per portarglielo e anche se un barman, casualmente presente tra il pubblico, avesse (sovrappensiero, per condizionamenti alla Pavlov, tanto per intenderci) ad alzarsi e a portarglielo, nessuno riuscirebbe a vivere come reale tale evento. Intanto tutti sentirebbero un irresistibile impulso a ridere di lui (classica la situazione comica dell'errore di luogo) e poi se il nostro alieno dovesse berlo, nessuno (colmo della beffa) penserebbe che egli ha bevuto realmente un caffè, ma soltanto che egli ha recitato (come dire?) la "bevuta" di un caffè e nulla più. Con sua grande sorpresa il nostro alieno si accorgerebbe che per possedere una lingua non basta possederne il lessico e il codice combinatorio (grammatica e sintassi), ma occorre possederne anche le convenzioni (i meta-codici, diciamo cosí) d'uso: questi soltanto capaci di far lingua una lingua, tanto in senso non-referenziale che referenziale ("comunicativo" in senso stretto).

Non c'è linguaggio senza esecuzione sintattico-grammaticale dei lessico. Ha ragione H. Weinrich [H. Weinrich, Metafora e menzogna: la serenità dell'arte, Bologna, il Mulino, 1976, passim]: solo l'esecuzione sintattico-grammaticale fa passare il significato dei termini dall'ampio, dal vago, dal sociale, dall'astratto, in una parola dall'indeterminato al determinato dell'intendimento circoscritto, della precisione, dell'individuazione e della concretezza, ma è soltanto l'a paio delle istituzioni (dei luoghi) dentro le quali tale esecuzione avviene che ci dice che cosa dobbiamo poi fame di tale esecuzione determinata, in che senso dobbiamo poi usarla.

Spesso linguisti e semiologi hanno creduto e credono di parlare del linguaggio anche non occupandosi della pragmatica, tant'è che alcuni (Eco per esempio) [U. Eco nell'"Introduzione" al suo Trattato di semiotica generale (Milano: Bompiani, 1975)] introducendo anche questo livello nel loro orizzonte di analisi, non pensano affatto di occuparsi, e finalmente per la prima volta, del linguaggio, ma di avere semplicemente il merito di introdurre un ulteriore avanzamento in un campo di ricerca, non pensato fino a quel momento insensato, bensí già sensato e solo da perfezionare.

Ebbene, l'esempio del nostro alieno ci dice che cosí non è e ciò proprio grazie all'attenzione portata alla pragmatica dell'arte. Quanto succede all'alieno in teatro è chiaramente funzione del teatro, non della frase "mi dà un caffè?" che rimane la stessa e nei contenuti e nell'intonazione, ma allora perché non dovrebbe essere funzione del bar quanto ai segni succede al bar e in tutti i luoghi di comunicazione strettamente strumentale o pratica al bar assimilabili? Senza teatro (senza galleria ecc.) e senza bar non è che mancherebbe il livello pragmatico della lingua, mancherebbe proprio la lingua. Senza di essi non ci sarebbe semantica e quindi nemmeno "significanti", se è vero che solo in rapporto a un qualche significato i significanti possono essere detti tali.

Non occuparsene, come linguisti e semiologi spesso hanno fatto, non vuole necessariamente dire (certo, concedo) non esserne al corrente, non saperlo, ma può volere dire ridurre tutta la pragmatica "comunicativa" (scritto tra virgolette, il termine, perché, come promesso, sarà tutto da decostruire) a quella da bar e poi, data la sua invarianza, giudicare appunto superfluo occuparsene. Un po' come succede in astronomia con il rumore di fondo del big bang. Ma, abbiamo visto, i luoghi dell'arte introducono un "rumore" diverso, una differenza di fondo. E allora anche le interrogazioni circa le modalità formanti dei luoghi, volendo occuparci seriamente della "comunicazione", non possono proprio essere evitate. Quando telefono a mia moglie non mi sento in dovere di precisare ogni volta che la chiamo dalla terra. Non potendo essere in altro luogo non ce n'è proprio bisogno. Ma, potendo anche essere su un altro pianeta, credo che la precisazione non la troverei solo opportuna ma anche necessaria. Cosí per l'analisi della "comunicazione", dopo aver guardato bene anche cosa succede nell'arte. Quanto succede nell'arte recupera in feedback i luoghi della cosí-detta comunicazione quotidiana, richiedendoci di problematizzarli: quale il loro codice formante? Quale quello, diverso, dei luoghi dell'arte?

Comunicazione come auto-comunicazione

Prima di accingermi a rispondere ai quesiti con cui ho chiuso fi paragrafo precedente, vorrei invitare chi mi ascolta a riflettere un po' con me su alcune cose che circa la comunicazione si danno in genere per scontate. Cosa pensiamo, intanto, che sia la comunicazione?

Vediamo: partiamo da un dizionario che tutti ci registra. Leggiamo. Comunicazione: atto del comunicare. Vediamo allora comunicare: condividere o trasmettere pensieri. Trasmettere pensieri, il cosí-detto messaggio. Bene: questa nostra convinzione, apparentemente cosí convincente, è, scientificamente parlando, insostenibile, diciamo pure falsa. Sorpresi? Bene: decostruiamola allora, piano piano, e vediamo.

Poniamo che io mi volti verso di voi e, fissando qualcuno, pronunci la parola, che so, "aquila". Esce forse un'aquila dalla mia bocca? No di certo. Non siamo d'accordo? Esce forse il concetto di aquila? Nemmeno. Non vedo chi non possa essere d'accordo. Dalla mia bocca, rigorosamente parlando, non esce un'aquila in carne e ossa, ma non esce nemmeno il pensiero. Nessun concetto (nessun messaggio) passa nella comunicazione dall'emittente al destinatario, con buona pace di tutte le nostre convinzioni. Dalla mia bocca si attiva soltanto un processo fisico di tipo sonoro che raggiunge l'orecchio del destinatario e nulla piú. Tutto il resto viene fatto dal destinatario stesso. E' il destinatario (il ricevente) che, captato fi segnale fisico, preleva dalla sua, diciamo cosí, concettoteca mentale il concetto di "aquila" e lo lega al segnale fisico che ha ricevuto, costruendo il segno. E segno non glielo invio io, se lo costruisce lui: è lui che comunica a se stesso quanto io intendevo comunicargli. Come poi egli riesca a ricostruire nella sua mente, da solo, il segno che già io aveva costruito da solo nella mia è cosa che la scienza non ci dice. La prova dell'avvenuto miracolo è infatti solo a posteriori. E' dal comportamento del destinatario che io mi accorgo della comunicazione, non prima. Se io chiedo a qualcuno una penna e costui me la porta, ho la prova che nelle nostre solitudini abbiamo costruito lo stesso segno. Altre certezze non ce ne sono e, in assenza di tali prove fattuali, gli equivoci, come penso che ognuno di noi ben sappia, sono sempre possibili. In assenza di tali riscontri operativi, chi potrà mai essere certo che l'altro non abbia frainteso, non abbia insomma associato allo stesso stimolo fisico pensieri diversi? Ci sono fraintendimenti, a volte, che rimangono nascosti per anni. Svelati poi, sappiamo, casualmente, magari da un lapsus. Cose impossibili se la comunicazione fosse quel passaggio di concetti o pensieri che comunemente si pensa. E poi, passaggio di pensieri! Se fossimo in presenza di una reale trasmissione di pensieri, che bisogno avremmo di parlare? Non è al silenzio che usualmente associamo la trasmissione del pensiero? Il fatto che parliamo è quindi la prova piú lampante che quando parliamo non stiamo trasmettendo (comunicando) ad altri alcun pensiero. Alcuni filosofi, di fronte a questo mistero, hanno fatto ricorso alle garanzie di un terzo: la natura (l'innatismo), Dio ecc. Ma son cose da filosofi metafisici. Dignitosissime, ma, appunto, da metafisici. Alla scienza, alla filosofia critica basta arrivare al mistero (se ovviamente non riesce convincentemente a scioglierlo), che poi ognuno, a fede, può riempire con ciò che crede.

Or bene, tornando piú strettamente in argomento, quale il ruolo dei luoghi (del bar, del teatro, ecc.) in tale processo? Esiste un loro ruolo? A mio parere esiste ed è. lo si può intuire, fondamentale. Il nostro ricevente non procede infatti alle sue costruzioni segniche nel vuoto. Non si dà insomma da solo, a capriccio e in scioltezza assoluta, le regole di queste sue costruzioni. Tali regole egli le riceve dai luoghi dove si trova. Non è il barman a darmi il caffè ma è il bar: è il bar che, non avendo corpo umano, si serve del barman per darmi il caffè. Il barman è solo l'esecutore delle sue istruzioni semiotiche: di tutti i possibili livelli di realtà della domanda che ti è stata rivolta tu devi prendere in considerazione solo il livello concettuale-referenziale implicito nel tuo orizzonte semantico. Non altro. Istruzioni evidentemente diverse da quelle che ci vengono impartite dal luogo teatro: tutto, della domanda, è significativo, tono della voce, mimica ecc.-, attiva dunque tutta la tua cultura e costruisci con i suoi livelli di realtà tutti i segni (le interpretazioni) che ti riesce di costruire. Luoghi insomma come principi scambiatori all'interno dell'auto-comunicazione: direzione monosemica, per il bar; direzione polisemica, per il teatro, e l'arte in generale. Ma auto-comunicazione sempre, mai comunicazione. In questo senso il linguaggio è finito da sempre, perché non è mai nato. Se invece con linguaggio si vuole intendere la semplice auto-comunicazione monosemica allora sí, nell'arte essa appare oggi definitivamente morta. Ma nell'arte solo, non nei settori della cultura diversi dall'arte, pratici o cognitivi o religiosi che siano.

Arte: polisemia e sperimentalismo

Perché solo oggi l'arte sarebbe polisemica? Non è forse stata concepita in tal modo anche per il passato? Inviando la terza cantica a Can Grande della Scala non gli ricordava già Dante, nel Medioevo, che la si poteva leggere in diversi modi, insomma che per essa andava teorizzata una vita polisemica? Certo. Dante cosí diceva, ma la polisemia di cui egli parla non era indefinitamente aperta come quella propria dell'arte. Sappiamo. Si tratta di una polisemia a due (e poi divisa a quattro) livelli e basta. Ancora una polisemia chiusa e quindi sostanzialmente una monosemia. Quattro i livelli di significato associati all'opera dal suo autore e quattro, gli stessi, quelli che per conto suo è tenuto a ricostruire nella sua mente il lettore. Non uno di piú. Un palazzo a quattro piani insomma e non a uno solo, ma pur sempre un palazzo e basta.

Cifra gravida di implicazioni, questa della funzione polisemicamente aperta propria oggi dell'arte e in tutte le direzioni. Polisemia funzionale, perché frutto non della struttura dell'opera (anche l'opera piú semplice si manifesta all'interpretazione senza fondo) [Che cosa di piú semplice di uno scolabottiglie in un negozio da cantiniere? Ma quale il suo significato ultimo, allorché compare nella galleria d'arte? Chi con sicurezza può dire?] ma del luogo-arte e, si capisce, nel luogo-arte può entrare ed è entrata ormai qualsiasi cosa: dalla Gioconda alla Merda d'artista di Piero Manzoni, da una sinfonia di Beethoven ai rumori di Cage ecc. ecc.

Risultato: la fine di ogni sperimentalismo tecnico. Coscienzializzato quanto sopra, sganciata l'artisticità dalle cose e dai materiali, qualsiasi materiale e qualsiasi tecnica possono divenire arte, purché vengano assunti secondo la logica del luogo-arte, della funzione arte [Ovviamente, come s'è visto, mutevole nel tempo]. Le novità tecniche e dei materiali non possono piú sorprenderci. Ci si aspetta ormai di tutto e l'offerta del tutto non è piú trasgressione, sorpresa, ma norma e routine.

Cosa portare ancora in campo? Non resta a mio avviso che l'etica. Portiamo di nuovo in campo problemi etici, con tutto lo spessore cognitivo che sempre anche l'etica comporta. 1 materiali restano ovviamente, ma non piú fine a se stessi, per la loro pura novità tecnico-percettiva (estetica), bensí per la loro capacità di significare, di portare a epifania e allora di simbolizzare necessità d'autocoscienza vitali e la nostra e per ogni altra cultura.

Questo è il senso per cui è nato e in cui s'inscrive il mio recente lavoro sulle microviolenze esercitate dalla scrittura sui suoi materiali, fatte salve ovviamente ogni altra loro valenza fisico-percettiva e simbolica.

 

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