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Sul valore comunicativo del silenzio

di Alessio Aymone

Una proprietà essenziale della comunicazione, che contribuisce a definire anche uno dei principali assiomi della pragmatica comunicativa, è l'impossibilità di non-comunicare (1): nel senso che sia le parole sia il silenzio veicolano messaggi specifici, realizzati con l'ausilio della comunicazione non verbale, vale a dire con quel complesso di movimenti, gesti ed espressioni che sono riconducibili alla categoria della cinesica del corpo umano. Provate a pensare al caso di una conversazione e a quanto sarebbe difficile dialogare con gli interlocutori presenti avendo le mani legate; la comunicazione sarebbe così priva di quei gesti che svolgono un compito di conferma nei confronti delle parole. Per quanto riguarda, invece, il silenzio, raramente se ne può riscontrare uno totalmente assoluto. La postura, l'atteggiamento e i movimenti di chi lo assume integrano il silenzio con tutta una serie di messaggi complementari, non meno essenziali di quelli che esso stesso trasmette. Un esempio? Si pensi al passeggero d'aereo che, in fase di decollo, siede con gli occhi chiusi e le braccia saldamente ancorate ai braccioli del suo sedile. Secondo voi, ciò a cui aspira più di ogni altra cosa in quel momento è una parola di conforto oppure di essere lasciato in pace? E' evidente che la sua intenzione è di evitare qualsiasi forma di intrusione esterna ed essa non è di certo fraintendibile. Infatti chi la recepisce correttamente agirà nel modo più conveniente solo se deciderà di lasciarlo stare. Quindi il silenzio è di fatto presente, ma la postura, occhi chiusi e  braccia rigide, non possono che contribuire a guidare gli altri passeggeri verso un'unica interpretazione. Siamo di fronte a un chiaro caso di comunicazione, anche se non direttamente reciproca: quella che abbiamo definito reciprocità indiretta consiste infatti non in una reazione che si manifesta tramite enunciazione linguistica ma in una reazione "corporea" che vieta qualsiasi movimento, reazione corporea che è presente pur in assenza di gesti e che ci consente di comprendere quanto sarebbe inopportuno avvicinarsi al passeggero e chiedere come sta o cos'è che lo turba. Il silenzio rappresenta, quindi, una strategia comunicativa che, dal punto di vista di chi la impiega, comporta una gestione attenta e una giusta consapevolezza, mentre, dal punto di vista di chi la rileva od osserva, richiede uno sforzo impegnativo per evitare di mal interpretarla. Un esempio renderà tutto più chiaro: chissà quante volte, nel bel mezzo di un litigio furibondo, una delle parti ha chiesto disperatamente il vostro appoggio o semplicemente una vostra opinione consolatoria e voi invece avete scelto la via del silenzio, magari credendo che fosse quella più giusta e neutrale. Scelta legittima, soprattutto se la volontà era quella di non esporsi pericolosamente schierandosi a favore o sfavore di una parte o dell'altra. Legittima sì, ma sconveniente e inadeguata, perché, così facendo, avete dato inconsciamente torto a chi vi ha chiesto di intervenire - teoricamente a suo favore - e al contempo avete dato ragione all'altra parte. Dunque, è meglio dirlo chiaramente che intendete rifiutare qualsiasi forma di intrusione, pur di non correre il pericolo che il vostro tacere venga interpretato in modo errato.

Sarebbe però fortemente riduttivo guardare al silenzio esclusivamente come fosse uno strumento che, se mal gestito e mal controllato, può produrre effetti negativi. Talvolta infatti esso risulta una scelta obbligata se l'interazione comunicativa avviene in particolari circostanze. Come ha affermato anche uno dei più grandi sociologi del secolo scorso, Erving Goffman, "il silenzio è la norma e parlare è qualcosa che esige una giustificazione". (2) Nel senso che il silenzio può rappresentare anche una forma di rispetto all'interno di una situazione sociale quale la conversazione. E' noto che essa è sempre costruita su dei ruoli e dei turni di parola, che, periodicamente o meno, ruotano fra tutti i partecipanti. Con questo vogliamo argomentare che colui che prima vestiva i panni del parlante potrà successivamente vestire quelli dell'ascoltatore o del destinatario e viceversa, pur essendo possibili casi di monopolizzazione della parola. Mentre il parlante è impegnato in prima persona nella conversazione, il silenzio degli ascoltatori (tutti, attivi o passivi che siano) segnala a chi sta parlando la giusta attenzione ed il rispetto che gli altri nutrono verso le sue parole. Il loro obbligo all'ascolto comunica perciò il riconoscimento di una delle regole fondamentali della conversazione, quella per cui si parla solo uno alla volta, e al contempo è, unito a una vera e propria azione di monitoraggio degli altri interlocutori, condizione necessaria della loro eventuale e prossima partecipazione alla conversazione. Nel riconoscere il nostro esser parte di un'interazione "focalizzata", all'interno della quale cioè il focus dell'attenzione è rivolto alle parole del parlante, dimostriamo di non ritenere ciò che personalmente abbiamo da dire come più urgente o più rilevante del discorso messo in atto da uno dei partecipanti all'interazione. Insomma, il silenzio è qualcosa che "in una situazione sociale dobbiamo a tutti gli altri presenti". (3) Va, quindi, visto come dovere: che poi non tutti lo accettino sotto questa veste costituisce un'altra questione.

Per riassumere, nell'ottica in cui il silenzio è comunicazione, chi prende parte ad una situazione di interazione nel ruolo di parlante (ma non solo) deve prestare attenzione a ciò che dice, in modo tale da non correre il rischio di offendere se stesso, l'idea che gli altri si sono fatti di lui, gli ascoltatori e naturalmente anche il destinatario specifico delle sue parole, e deve persino minimizzare e gestire con raziocinio le pause, gli intervalli della conversazione, i momenti di silenzio che tipicamente possono presentarsi in corrispondenza del passaggio da un turno all'altro.

Va precisato però che esistono situazioni in cui il silenzio è d'obbligo e situazioni in cui esso è facoltativo, così come esistono circostanze in cui parlare è legittimo e circostanze in cui è meglio tacere. Si guardi al caso di una conferenza: come direbbe Goffman, essa è "una istituzionalizzata e prolungata presa del diritto di parola in cui un parlante comunica le sue idee su un tema". (4) Goffman intende evidenziare che la conferenza è uno di quei casi in cui vi è un parlante fisso e un pubblico di ascoltatori altrettanto fisso. Ciò è evidente, visto che il pubblico non può intervenire nella conferenza in modo diretto o quando lo ritenga opportuno. Può farlo solo nei casi in cui, a conclusione della stessa, il conferenziere dedichi un esiguo lasso di tempo per soddisfare le domande e i dubbi degli spettatori. Questa sua condizione di solo ascoltatore è però il risultato di una negoziazione del turno di parola, per cui chi assiste ad una conferenza sa che chi parla monopolizzerà la discussione. E per certi versi la presenza o meno di un momento di discussione aperta con il conferenziere dipende da quanto il pubblico si sia precedentemente dimostrato attento e partecipe - il cosiddetto pubblico vivace, che riesce ad essere tale pur tacendo - e da quanto si sia dimostrato invece indifferente e poco predisposto a cogliere i sarcasmi del parlante - tipicamente il pubblico non reattivo.

Il silenzio, quindi, come rispetto ma anche come forma di condizionamento: un silenzio partecipe, che fa leva sulla comunicatività dei segnali non verbali di apprezzamento come l'annuire, condiziona il conferenziere ad assumere una buona predisposizione verso il pubblico. Un silenzio di non partecipazione lo indurrà probabilmente a terminare il suo discorso il più presto possibile, senza dilungarsi più di tanto sulle questioni da lui trattate. Tra il silenzio del pubblico e il discutere del conferenziere si stabilisce pertanto una connessione comunicativa: il primo veicola dei messaggi che influenzano il secondo e questo non può che rispondere a queste comunicazioni comunicando anch'egli.

Ogniqualvolta evidenziamo l'importanza di questo concetto ci balza alla mente il proverbio "chi tace acconsente"; non possiamo perciò fare a meno di procedere ad una breve disquisizione. Nel caso di tale proverbio il silenzio condiziona il comportamento altrui, che  rappresenta la risposta ad un meccanismo di azione-reazione, in cui il tacere è l'azione comunicativa di partenza. Il silenzio si trasforma quindi in una modalità di giustificazione di una particolare azione, in una legittimazione a compierla, in un permesso implicitamente concesso che ne favorisce l'esecuzione. E chi la "subisce" non può appellarsi al fatto di non aver proferito parola, in quanto il suo silenzio è stato, per l'interlocutore, più loquace di qualsiasi altra parola che avrebbe potuto pronunciare in sua sostituzione. Il torto sta quindi dalla sua parte, proprio perché non è stato in grado di raggiungere la giusta consapevolezza delle conseguenze del silenzio che ha messo in atto.

Un altro esempio di silenzio come obbligo viene da una situazione di interazione in cui quotidianamente ci imbattiamo e che è stata spesso oggetto di studi (si veda Simmel): vi siete mai domandati perché vicino al conducente di un mezzo di trasporto pubblico (l'autobus su tutti) è sempre ben evidente la scritta "non parlate all'autista"? E' semplice: per non distrarlo dal suo compito. Il silenzio, quindi, è un obbligo nei  suoi confronti, obbligo che viene sottolineato non da un debole infinito (non parlare all'autista), bensì da un severo imperativo (non parlate all'autista) e il cui riconoscimento è affidato alla responsabilità dei passeggeri. Come dire: a vostro rischio e pericolo.

In sintesi, l'aver riflettuto sul ruolo giocato dal silenzio in rapporto alla comunicazione non verbale e alla organizzazione della conversazione e della conferenza ci ha consentito di concludere che esso non va per niente sottovalutato, nemmeno in quei casi in cui sembra non incida per niente sulla situazione che fa da sfondo alle nostre azioni. Esso rappresenta uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui lo è una discussione animata; esso può rappresentare un dovere, una scelta, una forma di rispetto o di condizionamento. Per questo motivo, il silenzio è una delle armi più efficaci di cui l'uomo può disporre. E saperla usare nel modo corretto non è da tutti.

Note bibliografiche

(1) P. Watzlawick, J.H. Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio - Ubaldini Editore, 1967, Cap. 2, pp.40-41

(1) E. Goffman, Forme del parlare, Bologna, Il Mulino, 2000, Cap. 2 , Par. 13, Pag. 170

(2) Ibid. Cap. 2, Par. 13, Pag. 170

(3) Ibid. Cap. 4, Par. 2, Pag. 222

Testi di approfondimento

(1) Per la nozione di "interazione focalizzata": R. Hudson, Sociolinguistica, Bologna, Il Mulino, 2001.

(2) Per l'organizzazione della conversazione: H. Sacks, E. A. Schegloff, G. Jefferson, L'organizzazione della presa del turno nella conversazione, 1974, in G. Fele e P.P. Giglioli (a cura di), Linguaggio e contesto sociale, Bologna, Il Mulino, 2000.

(3) Per un'analisi del silenzio nei turni di disaccordo: A. Pomerantz, Essere in accordo o in disaccordo con una valutazione,1984, in G. Fele e P.P. Giglioli (a cura di), Linguaggio e contesto sociale, Bologna, Il Mulino, 2000.

(4) Per un'analisi della situazione interattiva sui mezzi pubblici: G. Simmel, Excursus sulla sociologia dei sensi, in G. Simmel, Sociologia, Milano, Comunità, 1989, pp. 555-562.

 

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