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EVIDENZIATORI DEITTICI: BRYSON, Merleau-PONTY E OLTRE
(Parol on-line, giugno 2000)

di ALES ERJAVEC

L'iniziale ricerca filosofica di Maurice Merleau-Ponty, specialmente il suo Philosophie de la perception (1945), unisce i risultati degli studi empirici della psicologia e della fisiologia con la fenomenologia di Husserl. Il suo ultimo lavoro incompiuto Le visible et l'invisible curato da Claude Lefort (oggi più conosciuto come filosofo della politica) e pubblicato nel 1964, tre anni dopo la morte di Merleau-Ponty - mette in luce un'argomentazione molto diversa, con una differenza tra i due simile alla distanza tra l'opera o piuttosto l'argomentazione del primo e dell'ultimo Heidegger. Se nel libro del 1945, Merleau-Ponty aveva sostenuto con forza le sue conclusioni filosofiche con i dati dell'esperienza scientifica, negli ultimi lavori e tra essi - specialmente il testo citato - mirò ad andare oltre quello che era stato detto, oltre ciò che può essere enunciato dal discorso filosofico tradizionale.

Ai suoi tempi, il ruolo di Merleau-Ponty nella filosofia e nell'estetica ha eguagliato quello dei maggiori pensatori nel campo filosofico di quegli anni. Nelle opere dei suoi contemporanei come Mikel Dufrenne o Jacques Lacan si trovano frequenti citazioni delle opere e delle idee di Merleau-Ponty, come si trovano nelle opere dei suoi allievi quali Jean-François Lyotard, Hubert Damisch o del già ricordato Claude Lefort. Perfino in anni recenti la sua continua presenza si è riscontrata a volte in contesti inattesi (1).

Negli primi anni sessanta, la Francia sperimentò l'insorgere dello strutturalismo che si diffuse rapidamente in altri paesi. All'interno della Francia ciò causò una lenta scomparsa della fenomenologia, compresa quella di Merleau-Ponty. Chiaramente nessuno dei suoi allievi fu capace di sviluppare una propria teoria che fosse abbastanza forte da avversare, sullo specifico terreno di Merleau-Ponty, la critica epistemologica e "scientifica" dell'ideologia tipica di gran parte degli anni '60 e '70 in Francia. Questa controversia presto divenne cosa quotidiana, trasformandosi in quel conflitto "così caratteristico della filosofia francese, tra due campi, la fenomenologia e l'epistemologia (quest'ultima è rappresentata in Francia da quella filosofia che afferma che spetta alla scienza chiarirci ciò che è, mentre il resto è "poesia", o, come si crede, espressione soggettiva) (2).

Nel corso degli anni '70 e '80 la presenza di Merleau-Ponty rimase importante nell'estetica, ma in un'estetica che si stava distaccando essa stessa dagli argomenti sollevati dall'arte contemporanea, per non parlare di quelli considerati dalla cosiddetta filosofia continentale, sia essa legata alla scuola di Francoforte o al post-strutturalismo. Mentre l'influenza di Merleau-Ponty tendeva a ridursi nel continente, la sua filosofia diveniva negli stessi anni particolarmente autorevole in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Non è mio scopo seguire ulteriormente la storia della ricezione di Merleau-Ponty. Basti dire che nella Francia propriamente detta, ancora nel 1991, la ricezione riguardante Merleau-Ponty era tale da far dire a un autore francese in tono di disapprovazione che Merleau-Ponty rappresenta una parte del patrimonio culturale contemporaneo, spesso citato, ma ciononostante assente. Nessuno lo ignora, tuttavia soltanto pochi lo hanno letto (3).

Come ho mostrato altrove (4), l'influenza di Merleau-Ponty emerse nell'area inaspettata della storia dell'arte contemporanea, come nelle opere di Rosalind Krauss (5) e Norman Bryson (sulla cui opera tornerò più avanti). Essa rimane anche presente in modo evidente nella filosofia e nell'estetica della Gran Bretagna (come nelle opere di Paul Crowther) (6) e negli USA (dove essa è per lo più indicata come filosofia, o per essere più esatti, "fenomenologia esistenziale").

Appare quindi che l'osservazione pessimistica fatta dall'autore francese appena citato riguarda forse più la Francia, mentre altrove Merleau-Ponty stava diventando sempre di più (o rimaneva) un autore importante e rilevante, sebbene non legato esclusivamente alle aree dell'estetica pura, ma a quelle della teoria artistica, delle riflessioni filosofiche sull'arte e la cultura postmoderna e, per quanto riguarda queste ultime due, specialmente in rapporto con il rivalutato ruolo del corpo umano. Come possiamo rilevare, tali applicazioni della fenomenologia di Merleau-Ponty (specialmente quella della percezione) vanno al di là dei campi classici su cui lui stesso si è intrattenuto (pittura, scultura, cinema e letteratura) per inoltrarsi nei campi dei nuovi media e delle nuove ricerche teoretiche. E' ovvio che l'estetica tradizionale non è stata capace di superare un' applicazione tradizionale della teoria di Merleau-Ponty nei campi artistici tradizionali per arrivare a una applicazione meno ortodossa o, comunque, essa non è stata capace di estendere le osservazioni e le tesi di Merleau-Ponty all'arte che è emersa dopo il modernismo. Chiarire le ragioni di un tale stato di cose è anche lo scopo stesso dell'opera di Merleau-Ponty: basta dare un'occhiata ai titoli dei capitoli e dei paragrafi in Le visible et l'invisible per notare la discrepanza tra le argomentazioni dei tardi anni '50 e dei primi anni '60 e quelle della filosofia coeva in cui la nozione di ontologia, per esempio, una delle nozioni cruciali della filosofia nell'ultimo Merleau- Ponty, si presenta a malapena.

Ciò che distingue particolarmente l'uso tradizionale della teoria di Merleau-Ponty da quella più recente è il problema del soggetto come viene affrontato da Freud e poi da Jacques Lacan. Sebbene Merleau-Ponty critichi il soggetto di Cartesio e elogi Freud, egli nondimeno rimane entro i confini del soggetto unificato. E' Lacan che supera questa limitazione e che ci permette di andare oltre, sviluppando teoreticamente e storicizzando la distinzione tra l'Immaginario e il Simbolico. Noi non sappiamo quale direzione il discorso di Merleau-Ponty avrebbe preso se fosse vissuto più a lungo, anche se sappiamo che egli si trovò concorde con Lacan. Ciò che risulta certo, piuttosto, è che fino a quel punto pochi tentativi vennero fatti, sia per colmare il vuoto tra i due pensatori che per costruire una teoria dell'Immaginario capace di andare oltre la devalorizzazione dell'Immaginario che così spesso si incontra nell'analisi psicoanalitica dell'arte (un aspetto implicito anche nell'osservazione precedentemente ricordata riguardante la filosofia francese).

Una interpretazione tradizionale del soggetto è al centro dell'indagine condotta da Merleau-Ponty sull'ontologia e fondata sul presupposto di un soggetto unificato. In Merleau-Ponty noi perciò incontriamo un certo paradosso: mentre egli rifiuta il soggetto nella concezione di Cartesio, esso riappare in una forma modificata nell'ambito della sua filosofia trascendentale - non così distinto da un mondo oggettivo ma come un tutto olistico.

Nel discorso filosofico di Merleau-Ponty possiamo scorgere tracce di Heidegger. Sarebbe comunque scorretto dare un peso eccessivo a questa influenza. Heidegger e Merleau-Ponty portarono a compimento un progetto simile che era tuttavia rivolto verso risultati molto differenti. Se, nel caso di Heidegger, è la letteratura, specialmente la poesia, ad essere il luogo del pensiero non alienato (per usare una terminologia in qualche modo diversa da quella di Heidegger); nel caso di Merleau-Ponty lo è la pittura (e parzialmente la scultura). In Heidegger è il linguaggio ad essere la casa dell'essere, in Merleau-Ponty è la visione o piuttosto la vista ad avere un tale posto fondamentale). I suoi saggi sulla pittura (Il Dubbio di Cézanne, Linguaggio indiretto, Voci del Silenzio, L'occhio e la mente a partire dal 1960) offrono un'eccellente introduzione allo sviluppo della filosofia di Merleau-Ponty, nel corso di tutta la sua carriera (1945, 1952, 1960), dalla fenomenologia esistenziale del Dubbio di Cézanne influenzato da E. Husserl fino allo strutturalismo di Linguaggio Indiretto e le Voci del Silenzio, in polemica con Sartre e Malraux, e poi alla formulazione di un'originale ontologia con L'occhio e la mente in una sorta di dialogo implicito con Heidegger (7).

Per quanto non ci sia da parte mia nessun tentativo di procedere ad un'analisi o comparazione storica del pensiero di Merleau-Ponty, vale la pena notare che entro questo spazio di almeno quindici anni il forte interesse di Merleau-Ponty per la pittura, particolarmente per quella di Cézanne, rimane costante. Le influenze appena ricordate sono perciò d'importanza minore, se le paragoniamo al continuo ruolo della pittura, o piuttosto di un genere speciale di pittura; a quello che sostiene la sua fenomenologia della percezione e che Martin Jay ha chiamato "una nuova ontologia della vista" (8).

E' probabilmente l'ultimo dei saggi sulla pittura, L'occhio e la mente, scritto nell'agosto del 1960, ad essere sia il trattato più conosciuto (o meglio noto), sia il saggio più influente del filosofo. E' fortunatamente anche quello che appare più legato connesso all'argomento su cui intendo soffermarmi.

L'altro autore di cui si vuole trattare è Norman Bryson, i cui scritti dall'inizio degli anni '80 hanno causato polemiche, critiche e una forte opposizione da parte dei suoi colleghi di vari dipartimenti di storia dell'arte ma che alla fine è riuscito a tirar fuori almeno una parte di storia dell'arte dal suo sicuro rifugio chiamato "scienza". Fino ad allora gran parte della storia dell'arte ha portato avanti la tradizione fondata dalla scuola viennese di storia dell'arte che dava spazio al dissenso soltanto quando si confrontava con le opere contemporanee. Invece di procedere per queste vie già tracciate, Bryson ha applicato i metodi non ortodossi della psicoanalisi e della linguistica strutturale nel campo più dichiaratamente sicuro della scienza della storia dell'arte (9).

Ma ciò non era tutto: il libro in cui Bryson ha elaborato le sue principali tesi Vision and Painting. The Logic of the Gaze (Logica dello sguardo) (1983) comincia con una acuta critica di ciò che l'autore chiama "l'atteggiamento naturale", atteggiamento che gli storici dell'arte - Erust Gombrich è quello più spesso menzionato - attribuiscono alla pittura e perciò allo sviluppo della storia dell'arte.

Da questa posizione favorevole, Bryson dichiara che la storia dell'arte non è niente altro che storia di "un contrasto tra tecnici per la produzione di una copia così perfetta secondo la quale l'arte supererà la natura. Le difficoltà che il pittore deve affrontare sono di carattere esecutivo e riguardano la fedeltà della sua registrazione del mondo che gli sta davanti (10).

Bryson segue questa inclinazione a trattare l'evoluzione della pittura come uno sviluppo di tecniche rappresentative il cui obiettivo è la creazione di una copia perfetta (essential), un'inclinazione che egli scopre nelle idee che procedono da Plinio e che, attraverso Dante, arrivano fino a Gombrich. In tale itinerario egli rovescia la tradizionale opposizione tra pittura classica e moderna (modernist) e la sostituisce con una piuttosto inaspettata, cioè quella tra pittura classica basata sulla rappresentazione prospettica da un lato e sulla pittura cinese a pennello dall'altra.

Tuttavia, cos'è la pittura rappresentativa, cos'è un'immagine? Già nel nono secolo Giovanni Damasceno dice che un'immagine è un carattere simile al suo prototipo, ma con una certa differenza. In ogni caso non è come l'archetipo (11). Un'immagine rappresentativa assomiglia sempre all'originale ma nello stesso tempo si differenzia da esso: differisce da esso per un certo grado che è nello stesso tempo essenziale; se non lo fosse, non sarebbe niente altro che una copia dell'originale. In altre parole, deve sempre esistere una differenza tra la rappresentazione e il suo referente, quella differenza che è all'origine della soddisfazione estetica e visiva del riconoscimento. Tale riconoscimento tradizionalmente basato sulla mimesis è lo scopo perseguito da ogni pittura e da ogni rappresentazione visiva che miri a essere chiamata artistica. A questo riguardo Gombrich sostiene la stessa poetica di Aristotele: per Aristotele la mimesis è uno degli aspetti che distingue l'uomo dagli animali, noi impariamo con attività mimetiche, e "un oggetto riprodotto produce piacere in tutti" (12). E Gombrich esprime lo stesso concetto : "Il piacere consiste nel riconoscimento" (13).

Ciò che Bryson ha inteso offrire quale alternativa all'arte della storia occidentale nel segno di una storia dello sviluppo della "copia perfetta", cioè di una riproduzione perfetta, è stata una storia dell'arte come "una storia della pittura quale pratica materiale" (14). Come ha affermato Bryson, la storia dell'arte, o comunque qualsiasi teoria possa raggiungere questo scopo, dovrebbe anche prendere in considerazione il ruolo del corpo umano nell'eseguire un dipinto: non è più sufficiente, ha detto Bryson, percepire un quadro come un risultato, ignorando al tempo stesso il procedimento (la "pratica materiale") che ha condotto ad esso. Al contrario, noi dovremmo fare attenzione a questa pratica, così come alla struttura corporea entro la quale e con il concreto aiuto della quale si è compiuta questa impresa. Bryson ha indicato la pittura classica cinese come un positivo esempio del modo in cui la qualità corporea di un dipinto deve venir percepita: il modo riconoscibile in cui i colpi di pennello erano stati eseguiti e il fatto che i colpi non erano da considerarsi soltanto strumenti di una tecnica, ma nello stesso tempo anche direttamente il mezzo espressivo della pittura come tale. La pittura occidentale invece è, nella sua sostanza, offerta al nostro sguardo come una scena statica. La pittura classica, eseguita in accordo con le regole della prospettiva, offre inoltre ciò che Kaja Silverman ascrive alla fotografia: "Mentre l'immagine in movimento consegna all'oblio ciò che rappresenta, la fotografia ci fa entrare in una stabile e duratura immagine dell'io" (15). Questa caratteristica della pittura, cioè la stabilità rappresentativa, può offrire al soggetto, nella pittura classica occidentale, un'alternativa alla strada percorsa da quella cinese. Bryson ha affermato che la pittura europea nega la deixis o ciò che egli ha chiamato "indicatori deittici" (16) - i segni di una iscrizione corporea nella rappresentazione: "La pittura occidentale è fondata sul disconoscimento del referente deittico, sulla scomparsa del corpo come luogo dell'immagine, e ciò doppiamente: per il pittore e per il soggetto che guarda. Se Cina e Europa possiedono le due più antiche tradizioni di pittura rappresentativa, le tradizioni nondimeno si biforcano, dall'inizio, nel punto della deixis" (17).

Se, dunque, una delle caratteristiche salienti della pittura cinese è la traccia visibile dell'esistenza del corpo dell'artista all'interno della pittura stessa, da dove dunque si genera questa caratteristica? Perché "il lavoro di produzione è costantemente messo in mostra al seguito delle sue tracce? Perché in questa tradizione la corporeità esecutiva è in mostra costante, e può venir giudicata nei termini che, in occidente, si applicherebbero soltanto a una performing art?" (18).

Senza alcuna intenzione di affrontare una discussione riguardante l'arte cinese, vorrei nondimeno dire che la tradizione europea della pittura e della scultura, o almeno la sua parte più recente, non è necessariamente così lontana dal genere di pittura che Bryson qui oppone allo stesso tipo di pittura occidentale. Svilupperò questo argomento tra poco.

Nell'arte cinese un dipinto è un microcosmo connesso al macrocosmo ed è simultaneamente sua parte integrante. Il vuoto all'interno di un dipinto "non è una presenza inerte, ma è attraversato da respiri che uniscono il mondo visibile (lo spazio dipinto) con quello invisibile" (19).

Come François Cheng spiega, lo spazio vuoto della pittura media tra i suoi vari elementi - tra la Montagna e l'Acqua per esempio - la cui relazione apparirebbe altrimenti rigida e statica. Il mondo è un tutto: il vuoto nel dipinto, che rappresenta una parte frammentaria di questo tutto, rappresenta perciò l'invisibile che struttura relazioni all'interno del visibile stesso, ed è perciò altrettanto importante delle superfici dipinte. In questo modo la pittura porta testimonianza alla unità cosmologica; quindi non c'è da stupirsi se "in Cina, di tutte le arti, la pittura occupa il posto più elevato" (20).

Leggendo il libro di Bryson Vision and Painting di cui ho citato prima alcuni passi, come Tradition and Desire (1984), e quindi la sua critica della storia dell'arte e di alcune delle sue regole, testi in cui si prende posizione a favore di una pittura e di una teoria che non solo prenderebbero in considerazione lo sguardo dell'osservatore, l'ottica insufficiente ma anche i segni corporei del pittore (illustrando i due temi con la pittura europea da un lato, e cinese dall'altro), continuamente ci vengono suggeriti un filosofo e un pittore che hanno perseguito uno scopo simile. Naturalmente questa coppia è data da Merleau-Ponty e Cézanne. Come nel caso di Bryson, anche Merleau-Ponty riprova "l'atteggiamento naturale" criticato da Husserl e porta avanti ciò non solo nell'ambito della scienza, ma particolarmente nel campo della pittura (21) che egli vede non soltanto in relazione al primo, ma in relazione alla sua verità interna, distorta dalla tradizione artistica del Rinascimento. Lo scopo di Merleau-Ponty era ed è rimasto l'aspirazione di Husserl per il "ritorno alle cose stesse". "Ritornare alle cose stesse è ritornare a quel mondo che precede la conoscenza, del quale la conoscenza sempre parla, e in rapporto al quale ogni schematizzazione scientifica è un linguaggio-segno astratto e derivato, come la geografia lo è in relazione al territorio in cui noi abbiamo imparato per prima cosa cos'è una foresta, una prateria o un fiume" (22).

Per Merleau-Ponty è in primo luogo la pittura a offrire un accesso privilegiato a ciò che egli più tardi comincerà a chiamare Essere. Sebbene la filosofia sia, come "l'arte il fatto di portare la verità nell' "essere" (23), "l'arte, particolarmente la pittura, attinge a questa struttura di significato elementare che l'operazionismo preferirebbe ignorare. L'arte e solo l'arte agisce così in piena innocenza (24)".

Ciò che la filosofia può fare è aprire i nostri occhi al mondo e renderci consci delle sue limitazioni. "Una filosofia diventa trascendentale, o radicale, non prendendo il suo posto nella coscienza assoluta senza ricordare i modi con i quali ciò avviene, ma considerando se stessa come un problema; non postulando una conoscenza resa totalmente esplicita ma riconoscendo come problema filosofico fondamentale questa presunzione da parte della ragione (25)".

Una parte di questa "presunzione da parte della ragione" è anche la credenza in ciò che Bryson chiamerà più tardi la "Copia Perfetta", la credenza che una resa autentica e universalmente valida del mondo percepito sia possibile attraverso lo sviluppo di una tecnica di rappresentazione pittorica.

La filosofia, per forzare i tentativi della ragione di distanziarsi, come coscienza assoluta, dal mondo percepito circostante di cui è essa stessa parte integrante, deve partire dal più vicino punto di partenza possibile che è il proprio corpo.

Al contrario di Cartesio, che aveva stabilito una distanza infinita tra res extensa e res cogitans, Merleau-Ponty è tra i primi  filosofi a sottolineare la necessità di teorizzare la coscienza come una parte del nostro essere corporeo (tali considerazioni abbondano già nell'Ottocento, in Marx tra gli altri) - presentando sempre questo argomento nel corso di gran parte della sua opera - ma, procedono  "incorporando" i punti di vista all'interno delle sue interpretazioni delle opere di pittori (e occasionalmente scultori); prendendo posizione da qui per un'iscrizione percettiva e corporea di un pittore all'interno della sua pittura e anche del suo osservatore con cui il pittore divide espressamente il campo visivo.

Come nella cultura cinese, anche nella filosofia di Merleau-Ponty la pittura è una forma d'arte privilegiata. Merleau-Ponty sostiene, nella Prefazione alla Phénoménologie de la perception " che cercare l'essenza della percezione è dichiarare che la percezione è, non presunta vera, ma definita come accesso alla verità ... Noi non dobbiamo chiederci se realmente percepiamo un mondo, noi dobbiamo invece dire : il mondo è ciò che noi percepiamo" (26).

Sia nel caso della pittura cinese che in quello di Cézanne il pittore è qualcuno che si sforza di presentare e rappresentare l'unità olistica dell'invisibile e del visibile, la presenza di un'assenza temporale o spaziale in ciò che è percepito come presenza (27). Quando Bryson scopre in un dipinto cinese di paesaggio che il paesaggio è il soggetto e che il soggetto è sia "il lavoro del pennello" nel tempo reale, che "... un'estensione del corpo del pittore" (28), allora noi non possiamo dire che qualcosa di simile è vero nella giustapposizione dei singoli colpi di pennello in Cézanne (29), o nel modo in cui Rodin rende visibili le saldature di collegamento sulle sue sculture? Oppure, per andare oltre, non potremmo dire che il bricolage surrealista nella poesia automatica o nella fotografia "rende visibile" il mondo, nel quale è costituita la membrana omogenea del Simbolico?

La presentazione da parte di Merleau-Ponty dei dipinti di Cézanne (come delle sculture di Rodin o Giacometti) mostra fondamentali somiglianze con ciò che Bryson offre in rapporto alla pittura cinese e che egli nello stesso tempo presenta come una concreta alternativa all'atteggiamento della storia dell'arte tradizionale e della pittura classica europea basata sulla prospettiva, un'alternativa che egli prova a completare con un diverso punto di riflessione, un punto che accentuerà il "riferimento deittico", e perciò il corpo, come un soggetto teorico ineludibile. Parrebbe di conseguenza che (almeno nel libro del 1983) ciò che Bryson cerca di proporre o difendere sia in larga misura già presente nel lavoro iniziale di Merleau-Ponty.

Nel Marzo 1945 Merleau-Ponty tenne una conferenza sul "Cinema e la Nuova Psicologia". Terminò osservando che se "la filosofia e il cinema sono in accordo, se la riflessione e il lavoro tecnico vanno nella stessa direzione, ciò accade perché il filosofo e il cineasta condividono una certa maniera d'essere, una certa visione del mondo che è quella della stessa generazione" (30).

Ciò che l'arte di Cézanne, Matisse, Paul Klee o Rodin, le cui opere esemplificano al massimo i punti di vista di Merleau-Ponty sulla percezione, ha in comune con il cinema è che ora esse rappresentano forme d'arte tradizionali. Il cinema oggi è una delle pochissime forme d'arte che conserva il suo status distinto, sia tecnico che ontologico, proprio come fanno la scultura classica e la pittura da cavalletto. Oggi molta arte o cultura visiva disgrega senza posa le nostre convenzionali nozioni di arte, limitando l'attribuzione senza riserve dello status di "arte" in primo luogo all'arte del periodo pre-modernista e modernista. In tale arte non è difficile scoprire gli attributi esistenziali percepiti e descritti da Merleau-Ponty in dipinti, sculture o anche nelle opere cinematografiche. Nel modernismo, al culmine di esso, ciò che viene visto - sebbene in certi casi criticato o contrastato come in Duchamp e nell'arte concettuale - non è ancora problematico. Il discorso "anti - oculare" affiora soltanto e la "celebrazione nella visione" di Merleau- Ponty, sostenuta da concrete analisi psicologiche e da esperimenti, è una teoria utile che attrae e influenza estetici e filosofi come pittori e scultori. La sua teoria, a questo riguardo, condivide il posto speciale che la fenomenologia in generale e la fenomenologia esistenziale in particolare occupa fino all'avvento dello strutturalismo; poiché la fenomenologia esistenziale in particolare non soltantovede l'arte come un'esplosione di autenticità esemplare, ma anche di autenticità privilegiata nel moderno mondo tecnologico (31). Essa risponde quindi a un più profondo bisogno degli artisti e del loro pubblico di un discorso che faccia attenzione a ciò che potrebbe essere chiamato "la specificità dell'arte": si assegna alle opere d'arte sia una posizione ontologica centrale che uno status ontologico indipendente - una denominazione d'importanza capitale in un secolo di grandi narrazioni ideologiche. La fenomenologia inoltre riconosce il ruolo scambievole dell'esperienza e della capacità, l'azione reciproca tra conscio e subconscio (o inconscio) e gli spostamenti della mente tra futuro, passato, presente e fantasia.

La posizione di questo scambio "originario" è ciò che di solito viene descritto come campo dell'Immaginario, una distinzione che ha confinato del tutto in questo campo l'intera sfera dell'arte. Un esempio di percezione che Merleau-Ponty ha in mente e su cui egli basa lo status privilegiato della pittura è quello che è stato molto più spesso un tema dominante della fotografia che non della pittura. Ne offre un esempio nel saggio L'occhio e lo spirito del 1961: "Quando attraverso lo spessore dell'acqua io vedo il fondo piastrellato della piscina, non è che lo veda nonostante l'acqua e i riflessi, io lo vedo attraverso di essi e a causa di essi. Se non ci fossero distorsioni, riverberi della luce del sole, se fosse che senza quel riflesso ho visto la geometria delle piastrelle, allora io cesserei di vederlo come è e dove è - il che significa al di là di qualunque luogo identico e specifico" (32).

Sono queste le scene che il pittore dipinge e che intuisce nelle parole profondità, spazio, colore, continua Merleau-Ponty. Come cogliere una presentazione così vivace con delle nozioni teoriche? E' naturale che la sola possibilità che ci è data è quella di emulare la natura stessa di tale immagine, renderla cioè poeticamente, non teoreticamente, in breve provando proprio con questo gesto la tesi di Merleau-Ponty sulla natura totalizzante della nostra esperienza e mostrando che il cogito non può mai esistere all'interno della stessa struttura riflessiva, come l'esperienza percettiva appena indicata da Merleau-Ponty. L'opposizione ad una descrizione puramente scientifica di questo punto di vista lo spinge ad una difesa dell'arte e a un attacco alla tradizione cartesiana che vedrebbe, nella scena di cui sopra, la rifrazione della luce come il solo aspetto teoreticamente rilevante.

In pratica la fenomenologia di Merleau-Ponty non ha mai disconosciuto la tradizionale credenza in un soggetto unificato; sebbene non fosse cogito, esso rimaneva concepito in modo trascendentale. Il problema in quanto tale non potrebbe veramente sorgere all'interno di una tale struttura filosofica, poiché nella fenomenologia di Merleau-Ponty la riflessione noematica di Husserl, che il primo ha accettato, "rimane all'interno dell'oggetto e, invece di generarlo, porta alla luce la sua fondamentale unità (33)". Il problema del soggetto è perciò dissolto nella eterna unità trascendentale di soggetto e oggetto, un'unità nella visione di Merleau-Ponty, così ben realizzata dalla pittura. Sta alla filosofia svelare ciò, portare alla luce questa unità e tenere i nostri occhi continuamente aperti su di essa. Nondimeno, la persona che percepisce è un soggetto empirico e corporeo che conserva in sé la sua (di lui o di lei) unità psicologica della Gestalt.

E' qui che la psicoanalisi è intervenuta e ha decostruito l'effettivo io trascendentale della fenomenologia di Merleau-Ponty: anche se Merleau-Ponty nel saggio L'occhio e lo spirito aveva citato entusiasticamente Cézanne o Klee dicendo: "Certi giorni ho avvertito che gli alberi mi guardavano e mi parlavano (34)". Jacques Lacan ha interpretato la relazione tra lo sguardo e il mondo percepito in modo molto diverso, affermando in Quattro concetti fondamentali di Psicoanalisi (Seminario XI), che lo sguardo e l'occhiata sono in un incessante scambio, rendendo il soggetto un'entità instabile e continuamente decostruita e ricostruita e che il ruolo di mediazione del linguaggio, del Simbolico che determina sia il visibile e che lo sguardo.

L'interpretazione di Lacan dello sguardo e dell'occhiata, da questo seminario del 1964, è soggetto a innumerevoli e divergenti interpretazioni. Lacan riconosce i meriti di Merleau-Ponty e la sua insistenza sugli oggetti capaci di restituire  lo sguardo; ma egli ascrive all'oggetto la funzione dell'occhiata che in modo immaginario ci guarda dalla posizione dell'Altro. Lacan, inoltre, richiama l'attenzione su ciò che anche Merleau- Ponty ha tanto dibattuto: lo spazio geometrico della nostra percezione - non necessariamente uno spazio visivo - differisce da quello del nostro sguardo che concepisce il suo specifico campo visivo sulla base del fatto che noi percepiamo il mondo e gli oggetti ad esso connessi. Per questa ragione, come Merleau-Ponty mostra in innumerevoli occasioni, il campo visivo costringe Cézanne a estendere o a curvare i tavoli, oppure è sempre per questo motivo che il pittore ci mostra l'interno di un portacenere, anche se normalmente sarebbe per noi invisibile, ecc. Il quadro, per rappresentare qualcosa in modo tale che la nostra percezione visiva si conformi alla percezione offerta dal linguaggio, deve mostrare la presenza attraverso l'assenza e deve rappresentarla o renderla visibile indirettamente. Merleau-Ponty cita con approvazione Cézanne che spiega come si deve dipingere un motivo da un romanzo di Balzac: non mostrando l'elemento che cattura maggiormente l'occhio e i suoi tratti, ma quelli che lo circondano. L'invisibilità così restituita metterà in risalto la tovaglia bianca come fosse uno strato di neve fresca appena caduta (35). Questo può essere lo stesso tipo di visibilità capace di mediare a cui si riferiva François Cheng (36). In altre parole e come già si è osservato, i lavori di Cézanne o di Rodin (o quelli di Francis Bacon, per esempio) rivelano "indicatori deittici" simili a quelli messi in luce da Bryson nel caso della pittura di pennello cinese. Questa somiglianza punta alla percezione modificata della relazione tra il mondo e l'io trascendentale nel modernismo, in quanto paragonata a quella che esiste nella struttura cartesiana. In altre parole la somiglianza precedentemente ricordata tra il lavoro di Cézanne e la fenomenologia di Merleau- Ponty rivela una più profonda somiglianza tra il lavoro di alcune figure chiave dell'arte europea moderna e la fenomenologia a cui Bryson attribuisce "la massima maturità" (37); quando arriva a ciò che egli chiama "la dimensione umana della visione". La ragione della descrizione di Merleau-Ponty dell'opera di Cézanne, nei termini che tanto assomigliano a quelli della pittura cinese, è la sua interpretazione del rapporto esistente tra l'io trascendentale e il mondo; entrambi rappresentano un tutto che è, almeno a questo riguardo, molto simile alla percezione cinese del mondo e del nostro posto all'interno di esso. Appare perciò che Bryson potrebbe ben scoprire esempi d'arte come "pratica materiale" già entro la tradizione moderna e modernista della pittura e della scultura europea.

Ciò che Bryson trova mancante in Merleau-Ponty è ciò che Lacan ha introdotto nella sua analisi dello sguardo, vale a dire la dimensione sociale del vedere, il cui veicolo è il linguaggio. "Noi non possiamo mai sperimentare direttamente il campo visivo di un altro essere umano - questo è sicuro : la sola conoscenza di un altro campo visivo, che possiamo acquisire, è quello che ci viene attraverso la descrizione. Tale descrizione prova che anche altri vedono ciò che noi vediamo, ma la definizione di ciò che è visto si origina perciò non nel campo visivo stesso, ma nel linguaggio: si origina al di fuori della vista, nei segni della descrizione" (38).

"L'esperienza cosciente ha un carattere strettamente individuale, nel duplice senso che è l'esperienza di un individuo situato e datato, e che è essa stessa un'esperienza che non può essere riprodotta" (39).

L'incapacità di "sperimentare direttamente il campo visivo di un altro essere umano" non  preclude l'identificazione e un'esperienza sostanzialmente simile o "condivisa". Ciò che vedo con i miei occhi è anche all'interno della mia esperienza, un evento passeggero, ma tale da poter nondimeno esistere entro questa esperienza individuale o (perfino) collettiva, immediatamente ed eternamente riconoscibile. Il mio sguardo o il mio colpo d'occhio è determinato dalle caratteristiche specifiche della vista e della nostra comune storia visiva. E' all'interno di queste che la nostra comune esperienza - della pittura per esempio, quando parliamo dell'arte più recente - non è dissimile da quella offerta dall'arte cinese. Se questo è vero, ciò comporta qualche più ampio denominatore comune che va al di là di limiti culturalmente prefissati.

Mentre Merleau-Ponty avverte con forza che la tesi della prospettiva classica sia la più giusta (40), egli nondimeno dichiara che "è comunque possibile che Cézanne abbia concepito una forma d'arte la quale, pur determinata dalla sua condizione nervosa, resta valida per tutti" (41).

Come prima ho suggerito, quale peso questa dichiarazione comporti e in quali modi ciò possa essere universalizzato, rimane una questione aperta, ma rivela comunque che Merleau-Ponty aveva in mente un soggetto unificato come prototipo dell'io trascendentale che percepisce. La psicoanalisi lacaniana decostruisce completamente la nozione di un tale soggetto unificato. O, come ha commentato Jean Hyppolite nel seminario di Lacan del 1954-55 sulla Gestalt discutendo su Merleau- Ponty, la sua è fondamentalmente "una fenomenologia dell'immaginario nel senso in cui comunemente impieghiamo il termine" (42). Nessuno stupore quindi che l'interpretazione fenomenologica di Merleau-Ponty dell'io trascendentale, nonostante il suo essere fuso col mondo nelle sue differenti fogge, abbia avuto lo stesso destino della nozione stessa di arte, cioè quello di essere dichiarata un resto di un modo di pensare umanistico (e fondamentalmente ideologico o "idealista").

Il fatto che Merleau-Ponty non abbia mai cercato di stabilire all'interno dell'arte alcuna gerarchia normativa capace di superare ciò che è comune alla fenomenologia esistenziale nel suo insieme, rappresenta un difetto della sua filosofia o, al contrario, una coscienza dell'impossibilità o dell'obsolescenza di un tale tentativo? Oppure questa incessante connessione del percettivo e dell'artistico (il visualmente percepito e la pittura) mostra semplicemente che l'arte è soltanto aspetto speciale o privilegiato del mondo vissuto come tale? Il fatto che Lyotard nel suo libro del 1971 Discours, figure (43) abbia cercato di portare avanti la presentazione fenomenologica di Merleau-Ponty sull'arte e sul visibile, così da contrastare il privilegio attribuito al Simbolico a spese dell'Immaginario proprio di Lacan ed abbia però rinunciato a un tale tentativo, non testimonia forse che il tentativo è impossibile?

Tutte queste domande richiedono complesse risposte, sono tutte cruciali non solo per una teoria della percezione, ma specialmente per qualsiasi dibattito attuale sull'arte. Studiosi di altre aree sono giunti alla conclusione che alcune delle nozioni tradizionalmente "non scientifiche" e trascurate, simili a quelle riguardanti l'arte, non solo meritano, ma è giusto che siano oggetto di un esame minuzioso. Una tale nozione è quella di "amore", che Kaja Silverman ha recentemente avanzato come nozione degna d'essere rivista a partire da una nuova prospettiva, quella di idealizzazione. Sebbene l'arte cada entro una categoria molto diversa da quella dell'amore, tutte e due sono legate sia all'Immaginario che all'idealizzazione.

L'amore in diversi momenti storici, è stato dichiarato categoria morta o transeùnte.

Esso inoltre "è sempre parso privo di rispettabilità come oggetto di ricerca intellettuale - per rappresentare la vera e propria quintessenza del Kitsch" (44).

Dalla nostra prospettiva attuale può essere teoreticamente valido e praticamente rilevante riesaminare le nozioni di esperienza estetica e artistica e rivalutare la nozione di arte - non come entità ontologica, ma come parte dell'incessante pratica e del bisogno dell'uomo. Partendo da una posizione a favore della reintroduzione di un concetto piuttosto tradizionale, non intendo negare distinzioni e nozioni poste soprattutto dalla psicoanalisi (e poi applicate o trasposte in altri campi principalmente da varie teorie ideologiche), ma vorrei al contrario mettere in luce che l'arte e l'esperienza che essa offre hanno un posto importante nel nostro mondo vissuto. Mentre il loro continuo emergere può essere contingente, questa contingenza non diminuisce in alcun modo la loro importanza, come mostrano i paragoni prima ricordati tra l'arte cinese e quella sostenuta da Merleau-Ponty. Da questa prospettiva (prospettiva determinata anche dalla svolta "postomoderna" nell'arte, che esclude il credo premodernista come pure quello modernista in un soggetto unificato) la necessità di rivalutare l'Immaginario e rivalutare l'arte come fondamentale attività e valore umano appare sempre più legittimata.

Come si adatta in questo quadro il tema degli "evidenziatori deittici?" Bryson ha giustamente richiamato l'attenzione sul fatto che in gran parte della pittura occidentale gli evidenziatori deittici erano assenti, sebbene, come nella pittura classica, non fossero tanto assenti come egli ha sostenuto. Tuttavia la sua critica non coglie nel segno in quanto ignora quel segmento della pittura modernista che rende visibili le pennellate, sia nelle opere di Cézanne o in quelle di Francis Bacon o Richard Serra, per indicare due più recenti esempi.

Ma perché gli evidenziatori deittici dovrebbero essere legati a una tale questione cruciale e perché la loro presenza dovrebbe essere una svolta tanto importante nella storia dell'arte? Le ragioni dell'insistenza di Bryson su tale punto sono duplici: 1) essi rompono con la tradizione secolare della pittura occidentale piegata a puro veicolo rappresentativo, e 2) essi tengono conto di ciò che Bryson chiama "iscrizione corporea" del pittore; essi rivelano il precedente isolamento del pittore - in quanto autore, soggetto - entro lo stesso universo cartesiano che Merleau-Ponty così fortemente aveva criticato. Sarebbe tuttavia errato dire che Merleau-Ponty offre la soluzione filosofica al problema sollevato da Bryson, poiché la sua filosofia rimane prigioniera dell'io trascendentale. Quindi anche se Merleau-Ponty mostra i principi generali che Bryson cerca nella pittura occidentale e li scopre in quella cinese, la filosofia di Merleau-Ponty a questo proposito non colpisce nel segno rispetto all'obiettivo di Bryson. Tuttavia le analisi che Merleau- Ponty fa e gli esempi che propone, mostrano il fatto che ciò che Bryson cerca e pensa di poter scoprire soltanto nella pittura classica cinese è già qui, tra noi, nella nostra pittura moderna.

Giungendo alla conclusione azzardo l'ipotesi che nella pittura occidentale contemporanea gli evidenziatori deittici possono diventare pienamente visibili solo quando s'incontrano due condizioni: 1) quando la coscienza della natura provvisoria del soggetto diventa onnipervasiva, facendo cessare l'aspirazione a vedere il soggetto e l'oggetto come entità omogenee anche quando concepite in modo olistico e trascendentale; e 2) che (a) il limite tra arte e vita quotidiana è annullato o (b) che esso viene ristabilito su una base nuova. Sottolineo per finire che oggi tutt'e due le opzioni sono presenti: (aa) molta arte contemporanea - arte vista nelle mostre da Venezia a Kassel - testimonia di un tale annullamento e (bb) molta teoria contemporanea (da Arthur Danto e Suzi Gablik) ricerca un nuovo fondamento dell'arte, superando così la naturale fine dell'arte provocata dal ricordato annullamento del confine tra arte e vita quotidiana.

(Traduzione di Raffaele Milani)


Note

(1) Cfr. Jean Baudrillard, "La Guerra del Golfo non avrà luogo", in: Mario Perniola, Guerra virtuale et guerra reale: Riflessioni sur conflito del Golfo, Milano: Associazione Culturale Mimesis, 1991, pp. 85-92, parafraso il titolo del saggio di Merleau-Ponty "La guerre a eu lieu", Giugno 1945 (Cf. Maurice Merleau-Ponty, Sense et non-sens (Paris: Gallimard, 1996), pp. 169-85).

(2) Vincent Descombes, Modern French Philosophy, trad. di L. Scott-Fox and J.Merleau- Harding (Cambridge: Cambridge University Press, 1980), pp. 59-60.

(3) Renaud Barbaras, De l'être du phénomène. Sur l'ontologie de Merleau-Ponty (Grenoble: Millon, 1991), p. 9.

(4) Ales Erjavec, "Merleau-Ponty: Eye, Body and Postmodernism", JTLA (Tokyo), vol. 20 (1995), pp. 75-86.

(5) Rosalind Krauss,  The Originality of the Avant-Garde and Other Modernist Myths (Cambridge, Mass: MIT, 1986), esp. pp. 272-3.

(6) Cfr. Paul Crowther, Critical Aesthetics and Postmodernism (Oxford: Oxford University Press, 1993).

(7) The Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting, ed. Galen A. Johnson (Evanston, Ill.: Northwestern University Press, 1993), p. xiii.

(8) Martin Jay, Downcast Eyes. The Denigration of Vision in Twentieth-Century French Thought (Berkeley: University of California press, 1993).

(9) Il termine "scienza" viene qui usato nel senso continentale: in Gran Bretagna e negli Stati Uniti nessuno storico dell'arte affermerebbe che la sua disciplina poteva essere o è "scienza". Poiché quel termine è esclusivamente riservato alle scienze biologiche, alla fisica ecc.  Nel continente, specialmente gli ambiti filosofici tedesco e francese, la parola scienza ha o forse aveva, una connotazione molto diversa. Ci è ben nota l'ampia gamma di possibili significati che racchiude il termine "Wissenschaft" e sappiamo bene come abbia proliferato la scientificità tra le sciences humaines negli ani 60 e 70 in Francia, quando un discorso teoretico era o scientifico o ideologico (il che ci porta di nuovo alla già menzionata osservazione di Descombes). In Gran Bretagna e negli Stati Uniti il quadro teoretico - usiamo questa parola preferendola a "scientifica" - della storia dell'arte veniva completata dalla diffusa applicazione della filosofia e dell'estetica analitiche; ed entrambe le tradizioni avevano caratteristiche neokantiane. Entro un tale quadro l'intenzione di Bryson di applicare un metodo strutturale, materialistico e rigoroso viene percepito come scandaloso ed a ragione.

(10) Norman Bryson,  Vision and Painting. The Logic of the Gaze (New Haven: Yale University Press, 1983) pp. 1-3.

(11) Citato in Moshe Barasch, Icon (New York University Press), p. 193.

(12) Aristotele, Poetica, 1448b.

(13) E.H. Gombrich,  The Image and the Eye (Oxford: Phaidon, 1982), p. 122.

(14) Bryson, op. cit., p. 16.

(15) Kaja Silverman, The Threshold of the Visible World (New York: Routledge, 1996), p. 198.

(16) Bryson, op. cit., p. 89.

(17) Ibid.

(18) Ibid., p. 92.

(19) François Cheng, Vide et plein. Le langage pictural chinois (Paris: Seuil, 1991), p. 47.

(20) Ibid., p. 11.

(21) "La prospettiva classica è soltanto uno dei modi che l'umanità ha inventato per proiettare il mondo percepito davanti a sè e non la copia di quel mondo. La prospettiva classica è la libera interpretazione di una visione spontanea, non perché il mondo percepito contraddica le leggi della prospettiva classica e ne imponga delle altre, ma piuttosto perché non ne richiede una particolare e non segue l'ordine delle leggi" (Merleau-Ponty, "Indirect Language and the Voices of Silence", The Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting, p. 86).

Un brano ancor più rilevatore riguardante la prospectiva artificialis può essere tratto dal saggio L'oeil et l'esprit. "I pittori sapevano per esperienza che nessuna tecnica della prospettiva è una soluzione esatta e che non esiste nessuna proiezione del mondo esistente che lo rispetti in tutti i suoi caratteri e che meriti di diventare la legge fondamentale della pittura [..] per esempio gli italiani adottavano il ruolo della rappresentazione dell'oggetto, ma i pittori nordici scoprirono ed elaborarono la tecnica formale di Hochraum, Nahraum, Schrägraum. In questo modo la proiezione piana non sempre stimola il nostro pensiero alla scoperta della vera forma delle cose, come credeva Descartes. Al di là di una certa fase di trasformazioni, ciò ci rimanda al contrario al nostro punto di osservazione; quanto alle cose, esse fuggono in una lontananza che il pensiero non riesce a raggiungere. Qualcosa riguardo allo spazio ostacola i nostri tentativi di considerarlo dall'alto" (Merleau-Ponty The Merleau-Ponty  Aesthetics Reader, Philosophy and Painting, p. 135). Come ciò sia in rapporto con Descartes lo si intuisce dalla affermazione di Lacan che per Descartes "le persone non erano altro che abiti che fanno una passeggiata" (J. Lacan, Le Séminaire XX - Encore  (Paris: Seuil, 1975), p. 12). Un'analisi dell'organizzazione decentralizzata dallo spazio visivo dei 'pittori nordici', che implica legami tra una tale pittura e gli sviluppi ottici dell'epoca, è offerta da Svetlana Alpers, The Art of Describing: Dutch Painting in the Seventeenth Century (Chicago, Chicago University Press, 1983).

(22) Maurice Merleau-Ponty, Phenomenology of Perception (London: Routledge, 1995), p. ix.

(23) Ibid, p. xx.

(24) Merleau-Ponty, "Eye and Mind", The Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting, p. 123.

(25) Merleau-Ponty, Phenomenology of Perception, p. 63.

(26) Ibid, p. xvi.

(27) Questa è tra l'altro la ragione della sconfessione della fotografia da parte di Merleau-Ponty. La negazione più esplicita della fotografia di Marey in quanto prototipo della fotografia si trova nel saggio L'oeil et l'esprit. Si potrebbe tuttavia dire che Merleau-Ponty non rende un buon servizio alla fotografia in quanto egli la considera soltanto come uno strumento di registrazione visiva imparziale ("scientifica"), ignorando quindi il fatto che alla sua epoca (il saggio fu scritto nell'agosto del 1960) la fotografia aveva superato l'orizzonte percettivo (e creativo) degli esperimenti di Marey e che era perciò semplicistico ridurla al grado d'incisione da camera oscura di Descartes.

(28) Bryson, op. cit., p. 89.

(29) L'accentuazione di Bryson sulle tracce delle pennellate merita forse un commento. Perché mentre nella pittura europea i deittici non possono essere sempre così presenti come in quella cinese, nondimeno è vero che lo stile dell'artista o la scrittura pittorica è spesso unica. Merleau-Ponty cita questo dicendo "la scrittura di Michelangelo è attribuita a Raffaello in 36 casi, ma è correttamente identificata in 221 casi. Riconosciamo perciò una certa struttura che è comune alla voce, alla fisionomia, ai gesti e all'andatura di una persona. Per noi ogni persona non è nient'altro che questa struttura o questo modo di essere al mondo" (Merleau-Ponty, Le cinéma et la nouvelle psychologie, in Sens et non-sens, p. 68).

(30) Merleau-Ponty, Sens et non-sens, p. 75.

(31) Una simile posizione che emerge però da uno sfondo molto diverso è quella di Adorno, Marcuse e dei difensori dell'avanguardia e della neovaguardia nella Germania postbellica in cui tutti considerano l'arte come un unico locus di autenticità in un mondo mercificato.

(32) Maurice Merleau-Ponty, "Eye and Mind", The Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting, p. 142.

(33) Merleau-Ponty, Phenomenology of Perception, p. x.

(34) Merleau-Ponty, "Eye and Mind", The Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting, p. 129.

(35) Merleau-Ponty, "Cézanne's Doubt", The Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting, p. 66; Phenomenology of Perception, p. 198.

(36) Cf. Cheng, op. cit., p. 47.

(37) Normann Bryson, Tradition and Desire. From David to Delacroix (Cambridge, Mass.: Cambridge University Press, 1984), p. 65.

(38) Ibid., p. 66.

(39) Jean-François Lyotard, Phenomenology (Albany: State University of New York Press, 1991), p. 77.

(40) Cf. Merleau-Ponty, The Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting, p. 86.

(41) Ibid., p. 61.

(42) Citato in Jacques Lacan, le Séminaire II - Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique de la psychanalyse (Paris: Seuil, 1978), p. 100.

(43) Jean-François Lyotard, Discours, figure (Paris: Klincksieck, 1971).

(44) Silverman, op. cit., p. 1.

 

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