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Vien tra antichi amori e neoclassicismo

Ettore JANULARDO

“Questa mercante è una sorta di schiava che presenta a una giovane Greca […] un Amorino tenuto per le alucce, un po’ come i venditori di pollame vivo offrono la loro mercanzia”[1]: il commento del “Mercure de France” inquadra in termini di prodotto di consumo la scena presentata al Salon del 1763 da Joseph-Marie Vien (1716-1809). Apprezzata e ammirata, l’opera Marchande d’Amours (Musée National du Château de Fontainebleau, Fig. 1) riutilizza in ottica settecentesca “il Soggetto di una Pittura antica”[2], ovvero l’affresco, proveniente da Villa Arianna di Stabiae, poi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Fig. 2).

Dalla bipartizione che consente una temporanea separazione tra lo spazio della donna seduta e quello di chi sulla destra esibisce la sua “mercanzia”, il piccolo affresco del I secolo d. C., rinvenuto nel 1759, struttura una scena d’impianto teatrale, come si può evincere dalla descrizione dello spazio pittorico nel tomo terzo de Le pitture antiche d’Ercolano, ove si illustra una sorta di sipario:

“In questa pittura, che scovre da una parte l’interno di una stanza oscura, sulla quale si alza un panno di color giallo, e dall’altra un luogo illuminato, con una porta, avanti a cui è tirata una portiera di color verdastro, potrebbe dirsi, che abbia forse voluto il dipintore rappresentarci i tre Amori […]”[3].

Altrove si ricorda che “il quadretto con la Venditrice di Amori si iscrive in un sistema ornamentale del quale sono ben individuabili stilemi e cifre compositive, permane però problematica l’interpretazione della scena”[4]: e si evidenziano elementi evolutivi nella resa della raffigurazione nonché interpretazioni in senso differente rispetto alle più vecchie ipotesi. Ma in prospettiva essenzialmente artistico-estetica ci si appunta qui sull’antica lettura dell’opera, riverberatasi in un Settecento pittorico all’insegna di molteplici potenzialità raffigurative. In tale ottica, Penìa[5], madre e nutrice, presenta gli Eroti – Eros, dio del bisogno d’amore; Himéros, personificazione del desiderio amoroso; Pothos, il desiderio nostalgico – ad Afrodite e Peitho. Sorta di emblematica presentazione-riflessione sul “commercio erotico” – da intendersi come scambio, all’interno del quale è interpretabile la scena come “ultimo capitolo relativo alla storia di Eros che, fuggitivo, è stato catturato, punito e, infine, perdonato”[6] –, l’opera giunge fino all’Ottocento inoltrato attraverso varie apparenze: incisioni a stampa, dipinti, schizzi, micromosaici, decorazioni per porcellane.

Destinato a svolgere un ruolo mediano nel XVIII secolo artistico francese – rispetto alle rivisitazioni di gusto rococò di Jean-Antoine Watteau e Jean-Honoré Fragonard o agli ammiccamenti libertini di Charles-Joseph Natoire e François Boucher così come alle dialettiche riletture della storia antica del suo futuro allievo Jacques-Louis David –, Vien, dopo aver seguito una formazione accademica fino al 1743, ottiene quell’anno il “Prix de Rome”[7] e diviene “Pensionnaire” de l’Académie de France a Roma tra il 1744 e il 1750. Oltre che con la tradizione pittorica italiana, e in particolare con la pittura di Annibale Carracci e degli artisti emiliani, il soggiorno nella penisola fornisce all’artista occasioni di confronto a Roma con una classicità oggetto di studi e riscoperte: le esplorazioni di Ercolano, dal 1738, e di Pompei, dal 1748, suscitano l’indiretta ammirazione di Vien, che si dedica con interesse alla lettura di Tito Livio e Plutarco.

Gli anni trascorsi in Italia lo convincono che sia necessario porre rimedio alle debolezze della scuola artistica francese ispirandosi all’autorità di Raffaello e Michelangelo, cui aggiunge anche l’influenza della pittura emiliana. Al rientro in Francia si dedica ad alcuni soggetti religiosi: se L’Ermite endormi (Musée du Louvre, Fig. 3) ottiene apprezzamento dal pubblico – con una composizione costruita con un susseguirsi di diagonali e una resa realistica degli elementi accessori che non annunciano un ritorno all’antica classicità ma piuttosto una rivisitazione di esempi di ascendenza seicentesca è tuttavia criticato all’interno dell’ “Académie Royale de Peinture” per eccessivo “realismo”, qui reso con esteriore patetismo. Emblema di un tema e di una realizzazione da cui Vien prenderà progressivamente le distanze, l’opera suscita interrogativi: sulla definizione di “eremita”, sul suo abbandono-estasi, sul soggetto specifico del quadro, che può consistere nel farsi prendere, assorbire. Come se, di fronte a “questo dipinto e all’empatia che suscita, anche lo spettatore si lasciasse assorbire. […] L’atmosfera di stanchezza, di fantasticheria e di assenza psicologica coinvolge lo spettatore”[8].

Il superamento della fase realistica di Vien si sostanzia nell’incontro con Anne-Claude-Philippe de Tubières, Conte di Caylus: antiquario-archeologo, mecenate, amante della pittura, il Conte guida l’artista a confrontarsi con una lineare ed elegante visione dell’antico, dibattuta e apprezzata anche nell’ambito di salons letterari come quello di Madame Geoffrin. Asciutta antichità, pedagogia attraverso l’arte, misurata sensibilità divengono i riferimenti di intellettuali che alla metà del Settecento discutono, ricercano, raffigurano modelli percepiti come esemplari.

Nel 1754 Vien diviene finalmente membro dell’Académie Royale, con un’opera come Dédale dans le Labyrinthe attachant les ailes à Icare – primo suo soggetto mitologico conservato – in precario equilibro tra emotività e realismo, accademismo e classicismo di metà Settecento (Musée du Louvre, Fig. 4). Esposto al Salon del 1755, se ne loda la vicinanza al racconto di Ovidio e l’atmosfera sentimentale nelle espressioni dei personaggi: ma, come fosse il portato di una precedente fase realizzativa dell’artista, si critica la resa “bassa” e “ignobile” della “padella” sul fuoco e del contenitore per la cera[9].

Forte di questa esperienza con un soggetto mitologico, nel quale trova spazio anche un brano delle mura di Cnosso, Vien affina la tecnica di raffigurazione all’antica, privandola degli effetti più vistosi e avvicinandosi a una resa settecentesca ove eleganza ed erotismo possano convivere. Accanto a opere come Marc Aurèle distribue au peuple du pain et des médicaments (Amiens, Musée de Picardie), del 1765 – criticato da Denis Diderot per assenza di poesia e d’immaginazione – l’artista dà vita a composizioni definite dallo scrittore “anacreontiche”[10], all’insegna di tematiche amorose strutturate e tenute in equilibrio da una sapiente costruzione degli ambienti e degli spazi.

Tra i primi a cimentarsi con la riproposizione della scena antica proveniente da Villa Arianna di Stabiae – legame con il tema del labirinto –, l’artista vi si dedica attraverso la mediazione che Carlo Nolli (1724-1770) ne fornisce in una stampa, inserita anche ne Le pitture antiche d’Ercolano del 1762 (Fig. 5). Convintosi che l’incisore avesse invertito la scena antica per la realizzazione della stampa, Vien ne realizza una versione che si caratterizza per l’ambientazione a lui coeva e per il rovesciamento della posizione dei personaggi raffigurati: la destinataria della profferta è seduta sulla destra, mentre la Marchande è inginocchiata a sinistra. Diversamente dalla scena originale, si determina nell’olio su tela una lettura spaziale che, oltre a illustrare un elegante interno classicheggiante, unifica l’ambientazione dell’episodio: la netta demarcazione presente nell’affresco antico è superata in favore di uno spazio arioso, ove le paraste e l’arredo danno slancio verticale e rilievo rispetto alla sequenza di sguardi e di gesti in primo piano.

Nel passaggio dall’affresco all’incisione di Nolli la scena era rimasta sostanzialmente immutata ma aveva subìto un processo di semplificazione geometrizzante, percepibile nell’ordinata impaginazione, nella regolare resa delle pieghe delle vesti e del tendaggio e, soprattutto, nella definizione degli elementi ove siedono le principali figure femminili: allo sgabello antico su esili gambe si sostituisce un solido cubo e anche la venditrice è seduta su una compatta struttura geometrica.

Consentendosi variazioni e libertà compositive non utilizzate da Nolli, Vien riarticola la scena attraverso un’accurata miscela di citazioni dall’originale e di innovazioni come in una pièce settecentesca alla Marivaux, scomparso nel febbraio di quello stesso 1763. Luogo di una messinscena dell’amore, lo spazio interno al dipinto si maschera di antico attraverso il richiamo – rovesciato – all’affresco: simulando un’ambientazione alla greca ci si situa su un piano di gioco sentimentale ove i personaggi recitano delle parti, così come l’accurato arredo appare di una intrinseca teatralità. In un gioco di rimandi e rispecchiamenti, tutto appare autenticamente falso: l’essenzialità dell’affresco antico, riportato a una incisiva schematizzazione da Nolli, si tramuta in uno spazio unitario ma multifocale, ove l’occhio dell’osservatore coglie elementi decorativi e rischia di non osservare espressioni e gesti.

Al di qua della parete di fondo contrassegnata dalla verticalità, la tavola ospita simbologie dell’amore: un vaso di fiori e una rosa sulla tovaglia, una collana di perle, un cofanetto con decorazioni in rilievo, un braciere – con teste di ariete che trattengono anelli – che brucia e consuma incenso. Mentre la venditrice è inginocchiata su un tappeto, sul quale è poggiato il paniere da cui estrarre gli Amorini, la destinataria è su una sedia con spalliera, dalla solida struttura in legno intagliato e dorato, le cui gambe sono lateralmente unite da colombe affrontate – consacrate a Venere dalla tradizione mitologica – che reggono una ghirlanda.

Oltre la capacità di travestire all’antica una scena di ambientazione settecentesca, nel dipinto possiamo osservare la mancanza di una figura femminile in grado di divenire la protagonista assoluta della vicenda: la venditrice inginocchiata è fronteggiata sulla destra dalle due donne che ricordano Afrodite e Peitho riconosciute nell’opera antica. Lungi dal sostenersi reciprocamente come nell’affresco, le donne sono tra loro leggermente distanti ma con profili del tutto simili, come a indicare due diversi momenti e stadi dell’amore.

Se rappresentano una vetrina per un pubblico curioso di novità, i Salons d’arte – ambito pubblico rispetto alla maggiore riservatezza di quelli letterari, ed esposizioni biennali che, a partire dal 1751, contribuiscono a costituire uno spazio collettivo per l’arte[11] – possono facilitare anche l’emergere di un’opinione che si fa progressivamente meno mondana e più avvertita, sensibile alle dinamiche pittoriche di anni in metamorfosi e invitata dall’amministrazione reale, convinta delle facoltà pedagogiche delle scene raffigurate, a osservare soggetti rappresentativi di episodi virtuosi.

Mentre per i primi resoconti del 1759 e 1761 Diderot si limita a redigere sintetici appunti in loco che sviluppa successivamente[12], già a partire dalla terza sua presenza tende a farsi attento visitatore dei Salons dell’ “Académie Royale de Peinture”, tanto da esser considerato esemplare per la nascita della critica d’arte. Riferimento per una sorta di école du regard di metà Settecento, lungo il percorso descrizione-digressione (e giudizio valutativo)-campo simbolico e filosofico[13] Diderot evidenzia la fenomenologia della visione – “Vi descriverò i dipinti, e la mia descrizione sarà tale che, con un po’ d’immaginazione e di gusto, li si situerà nello spazio e vi si porranno gli oggetti pressappoco come noi li abbiamo visti sulla tela” […]”[14] – come elemento di una ontologia intellettuale che è ricerca intorno al non visibile/non visto da molti: la “descrizione risponde a una domanda, colma un’attesa, una mancanza”[15].

Ma la descrizione, oltre a tangere il piano della filosofia dell’arte – sovrapporre una teoria estetica alle opere o viceversa raccontare i dipinti per arrivare a costituire le basi di un immaginario – mette in discussione il rapporto tra pittura e scrittura. Interrogandosi sovente sulle possibilità del linguaggio di “produrre dei testi che parlino delle immagini che l’occhio vede”[16], Diderot individua in una descrizione scritta eccessivamente particolareggiata il pericolo di allontanarsi dal nucleo fondativo dell’immagine, che ritaglia un frammento nello spazio simulato – si osserva che l’istante “è uno solo , non v’è che un’azione da rappresentare, assottigliata ed evanescente nel fluire, egualmente determinata dalla traccia del passato e dalla promessa del futuro […]”[17] –, mentre compete allo scrittore lo svolgimento più ampiamente narrativo nel tempo. E per l’intellettuale non si tratta più semplicemente di scrivere sull’arte e neppure di scrivere a partire dall’arte, ma […] di scrivere l’arte[18]. Sul crinale del passaggio-mediazione tra salotti letterari e Salons d’arte l’affabulazione di Diderot tende peraltro a farsi non solo resoconto ricostruttivo dell’opera ma anche sua possibile costruzione, come quando nel 1767 consiglia a Vien il soggetto di Marte richiamato alla pace da Venere[19].

Interessato al dato materico dell’opera, oltre che al soggetto, Diderot si sofferma nel corso del Salon del 1763 su numerosi dipinti. Allontanandosi dalla preminenza gerarchica assegnata al genere storico e mitologico dall’Académie, l’intellettuale individua tre criteri estetici:

la verità delle situazioni, delle espressioni, del rispetto del soggetto, fino a sottolineare l’autenticità degli oggetti e degli accessori, evidenziando ad esempio quell’anno il naturalismo illusionistico nella natura morta di Jean-Baptiste-Siméon Chardin;

l’altro criterio si sofferma sulla forza e sulla precisione del “discorso” pittorico, attraverso il quale la singola scena si carica – rifrangendosi – di una evidenza “letteraria” capace di rendere la valenza di quanto osservato; ma la buona pittura può agevolmente – come in una rappresentazione teatrale – focalizzarsi su un momento topico, tra un prima e un dopo, dando libertà alla costruttiva immaginazione dello spettatore-visitatore;

il terzo criterio è la “magia”, la capacità di trovare, assemblare e mettere i colori sulla tela per riprodurre l’effetto armonioso della realtà; senza la magia non si può consacrare un vero artista, maestro della sua tecnica. E ancora Chardin gioca un ruolo essenziale nella percezione e nella definizione della “magia”: mentre nei primi tempi delle sue note critiche Diderot insiste sull’opportunità che il pittore curi e rifinisca allo stesso modo ogni elemento del dipinto – come in natura tutto è egualmente perfetto –, i contatti con Chardin contribuiscono a far sì che l’intellettuale colga l’intenzione estetica sottesa ai differenti gradi di rifinitura pittorica accordata alla composizione[20].

Enumerate nel 1763 sette opere di Vien, lo scrittore ne evidenzia caratteristiche comuni, come l’ “eleganza delle forme”, la “delicatezza”, la “semplicità” unite alla “purezza del disegno”, ai bei colori e al realismo degli incarnati: un insieme che consente riferimenti all’antico anche attraverso le linee dell’architettura, i drappeggi, l’arredo.

Diderot si sofferma poi sull’opera qui esaminata all’inizio: il titolo con il quale è presentata – la Marchande à la toilette – ne sottolinea l’andamento erotico-sentimentale in un contesto di eleganza settecentesca che “sent la manière antique[21]. Padronanza nell’esecuzione e finezza degli accessori, come l’oro del cuscino alle spalle della donna seduta, fanno esclamare allo scrittore che si tratta di un’allegoria riuscita, all’insegna del gusto e dell’esatta leggerezza delle forme: particolari che il pittore può aver osservato nel Recueil d’antiquités romaines et égyptiennes (1759) del Conte di Caylus e ne Le pitture antiche d’Ercolano. Ma l’intellettuale non può fare a meno di osservare che “è un peccato che questa composizione sia un po’ rovinata da un gesto indecente di questo Amorino che la schiava tiene per le ali; egli ha la mano destra appoggiata alla piega del suo braccio sinistro che […] indica in molto significativo la misura del piacere che promette”[22].

Se la dama seduta, dall’abbigliamento segnato da un blu intenso abbinabile alle ali azzurre dell’Amorino, appare la destinataria privilegiata di questo “commercio” erotico – qui lontano da interpretazioni dell’affresco antico come messa in guardia dalle pene d’amore –, alle sue spalle la donna in piedi appare precorrere i tempi e, seguendo con malcelato interesse quanto avviene sotto il suo sguardo, si lascia prendere da un gesto che non sfugge a Diderot: “con un braccio che pende languidamente, per distrazione o per istinto rialza con l’estremità delle sue dita graziose il bordo della sua tunica nel punto…”[23].

L’apprezzamento che Diderot riserva all’equilibrio compositivo-cromatico della scena, la cui resa non suscita entusiasmo ma ammirazione, si abbina all’attenzione dell’intellettuale e del pubblico per gli accessori di arredo. Se nel 1760 Vien pubblica una Suite de vases composés dans le goût de l’Antique[24], incisi dalla moglie artista Marie Thérèse Reboul (1738–1805), il suo gusto antichizzante si invera in una moda europea che si affaccia anche al mercato di consumo di élite. Di poco anteriore a uno degli emblemi della moda antichizzante settecentesca – la piranesiana raccolta Diverse maniere d’adornare i cammini ed ogni altra parte degli edifizi, desunte dall’architettura egizia, etrusca e greca (1769)[25] – l’opera di Vien La Vertueuse Athénienne (Strasbourg, Musée des Beaux-Arts), del 1762, nella sua ordinata invenzione di una antichità salottiera contribuisce alla diffusione di elementi di arredo: il tripode raffigurato nel dipinto diviene la base per la creazione di un mobile che si potrebbe definire polifunzionale – tavolino, incensiere, piccolo braciere, portafiori e altro ancora –, descritto con dovizia di particolari nell’Avant-Coureur del 27 settembre 1773 e chiamato “athénienne” in riferimento alla scena resa celebre da Vien[26].

Autore nel 1773 del dipinto Amant couronnant sa maîtresse (Musée du Louvre), che pur nell’apparente semplicità della scena pone a sua volta problemi interpretativi – Venere e Marte tra altri personaggi o semplice allegoria dei “progressi d’amore nel cuore delle giovani donne” – Vien si conferma fedele a una strutturazione dell’immagine d’impianto teatrale, sebbene qui il verde degli alberi e la natura appaiano preponderanti: opera ove la rilettura dell’antico è appena funzionale a suggerire un décalage che dia patina nobilitante alla suggestione amorosa. Maestro di quel Jacques-Louis David (1748-1825) capace di trasformare la superficie pittorica antichizzante in visione rivoluzionaria della classicità e della storia, dopo aver nuovamente soggiornato a Roma dal 1775 al 1781 come direttore dell’Académie de France – dove ha modo di insistere su una pratica del disegno d’après nature – Vien continua ad esprimere per anni una visione dell’ “antichità superficiale, popolata di vestali greche gelide fino all’erotismo”[27].

E la data simbolica del 1789, che Vien attraversa come “Primo pittore del Re” dal 17 maggio, per affrontare in seguito difficoltà economiche che saranno superate con l’avvento di Napoleone Bonaparte[28], consente all’artista di presentare quello che si può considerare il tardo “seguito”[29] della Marchande, ovvero L’Amour fuyant l’esclavage (Musée des Beaux-Arts de Toulouse, Fig. 6).

All’ombra del binomio libertà/schiavitù, drammaticamente emblematico quell’anno[30], Vien realizza un’opera di non eccelsa qualità – per la quale è opportuno sottolineare che in lui classico è soltanto il tema, e pseudoclassica la maniera; ma lo spirito e il gusto sono puro rococò – ove risalta il contrasto tra gli elaborati panneggi dalla vivace cromia delle quattro donne e il trattamento essenziale, come sintesi di maniera, delle architetture e della statua nella nicchia. E Vien, non neoclassico né filologico protagonista di un’attenta lettura dell’affresco di Stabiae – per lui tema alla moda e punto d’incontro tra precisione disegnativa, compostezza cromatica ed eredità artistica della penisola italiana da riproporre in ambito francese –, si mostra ancora sensibile al gusto degli accessori e degli oggetti di arredo: quasi essi risultassero emblemi e correlativi oggettivi dell’equilibrio della composizione, nelle fasi migliori della sua produzione artistica, o viceversa testimonianza di una mancanza creativa e di un venir meno del rigore realizzativo in anni più difficili. Tralasciando il paniere utilizzato nel 1763 per la Marchande, qui l’artista si rifà alla struttura porta-Amorini di antica origine pittorica: ma, lasciata aperta, la gabbia a colonnine consente la fuga del libero Amorino, come intimorito dalla soverchiante presenza femminile.

Raffigurazioni settecentesche dell’antico: liberi Amori(ni) in vendita

Immagini

Joseph-Marie Vien (1716-1809), Marchande d’Amours, 1763, olio su tela, cm 117x140, Fontainebleau, Musée National du Château (Fig. 1)

Venditrice di Amorini, affresco del I secolo d. C., cm 22x28, rinvenuto nel 1759, proveniente da Villa Arianna di Stabiae, poi conservato a Napoli, Museo Archeologico Nazionale (Fig. 2)

Joseph-Marie Vien (1716-1809), L’Ermite endormi, 1750, olio su tela, presentato a Paris al Salon del 1753, cm 223x148, Paris, Musée du Louvre (Fig. 3)

Joseph-Marie Vien (1716-1809), Dédale dans le Labyrinthe attachant les ailes à Icare, 1754, olio su tela, cm 198x130, Paris, Musée Musée du Louvre (Fig. 4)

Carlo Nolli (1724-1770), Venditrice di Amorini, incisione inserita ne Le pitture antiche d’Ercolano, tomo terzo, Napoli, Regia Stamperia, 1762 (Fig. 5)

Joseph-Marie Vien (1716-1809), L’Amour fuyant l’esclavage,1789, olio su tela, cm 160x130, Toulouse, Musée des Beaux-Arts de Toulouse (Fig. 6)

 

NOTA Bibliografica

AA.VV.  1762: AA.VV., “Tavola VII”, in Idem, Le pitture antiche d’Ercolano, tomo terzo, Napoli, Regia Stamperia, 1762

AA.VV.  1763: AA.VV., Mercure de France, octobre 1763, Ier volume, in link, consultato il 16 marzo 2017

AA.VV.  1974: AA.VV., De David à Delacroix: la peinture française de 1774 à 1830, Paris, Réunion des Musées Nationaux, 1974

Diderot 1763: D. Diderot, “Salon de 1763”, in Idem, Œuvres complètes, Paris, Garnier Frères, 1876, Wikisource

Fried 1980: M. Fried, Absorption and Theatricality: Painting and Beholder in the Age of Diderot, ed. fr. La place du spectateur. Esthétique et origines de la peinture moderne, Paris, Gallimard, 1990

Gaehtgens – Lugand 1988: T. W. Gaehtgens – J. Lugand, Joseph-Marie Vien: peintre du roi, 1716-1809, Paris, Arthéna, 1988

Gallini 1989: B. Gallini, La Révolution française et l’Europe 1789-1799, Paris, Éditions de la Réunion des Musées nationaux, 1989

Gourbin 2013: G. Gourbin, Diderot ou l’art d’écrire, in Le Portique, n. 30, 18 luglio 2013, leportique.revues.org, consultato il 17 aprile 2017

Hauser 1951: A. Hauser, Storia sociale dell’arte III – Rococò Neoclassicismo Romanticismo, ed. ital. Torino, Einaudi, 1987, p. 162

Janulardo 2015: E. Janulardo, Piramide Cestia e Cimitero acattolico: all’ombra di Piranesi, luoghi per riemersioni mito-poietiche, in BTA - Bollettino Telematico dell’Arte, n. 783, Roma, 24 Agosto 2015, www.bta.it, consultato il 17 aprile 2017

Lojkine 2008: S. Lojkine, Le problème de la description dans les Salons de Diderot, in Diderot Studies XXX, Genève, Librairie Droz, 2008

May 1959: G. May, Diderot devant la magie de Rembrandt, in PMLA, vol. 74, no. 4, 1959, pp. 387–397, 1959, www.jstor.org, consultato il 17 aprile 2017

Micheli 1992: M.E. Micheli, Eroti in gabbia. Storia di un motivo iconografico, in Prospettiva, Firenze, n. 65, 1992

Morin 1987: R. Morin, Diderot et l’imagination, Paris, Les Belles Lettres, 1987

Pinelli 2000: A. Pinelli, Nel segno di Giano - Passato e futuro nell’arte europea tra Sette e Ottocento, Roma, Carocci, 2000

Piselli 2018: F. Piselli, Studio su Diderot, Bornato in Franciacorta (BS), Sardini, 2018

Régis 1993: M. Régis (éd.), David contre Davis, Paris, La Documentation Française, 1993

Rosenberg 2002: P. Rosenberg, Jacques-Louis David 1748-1825. Catalogue raisonné des dessins, Milano, Leonardo Arte, 2002

Rosenberg 2005: P. Rosenberg, De Raphaël à la Révolution. Les relations artistiques entre la France et l’Italie, Milano, Skira, 2005

Schwartz s.d.: E. Schwartz, Le tableau du mois, n. 117, Paris, Musée du Louvre, Département des Peintures, in cartelfr.louvre.fr, consultato il 17 aprile 2017

[1] AA.VV.  1763, p. 191 (traduzione nostra).

[2] Ibid.

[3] AA.VV.  1762, p. 37.

[4]  Micheli 1992, p. 7.

[5]  Nel Convivio, Platone fa nascere Amore da Poro, dio dell’abbondanza, e da Penìa, dea dell’indigenza.

[6]  Micheli 1992, p. 12.

[7]  Con l’opera David se résignant à la volonté du Seigneur qui a frappé son royaume de la peste.

[8] Fried 1980 (1990, pp. 38 sgg).

[9]  Schwartz s.d.

[10] Diderot 1763, p. 28.

[11] La prima esposizione pubblica voluta dall’ “Académie” risale al 1667; a partire dal 1725 si tiene nel “Grand Salon” del Palais du Louvre, poi denominato “Salon carré”; assume cadenza biennale dal 1751. Le opere esposte, per le quali è fornito all’ingresso un opuscolo con il riferimento numerico e le indicazioni dei titoli, variano a seconda degli anni tra le 260 e le 320: cfr. Gourbin 2013, p. 2.

[12]  Per la “Correspondance littéraire” di Friedrich Melchior von Grimm.

[13]  Cfr. Lojkine 2008, pp. 53 sgg.

[14]  Diderot 1765, cfr. Lojkine 2008, pp. 53 sgg.

[15] Lojkine 2008, op. cit.

[16] Gourbin 2013, p. 6 (traduzione nostra).

[17] Piselli 2018, p. 150.

[18] Gourbin 2013, p. 6 (traduzione nostra).

[19] Cfr. Piselli 2018, p. 131.

[20] Cfr. May 1959, p. 393.

[21]  Diderot 1763, p. 28.

[22] Ibid., p. 30.

[23] Ibid., p. 31.

[25]  Senza addentrarsi nella bibliografia su Piranesi, per la quale si rimanda anche alla recente mostra Piranesi. La fabbrica dell’utopia Roma, Museo di Roma - Palazzo Braschi (2017), si rinvia qui per riferimenti antichizzanti a Janulardo 2015.

[27] Schwartz s.d.

[28] Protetto dal potente ex allievo David, Vien è nominato Senatore nel 1799, Conte dell’Impero nel 1808 e Commendatore della Legion d’onore. Dal 1809 è sepolto con esequie nazionali al Panthéon, unico pittore a riposarvi.

[29] Ma probabilmente concepito a partire dal momento di maggior successo della sua carriera artistica, a ridosso de La Marchande. A Princeton, The Art Museum, è conservato un bozzetto – olio su carta montata su tela – de L’Amour fuyant l’esclavage di Toulouse, databile tra il 1788 e il 1789.

[30] Nel 1792 viene ucciso e mutilato Louis Hercule Timoléon de Cossé-Brissac, duca di Brissac, collezionista d’arte, committente de L’Amour fuyant l’esclavage, mentre la sua amante Jeanne Bécu de Cantigny contessa du Barry, mecenate di Vien, è ghigliottinata nel 1793.

 

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