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PER UNA FILOSOFIA DEL DOLORE

di Vera Fisogni

Nulla, nel dolore, dal punto di vista del comune sentire, che è poi la più immediata modalità di conoscenza del mondo, sembra essere di qualche valore. Pare quasi che, a proposito del dolore, la filosofia abbia deciso di gettare la spugna, delegando alla religione o alla farmacologia il compito di comprenderlo e affrontarlo.

Perché, anche questo ce lo insegna il senso comune, la sofferenza chiede - prima di essere capita - di essere risolta.

Come dar torto a questo pre-giudizio? La formulazione di un concetto serve ben poco a chi subisce i colpi della sventura, che chiede solo di essere sollevato dal fardello della mala sorte, come ha spiegato la Weil in una lettera-saggio al religioso Perrin (1). Come dare un libro da leggere a chi ha fame. A che serve?

Noi crediamo, invece, che la lettura del dolore offra pagine di vertiginosa ricchezza da un punto di vista gnoseologico, a patto però che si affronti la "questione" in termini strettamente intenzionali, tornando a confrontarsi con le modalità conoscitive dell'uomo, con la relazione, l'orientamento intenzionale della coscienza, l'incontro-scontro con l'alterità. La nostra interpretazione del dolore come risorsa parte da questa ipotesi e si articola nella seguente argomentazione:

1) il trovarsi dell'uomo nel mondo, nella modalità della relazione con gli altri enti, si configura essenzialmente come un movimento intenzionale alle cose stesse;

2)     questo perché la relazione, come svela il suo senso più originario, esprime un andare verso prima ancora che un riferirsi a qualcosa;

3)     un modo dell'andare verso a qualcosa è rappresentato dal venire contro, dal farsi resistenza alla fruizione del mondo e all'interazione con esso: in esso trova il suo luogo il dolore, forma estrema di quel venire incontro dell'alterità che si svela, ad esempio, nell'esperienza dello stupore;

4)     il dolore, come estrema intenzionalità, è la conseguenza del venir meno della distanza tra i due termini della relazione;

5)     nel mettere in pericolo la stessa sussistenza dell'Io, l'evento doloroso pone le condizioni di una conoscenza radicale della condizione umana.

La relazione come intenzionaltà

L'intenzionalità, precedentemente indicata come un tratto qualificante della coscienza (di qualcosa), connota fortemente anche la relazione, modalità originaria del nostro essere nel mondo.

Relatio est accidens cuius esse est ad aliquid certo modo se habere, dicevano gli Scolastici. La relazione si definisce nel rapportarsi in una determinata maniera a qualcosa, nello "stare tra loro" dei termini secondo una certa modalità. Aristotele, lo leggiamo nella sua monumentale Metafisica (2), la intese come uno dei modi, o categorie  dell'essere, parlandone come un pros ti, un "(ciò che si dà) verso qualcosa". Espressione successivamente ricalcata dagli Scolastici e proposta, in lingua latina, come "(se habere) ad aliquid". Il calco risulta immediatamente più chiaro, perché più vicino al termine originario greco, della parola latina relatio, espressione derivata dal verbo refero, nella sua forma participiale, che sta ad indicare un riferimento, un "riportare" piuttosto che un "andare verso" di due o più termini.

Per dirla in altre parole, l'originale greco di "relazione" (pros ti ) presenta un  tratto più marcatamente intenzionale della successiva espressione latina relatio , che rinvia piuttosto ad un altro aspetto della relazione, il riferimento di un termine all'altro. La differenza, molto sottile, sembrerebbe una questione di lana caprina.

In realtà, dietro a questa diversa accezione del termine si riscontra il marchio di una cultura tanto determinante nella formazione del pensiero occidentale, la cultura latina medievale. Che nel trattare della relazione guarda a una relazione in particolare, quella trinitaria, in cui l'elemento per così dire forte, è dato dal riferimento incessante del Padre al Figlio, allo Spirito. Ma nella sua nudità semantica, il pros ti rinvia ad un andare verso che è sintomatico del processo intenzionale (3).

Chiarire la radice comune di relazione e intenzione è la premessa metodologica indispensabile per formulare la nostra interpretazione: nell'esperienza del dolore, alla modalità della relazione-intenzione dell'essere nel mondo, si sostituisce una modalità sovra-relazionale, con conseguenze conoscitive paradossalmente più feconde di quelle inerenti il "normale" processo relazionale.

 Perché - se il vero conoscere non oggettiva mai in modo totale la datità, in quel faticoso "taglia e cuci" che è il giudizio - quando l'alterità irrompe brutale, in spregio alle regole della relazione-intenzione, questa oggettivazione si dà invece pienamente. Come conoscenza puramente intuitiva e sensitiva, a carattere sovra-razionale. Così piena, ma così lontana dal modo di essere proprio del conoscere, che risulta spiazzante e straniante, che - per diventare linguaggio, e dunque logos - necessita di un'elaborazione ulteriore, ad opera della sofferenza.  

In questo consiste l'essenza del dolore.

 Andare verso

L'andare verso qualcosa o qualcuno non è altro se non il modo proprio del nostro quotidiano essere nel mondo. Quando ci vestiamo allunghiamo il braccio verso l'armadio, al capo d'abbigliamento che intendiamo indossare; se vediamo qualcosa di interessante in una vetrina, ci avviciniamo ad essa, ci muoviamo verso quello che ci piace: anche l'allontanarsi da ciò che infastidisce, in fondo, è un andare verso. Verso qualcosa di diverso, di più gradevole o di meno spiacevole. In altre parole, l'articolazione dei nostri sensi, in termini generali, si modella a un costante rivolgersi a qualcosa, secondo un perenne intenzionare. Questo particolare modo di essere nel mondo ci porta a una conclusione importante in merito al nostro discorso sul dolore: la complessa rete delle relazioni che, a guisa di un'intricata ragnatela, esprime graficamente l'universo dei rapporti, rende possibile in qualsiasi momento lo scontro tra enti, la loro potenziale collisione. La sofferenza, come la gioia, mette radici in questo sovrapporsi di percorsi ideali e reali, nel loro continuo urtarsi e aggiustarsi, in un processo osmotico perennemente rivolto alla ricomposizione di un equilibrio perduto.

Venire incontro - L'alterità nello stupore

Una modalità a se stante dell'entrare in relazione con il mondo è costituita dallo stupore, il trionfo della meraviglia di fronte a qualcosa che - in virtù della sua natura - ci induce a spalancare gli occhi. Il soggetto che prova stupore sembra essere il termine verso cui si muove la relazione stessa, è il bersaglio della freccia. Il ruolo di movente appartiene di diritto all'altro termine della relazione, che si dà a vedere, all'improvviso, o in modo nuovo rispetto a quanto normalmente succede, mediante un "venire incontro" inaspettato al soggetto. Come scrive Petrosino, che allo stupore ha dedicato un acuto piccolo saggio, "ciò che si manifesta nello stupore non solo appare, ma apparendo sorprende: vi è qui una luminosità che coglie di sorpresa e colpisce, come se all'improvviso, in seno alla manifestazione, si aprisse una breccia e ciò che appare si animasse venendo inaspettatamente incontro al soggetto" (4). Trionfo dell'epifania dell'altro da sé, lo stupore illumina come un riflettore il termine verso cui si muove la relazione. Non solo. Svela l'alterità nella dimensione interattiva, di oggetto in relazione, che non si limita ad essere mero punto finale di un'intenzione, ma esso stesso soggetto in relazione. Risiede qui la forza prorompente dello stupore.

La fenomenologia dello stupore (il venire incontro) pone le premesse della fenomenologia dell'urto, del venire contro di un termine della relazione verso l'altro. Il mostrarsi dell'alterità - qui colto nella sua dimensione più positiva e illuminante - presenta anche un aspetto negativo, un proprio lato oscuro che suscita inquietudine. Nell'improvviso manifestarsi di qualcosa - infatti - si coglie un effetto-sorpresa che sfugge al controllo e alla previsione.

Nello stupore brilla l'essere dell'alterità, un evento gioioso, comunque ricco di potenziali insidie. L'ente sbucato dalle tenebre si presenta, per il suo stesso darsi a vedere, inondato  di luce, ma da quella luminosità emerge qualcosa, che - come noi - esiste. E si anima proprio davanti a noi, intenzionando verso di noi. L'altro da noi, in breve, si muove verso di noi, in uno spazio non più solo nostro. Se l'inquietudine dello stupore non dà luogo alla paura, ciò dipende dal fatto che non esistono motivi reali per provare questo sentimento. Perché nello stupore uno spazio ben preciso separa chi si sorprende da ciò che sorprende. Ma resta il fatto che qualcosa muove verso di noi.

Dal venire incontro al venire contro il passo è breve.

Dallo stupore all'incombere del dolore

La distanza tra il soggetto e l'alterità, minima nel contatto e maggiore nell'esperienza dello stupore, nell'urto si riduce al punto da non esistere più, almeno fintanto che dura la collisione tra i due enti. Con quali conseguenze? Il fattore che più caratterizza questa esperienza - ci sembra - risiede nell'incorporazione parziale dell'altro dal soggetto nel soggetto stesso: la cosa che "viene contro" lascia la sua traccia su chi viene urtato. E' come se si aprisse una ferita: una circostanza che, al di là dell'immagine metaforica, proposta per rendere in modo più diretto l'idea, implica una scalfitura di quell'intero costituito dall'essere stesso del soggetto. Ma questa non è che una delle conseguenze dell'urto. L'altra faccia della medaglia risiede nell'uscire da sé (ex-sistere) del soggetto che, scontrandosi con l'alterità, esperisce in modo peculiare - insolitamente profondo - l'essere dell'ostacolo, il suo essere ostacolo. E si accorge del pericolo della relazione con l'altro da sé, che può - in qualsiasi momento - metterne a repentaglio l'esistenza. In questo senso, come sostiene anche Natoli, "il dolore è un'anticipazione di morte", in quanto "l'esperienza possibile della morte si ha solo attraverso il dolore" (5). Tesi, questa, che richiama il concetto heideggeriano dell'anticipazione della morte ovvero dell'essere-per-la morte, quale senso autentico della vita di ciascun uomo (6).

Ora, nell'esperienza dell'urto - che va delineandosi come intenzionalità assoluta e radicale - la contiguità, pur momentanea e parziale, del soggetto a ciò che gli va contro, implica una conoscenza nuova dell'altro, che è, anche, una conoscenza diversa della realtà in generale. E' l'intuizione a prevalere sul concetto: si conosce l'altro, per il tempo che dura questa esperienza, in maniera diretta e improvvisa. La parola intuizione rinvia a intus ire, l'andare dentro qualcosa, cogliendone il tratto più intimo - ovvero, filosoficamente - l'essenza.

La visione intuitiva della totalità nel dolore

Occorre soffermarsi un po' più a lungo su questa potenzialità del dolore, perché è partendo da qui che possiamo cogliere in tutta la sua portata la valenza conoscitiva propria di questa specialissima esperienza. E diventa possibile scoprire nel limite conclamato del dolore - l'assenza di senso - una strada privilegiata alla comprensione della totalità.

Perché, se l'essere, come ricordava Heidegger, "è ciò che si manifesta alla visione intuitiva pura" e "solo questo vedere scopre l'essere" (7), anche la via dolorosa si ammanta di uno splendore proprio, di una dignità nuova, di una valenza ontologica da riscoprire.

Che il dolore, infatti, insegni qualcosa del mondo e della vita, lo diceva già Eschilo e lo continua a ripetere il senso comune, come forma estrema di consolazione. Ma una cosa è avvalersi della sapienza dei poeti o dei saggi, una cosa capire su quali fondamenti  essa poggi, e quanto stabilmente. Come si giustifica - allora - la conoscenza intuitiva del dolore (che vedremo essere il presupposto della sofferenza, sua diretta "espressione")? Per formulare una risposta dobbiamo tornare allo schema iniziale della relazione-intenzione tra enti.

Nell'analisi preliminare abbiamo detto che la modalità dell'urto si dà come l'esperienza più intenzionale di tutte nella pur vasta gamma delle possibilità offerte dall'empiria. Infatti, se in-tendere rinvia a un andare a o verso l'alterità, la collisione rappresenta la forma più radicale di questo indirizzarsi. L'intenzionalità - nella circostanza dell'urto - è spinta a tal punto da potersi considerare in pericolo, perché di fatto, il manifestarsi dell'ostacolo inibisce il movimento dell'andare-verso. Come pure la relazione in se stessa, un atto che abbiamo visto intimamente collegato all'intenzionalità. Al momento dell'urto, i due termini della relazione - il soggetto e l'alterità - non presentano distanza alcuna, tratto distintivo fondamentale di ogni relazione, che implica, come abbiamo visto prima, un andare verso e un riferirsi a. L'incontro con la cosa, assume allora, nel dolore, un carattere sovra-razionale in quanto sovra-relazionale.

E' intuizione di marca purissima.

L'intuizione arriva subito a un giudizio - diciamo così - senza separare, soppesare, collegare e dedurre. Bene rende l'idea la psicologia, che parla di insight, di una visione interiore, di qualcosa di improvviso che viene alla mente come un raggio di luce tra le tenebre. La fatica del concetto non è conosciuta dall'intuizione, che guadagna con facilità i propri logoi.

E' una visione improvvisa, facile, di qualcosa di complesso. Vico la considerava la forma conoscitiva dei geni, un dono che essi hanno in comune con Dio. Esattamente il contrario della consueta modalità conoscitiva che ci appartiene per lo più, un complicato puzzle di scomposizioni e ricomposizioni.

Nel dolore, l'insight è la totalità stessa. Ciò che viene contro, con la modalità dell'incombenza, viene colto come un tutto, come se fosse esso stesso - in quel momento - tutto il mondo essendo preclusa, in quel momento, ogni altra relazione con altri enti.

La vertigine provata nell'esperienza del dolore - specialmente nelle sue forme più estreme, che portano alla massima potenza questo stato d'animo -  è il senso di spaesamento derivante dal rompersi dello schema relazionale. Una lacerazione che si configura anche come un'offesa, un mancato rispetto delle regole.

 L'accorciamento estremo delle distanze, inatteso e non voluto, segna il venir meno di un'area di rispetto che è condizione del manifestarsi, del relazionare e del comunicare. Nello stupore esiste sempre una distanza precisa tra chi prova meraviglia e l'oggetto che suscita questo sentimento. Una distanza che, consentendo di mettere a fuoco l'oggetto dell'epifania, dà al soggetto la possibilità di decidere: se avvicinarsi, allontanarsi o rimanere in uno stato contemplativo. Niente di tutto ciò, invece, succede nell'urto.

La distanza - sia essa distanza dall'alterità, dall'altro termine della relazione, dall'oggetto di intenzione, espressioni diverse che significano, però, una stessa idea  - è certamente la condizione del rapporto comunicativo del soggetto con il mondo; tuttavia, è proprio la distanza a dare la misura di quanto sia precario il rapporto con gli enti che, proprio a causa di questo "scarto", sfuggono a una piena oggettivazione.

L'esperienza del dolore svela che le modalità di relazione e intenzione, mediante le quali normalmente conosciamo, mettono radici in un conoscere intuitivo che le trascende. Un sapere muto, esclamativo che precede il linguaggio, che non si apre ma piuttosto si chiude in se stesso. Il sapere del dolore che, per essere comunicato, non può che essere rivelato, come si rivela una verità colta attraverso un'intuizione.

Il vedere del dolore e dello stupore. Affinità e differenze

Esiste un'affinità, come abbiamo già visto, tra lo stupore e l'urto, due modi di intenzionare in cui l'apparire della cosa si ammanta di meraviglia. Entrambi è come se mostrassero le cose in una veste del tutto nuova rispetto a quella che conosciamo abitualmente. Nello stupore sono, in un certo senso, le cose stesse a offrirsi alla vista in modo diverso, come permeate di un'inattesa e originalissima luce; nell'urto il soggetto spalanca gli occhi e la bocca per l'effetto della collisione con le cose. Come a dire, "ma è  questo, la vita?".

La meraviglia conseguente all'urto ha in comune - con lo qaumaqein di Platone ed Aristotele -  il vedere, cioè il carattere conoscitivo e  l'essere una conseguenza di una relazione.

Cosa distingue, radicalmente, l'urto dallo stupore, il venire contro dal venire incontro? La differenza risiede, ci sembra, nel modo in cui ci si rapporta all'oggetto di attenzione:

1)     la meraviglia è un non poter non accorgersi-di, un acuire la vista verso l'oggetto di attenzione che si svela, ma come esperienza conoscitiva marca e rispetta una precisa distanza dall'ente suscitatore di meraviglia,

2)     l'urto dal quale scaturisce l'esperienza del dolore è un vedere obbligato provocato da una circostanza accidentale, conseguente allo scontro con un ostacolo, nel quale le distanze tra i due termini della relazione si sono annullate. Se nello stupore la meraviglia sollecita un avvicinamento alla cosa nel suo svelarsi, nell'urto la meraviglia indica piuttosto l'incombere di un pericolo, il rischio di mettere a repentaglio il proprio essere nell'incontro-scontro con l'altro.

Entrambe le esperienze chiamano in causa il senso della vista, funzione nobile della conoscenza. Con una radicale differenza: l'esperienza della meraviglia consente di riempirsi gli occhi dell'oggetto che emoziona o turba il cuore; l'urto fa spalancare gli occhi, ma per capire cos'è quell'ente frappostosi all'improvviso sul nostro cammino, che ha infranto l'area di rispetto necessaria a una visione sufficientemente chiara e distinta della cosa. L'alterità, possiamo altrimenti dire, si manifesta in praesentia nell'esperienza dello stupore, mentre lo fa in absentia in quella del dolore. Si potrebbe obiettare che, in uno scontro automobilistico, vediamo sia pure per un attimo e in modo impreciso, l'altro veicolo. Quello che non vediamo è l'orientamento all'urto, la modalità aggressiva con cui l'altro veicolo viene verso di noi; risulta assente, in altre parole, la carica urtante del veicolo, il suo essere per noi un potenziale pericolo. Dopo un incidente, se ancora siamo coscienti, cerchiamo anzitutto di farci una ragione di ciò che è stato, di identificare le ultime mosse dell'altro o le nostre, le vogliamo "vedere" - in altri termini -, cerchiamo di immaginarcele, di compensare così un doloroso vuoto eventuale. Quanto è più forte, poi, il dolore inferto dal comportamento di una persona che credevamo amica. Perché? Perché mentre elaboriamo la nostra sofferenza - dopo il colpo dell'offesa - non siamo in grado di riconoscere la persona che sentivamo familiare. Ci manca qualcosa di essa; scopriamo che ci sfugge, la sentiamo assente; all'appello risponde un essere diverso, chi ci ha offeso non sappiamo davvero chi sia. E' un tassello che manca nel nostro cuore e nella nostra mente. Quella percepita nel dolore è un'assenza che annuncia però drammaticamente una presenza, esperita sensitivamente come qualcosa di profondamente ostile, ma pur sempre come qualcosa di esistente.

Cecità e irrazionalità del dolore

 Le riflessioni fatte fin qui ci permettono di rispondere alla principale obiezione mossa alla comprensibilità del dolore: il senso comune lo descrive come cieco e irrazionale, e proprio questo pre-giudizio ostacola fortemente ogni approccio di natura teoretica. Che l'esperienza del dolore possa essere paragonata alla cecità lo abbiamo appena giustificato: ciò che viene contro non si dà a vedere, (o comunque non dà a vedere la sua carica offensiva), colpisce senza consentire alla vista di rendersi conto dell'incombere dell'offesa, che altrimenti si cercherebbe di evitare. Ma cieco il dolore sembrerebbe anche per l'annebbiamento razionale che provoca la componente sensitiva-emotiva che segue all'urto con l'alterità.  

Una doppia cecità, dunque: il dolore come un "non vedere il nemico" e come un offuscamento delle facoltà mentali. Se ci pensiamo, ci rendiamo conto, però, che anche la nozione di cecità non implica l'assoluta impossibilità di cogliere l'altro da noi: esclude solo la possibilità di vedere distintamente la cosa, non di percepirla come qualcosa che è.

Non ne vediamo i contorni, fatichiamo a ricostruirne la natura, tuttavia cogliamo il tratto ontologico principale il fatto che sia qualcosa. Anche questo è in qualche modo un vedere, una modalità conoscitiva che merita rispetto: in fondo, anche i ciechi leggono, sia pure con la sensibilità dei polpastrelli, che esercita la funzione della cornea e del cristallino. Alla luce di queste premesse, diventa difficile sostenere che la cecità del dolore non consente alla ragione di avere in qualche modo voce in capitolo nell'esperienza dolorosa, di comprenderla, di adeguarvisi. La cecità del dolore si concentra - semmai - nel non poter vedere l'altro nella sua dimensione di attentatore, di nemico o di pericolo per il nostro essere: nella circostanza dolorosa facciamo esperienza, se così si può dire, dell'assenza come rinvio a qualcosa.

Ma a questo punto dobbiamo prendere le distanze - oltre che dalla predetta cecità - anche dalla presunta irrazionalità del dolore.

In che senso il dolore sarebbe irrazionale, ovvero non-razionale? Forse perché non si adegua alla ragione, a quell'attività che consiste nel formare concetti e giudizi? (Die Vernuft - scriveva Husserl - als das Vermögen der Theorie betätigt sich in Funktionen der Begriffs - und Urteilsbildung) (8). O piuttosto perché manca di un senso? Entrambi i quesiti non possono avere, a nostro giudizio, che una risposta negativa. Le stesse domande originarie che suscita il venire contro dell'altro da noi - che cosa succede? perché? - presuppongono, fondamentalmente, un giudizio (c'è qualcosa), classico prodotto della ragione, quello straordinario mezzo di appropriazione del reale che divide, ricompone, elabora sintesi, le rimette in gioco. Il dolore veicola un senso - quanto meno suscita la ricerca di esso - e questo attiva la facoltà razionale. Al di là della domanda fondamentale (perché?), il dolore - nel suo essere percezione di una presenza (ostile) a partire da un'assenza parziale (l'essere dell'altro non si dà a vedere in pienezza come nello stupore) - pone le basi per un'attività interpretativa che è, a ben vedere, produttrice di senso. Cercare di "vedere" chi o che cosa ha provocato in noi lo shock della sofferenza, riesaminare i movimenti che l'hanno preceduto, riconsiderare l'altro alla luce di quanto è successo, tutto questo e molto altro ancora, cos'è se non un raffinato processo di comprensione? Come si può ancora ammettere che - oltre che cieco - il dolore non abbia senso? Il dolore dà senso, fa scoprire significati, induce a riconsiderare l'intero nostro essere nel mondo. Ma come la mettiamo, si può obbiettare a questo punto, con l'insensatezza del mondo che esperisce chi è colpito da un grande dolore, che lo fa desiderare solo di farla finita con questa esistenza? Ecco come Natoli pone la questione:

"L'esperienza del dolore, intesa come circolarità tra danno e senso, non coincide con la pura e semplice sofferenza fisica, ma produce una lacerazione tale da far percepire agli uomini la propria condizione come del tutto insensata, incomprensibile. Il dolore, non tanto quanto è forte, ma soprattutto quando è grave, quando è strettamente imparentato con la morte, spinge gli uomini sulla soglia della disperazione. Per essere espliciti, il dolore solleva questioni radicali sul significato e il valore della vita nel suo complesso. Detto altrimenti, se ad esempio una paralisi mi inchioda a una sedia, io non patisco solo il danno della lesione e dell'immobilità ad essa connessa - in breve, la pura fisicità - ma, a partire dall'impedimento, ove magari il dolore vivo da tempo tace, sperimento l'insensatezza del mondo in cui mi trovo a vivere, ma che non mi appartiene. Inchiodato a una sedia, vivo infatti in un mondo che in ogni momento mi invita a camminare, che è aperto innanzi a me e da percorrere, ma al tempo stesso mi è definitivamente precluso. In ciò non sperimento solo il peso della mia immobilità, ma patisco la pena di un mondo impossibile per me. Di qui la sua insensatezza". (Salvatore Natoli, La felicità di questa vita. Esperienza del mondo e stagioni dell'esistenza, Milano, Mondadori, 2000, pag 113)

Nell'interpretazione di Natoli la sensatezza del mondo consiste nel la possibilità di sperimentarlo, fruirlo: è chiaro che, nel momento in cui si frappone un impedimento grave - come nei casi di un dolore che inabilita - questa significatività del mondo viene meno. Se il senso dell'esistenza si correla alla possibilità di vivere, e di vivere in modo conforme alle proprie potenzialità (motorie, psichiche, relazionali), il dolore non può che mettere profondamente in crisi la domanda di senso della persona.

Se però torniamo a considerare il dolore come una conseguenza naturale dell'essere nel mondo, inscritta nella dinamica delle relazioni tra enti, allora non è più lecito parlare di una sua "insensatezza". Il dolore può rappresentare un ostacolo alla sperimentazione del mondo, tuttavia il mondo continua ad appartenere a colui che soffre: pur emarginato, esso ne fa ancora parte e può continuare a interpretarlo, ad assegnargli un senso, pur da un nuovo punto di vista. E' vero che  la persona paralizzata non può più correre in un prato, tuttavia può muoversi con la sedia a rotelle o semplicemente guardarlo: solo perché non gli è possibile camminare, dobbiamo ammettere che è definitivamente precluso? Il dolore nelle sue forme più gravi impone nuove modalità di fruizione del mondo. Se è vero, come scrive Natoli, che le forme più gravi di dolore portano a uno stato di disperazione, non si può dimenticare - la cronaca ci offre ogni giorno motivi per affermarlo - l'eccezionale reattività di persone colpite da immani eventi dolorosi. Giovani vittime di gravi incidenti stradali che, usciti dalla fase acuta della malattia, si battono per informare i coetanei sui rischi della guida. Pazienti colpiti da rarissime malattie debilitanti che, superato lo choc della diagnosi, riescono a comunicare con il mondo impiegando magari solo un dito o una palpebra, unica funzione vitale in corpi che sono ormai solo scafandri. Ammettere, poi, che attraverso l'esperienza del dolore nelle sue forme più gravi, il mondo fa affiorare tutta la propria insensatezza,  fa supporre che sia sensato solo il mondo in cui le cose vanno bene, dove la normalità sia la regola e la pietra di paragone di ogni evento.

Se ammettiamo che le cose - in generale tutti gli altri enti - possano venirci contro oltre che incontro, non possiamo accettare l'irrazionalità del dolore, pur riconoscendo che la facoltà del vedere non è al suo massimo grado, anzi è alquanto manchevole.

A ben rifletterci, anche la meraviglia, che induce a spalancare gli occhi sull'ente che si manifesta in tutta la luminosità della sua presenza - e in questo farebbe pensare al massimo possibile della razionalità  - non permette una conoscenza "razionale" in senso proprio. Perché, se il dolore non possiede abbastanza "tracce" dell'altro da sé per comprenderlo adeguatamente, lo stupore non ha troppe: l'essere della cosa apparsa all'improvviso stordisce, lasciando spazio - nella fase iniziale dell'esperienza - alle sole esclamazioni, che sono espressioni di senso, presuppongono anch'esso il giudizio fondamentale (c'è qualcosa), ma sono ben lungi dall'essere articolate. Sotto il profilo della conoscenza, l'esito finale è il medesimo per entrambe le esperienze: meraviglia/stupore e urto/dolore hanno l'effetto di colpire al cuore dell'essere, portando dolcemente alle cose o strattonandoci al loro cospetto in malo modo. Anche lo stupore possiede un che di "irrazionalità", ma non per questo non possiamo dire che la ragione sia fuori gioco.  In entrambi i casi "vediamo" qualcosa, apriamo i nostri occhi o i nostri sensi sull'essere, senza poterlo davvero afferrare nel dettaglio (stupore) o per coglierlo come assenza di una presenza (dolore). Per quanto possa sembrare strano, tra le due esperienze accomunate dal manifestarsi dell'alterità, è quella del dolore a produrre i risultati conoscitivi più importanti.

1)       La visione è al minimo (ma sufficiente a garantire l'esistenza di un altro da sé), in compenso la ricerca di senso al massimo (dall'urto promana la domanda). Nello stupore la visione dell'alterità è massima; l'altro si offre in tutta la sua apparente luminosità, al punto da annullare la ricerca di significati, sostituita da una sospensione ben espressa dalle modalità linguistiche esclamative.

2)        Nel dolore entra in gioco una conoscenza sensitiva-emozionale complessa, quale conseguenza dell' "attentato" all'integrità della persona posto in essere dal venire contro ad essa. Nello stupore prevale la sensitività della vista. E la distanza che si frappone tra l'alterità venuta incontro e il soggetto che la contempla, non configura alcun contatto, che resta una potenzialità.

3)       Se nello sguardo dell'altro si coglie la propria identità - l'Io si scopre tale in relazione a un Tu - nell'esperienza del dolore come urto, si partecipa a un'epifania ontologica: si scopre anche di che natura è quell'Io che va identificandosi come tale in relazione a un altro da sé. Lo stupore, per il faccia a faccia tra il soggetto che si stupisce e l'alterità che viene incontro improvvisa, predispone alla massima individuazione dell'Io. Ma non consente di coglierne il tratto della fragilità, né di sperimentare la vittoria del pensiero sulla fragilità stessa, come straordinaria risorsa di reazione al rischio del proprio annientamento.

4)       La scoperta della fragilità si accompagna alla scoperta delle strategie di reazione all'urto, per rimuovere ciò che, nel produrre un danno all'integralità del nostro essere nel mondo, frena la fruizione di quello stesso mondo.

 L'accadibilità dell'esperienza dell'urto rende "normale" l'esperienza stessa del dolore: quella che comunemente si concepisce come qualcosa di inaccettabile, di insensato e che in tutti i modi si vorrebbe scongiurare.

Una conoscenza che sconcerta

Il dolore è una grandissima occasione conoscitiva, che tuttavia sconcerta per la sua modalità. In una collisione - qual è la conseguenza di un urto - prima che l'occhio metta a fuoco il proprio bersaglio, è il corpo senziente a "vedere". Non c'è spazio alcuno per lo sguardo, almeno inizialmente: l'altro da sé è sentito, prima che veduto; questo spiega perché il dolore non si adegui, nella sua fase per così dire "acuta" ai modi della razionalità, perché sia tanto oscuro, enigmatico, perché non si presti al racconto, perché sfugga alla parola, espressione preferita del concetto. Eppure, anche il dolore derivante dallo scontro con l'altro da sé, è conoscenza. Apprensione sensibile, confusa, da ordinare, imprecisa, fatta di dettagli, ma sempre conoscenza. Che informa, anzitutto, sulla presenza dell'altro e - contestualmente - dell'esistenza del soggetto. Protagonista del dolore è certamente chi soffre. Ma, l'attore principale, il movente della sofferenza che ne deriva, è ciò che produce l'urto, l'altro dal soggetto.

Venendo meno i presupposti di una chiara e corretta messa a fuoco dell'altro da sé, si comprende quali  disagi possa avvertire il soggetto conoscente nel suo rapportarsi al mondo. In qualche modo, la relazione - in virtù del suo movimento intenzionale - può essere vista come il garante dell'Io, o meglio ancora, del farsi dell'Io in relazione agli altri enti che costituiscono quel reale in cui anche l'Io si situa. E' la zavorra di questo originario trovarsi-situandosi, in virtù della quale si forma la consapevolezza di far parte di questo mondo in modo diverso da tutti gli altri enti. Quando alla visione dell'altro da sé si sostituisce l'incorporazione, o si profila il rischio di essa, venendo meno la spazialità del rispetto (la distanza-presupposto di ogni intenzione/relazione), è in pericolo lo stesso trovarsi nel mondo. Non solo l'Io rimane scosso, fatica a mettere a fuoco se stesso, nel rapporto non riuscito con l'alterità che è dato dall'urto: si modifica la stessa percezione della realtà e l'esserne parte.

Qui vanno cercate le radici ontologiche dello straniamento, del pessimismo, dalla solitudine vissute da chi sta attraversando un'esperienza dolorosa. E qui mette radici l'idea - così lucidamente esposta da Heidegger, ma non pienamente giustificata in Sein und Zeit - dell'anticipazione della morte come la condizione più caratterizzante dell'uomo, il più autentico essere dell'Esser-Ci. Perché se partiamo dal presupposto che l'esistenza sia essenzialmente un relazionarsi degli enti, giungiamo alla consapevolezza che - prima o poi - c'è il rischio di esperire una circostanza come quella che fa scaturire il dolore.

Note

1)      Simone Weil, Attesa di Dio, Milano, Rusconi, 1984.

2)      Aristotele, La Metafisica, a cura di Giovanni Reale, Milano, Vita e Pensiero, 1993, IX edizione, III volume.

3)      Il termine intenzionalità si comprende anzitutto analizzando il significato originario della parola latina intentio, composta dal prefisso in, con valore di moto a luogo, e dal verbo tendere, che indica invece l'atto di orientarsi a qualcosa. Alla luce di questa pur breve esegesi, si comprende come l'intenzionalità indichi "il riferimento interno di un atto o uno stato mentale a un determinato oggetto, indipendentemente dall'eventuale sussistenza di questo oggetto nella realtà esterna" (voce "Intenzionalità" in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, Garzanti, 1993, IX edizione, pag 552). Pressochè accantonata dal pensiero moderno, la nozione di intenzionalità è stata riproposta alla fine dell'Ottocento da Franz Brentano e successivamente rilanciata da Edmund Husserl. "Nella fenomenologia, la filosofia stessa è caratterizzata dal compito di descrivere la struttura immanente con cui l'oggetto è intenzionato dalla coscienza" (Enciclopedia. ibidem, pag 353). In generale, si considera intenzionale il rapporto di qualsiasi atto con un oggetto.  Può essere utile leggere anche la definizione di Searle. "Intenzionalità: E' il termine usato dai filosofi e dagli psicologi per definire quella caratteristica di molti stati mentali che sono diretti a o che riguardano stati di cose del mondo. Se ho una convinzione, un desiderio o una paura, deve sempre esserci il contenuto di tale convinzione (.) Deve riguardare qualcosa, anche se il qualcosa cui si riferisce non esiste (.) Anche in casi in cui mi sto radicalmente sbagliando, deve esserci un qualche contenuto mentale che implicitamente faccia riferimento al mondo" (vedi alla voce "Intenzionalità", in John R. Searle, "Per una teoria empirica della coscienza", in Micromega, febbraio 1998, pag 232). Molto chiara la spiegazione che dà Edith Stein, la quale indica nell'intenzionalità il tipico modo di rapportarsi di un Io e di un oggetto, entro un'unità di vissuto. "L'esperienza vissuta del contenuto 'gioia' - scrive la filosofa - è condizionata quindi da due lati: da parte dell'oggetto e da parte dell'Io, L'oggetto, in questo caso il contenuto della notizia, non appartiene, come parte, alla gioia in quanto contenuto di esperienza vissuta, ma vi appartiene il dirigersi verso tale oggetto (l'intenzione, nel linguaggio fenomenologico); la proprietà di essere gioia per questo oggetto, appartiene alla sua consistenza e, in senso intenzionale, ossia come qualcosa cje è da essa (gioia) 'inteso', le appartiene anche l'oggetto". (Edith Stein, Essere finito e Essere eterno. Per una elevazione al senso dell'essere, Roma, Città Nuova, pagg 83-84).

4)      Silvano Petrosino, Lo stupore, Novara, Interlinea Edizioni, 1996, pag. 70

5)       "Il dolore, come la morte non viene scelto, ma assegnato". Salvatore Natoli, L'esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli, 1986, pag. 17.

6)      Martin Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1980

7)      Nelle pagine sulla morte, in quel macigno concettuale che è Sein und Zeit, si tende per lo più a portare l'attenzione sulla distinzione tra la morte e l'essere per la morte quale cifra davvero autentica dell'uomo o Esser-ci. Guido Bruni, nel suo saggio sulla fatticità nell'opera maggiore di Heidegger, si sofferma piuttosto sull'incombenza della morte. Un aspetto molto interessante, in relazione al nostro studio, perché aiuta a capire come mai il dolore venga considerato un annuncio della fine. Come la morte incombe, così il dolore si manifesta improvviso incombendo sull'individuo. In questo tratto - il tratto del venire contro, che consideriamo l'aspetto più proprio del dolore - esso dà la percezione anticipata della fine. Ma torniamo a Bruni e alla morte in Heidegger. "Abbiamo detto che la morte non è, semplicemente, come "la" possibilità in quanto tale (.): essa piuttosto è ad ogni momento possibile, in sé assolutamente certa e mai "delegabile" a qualcun altro, non scansabile, non scavalcabile; insomma, non basta dirne che è il polo d'un rapporto di dominio (.): essa propriamente incombe sull'esserci, e incombe già sempre (.) ma ne è l'incardinazione, ne detta il senso, ne sigla la finitudine, vi afferma sempre e comunque la propria inarginabile potenza". (In Guido Bruni, Heidegger e l'essere come fatticità. La temporalità vuota, il dominio della celatezza, l'eclissi dell'"altro", Pisa, Edizioni ETS, 1997, pagg. 422-423.

8)      Edmund Husserl, Fenomenologia e teoria della conoscenza, Milano, Bompiani, 2000, testo tedesco a fronte, pag 66.

 

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