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Gérard Genette: dalla critica all’estetica

di Roberta Sforzini

Introduzione

In L’Oeuvre de l’art. La relation esthétique, Gérard Genette riflette sulla dimensione teorica dell’arte, ponendosi come obiettivo quello di tentarne una spiegazione, ossia una definizione dell’identità. A tale scopo egli si propone di abbandonare la sua consueta e nota veste di critico d’arte che per lunghi anni lo ha portato a esplorare con successo altri aspetti di quel variegato e composito mondo che è appunto l’arte, per cimentarsi nell’inconsueto (per lui) ruolo dello “scienziato” (il cui oggetto di ricerca resta sempre, ovviamente, il fatto artistico).

La presa di coscienza di questo nuovo interesse (in realtà si tratta piuttosto, come l’autore stesso dichiara, di un interesse da tempo presente ma rimasto a lungo latente) verso un problema teorico o, se si vuole, scientifico, viene fatta risalire dallo stesso Genette a un preciso momento, o meglio, a un preciso episodio occorso nel 1980 in occasione di una nomina per una cattedra al Collège de France. In tale circostanza, interrogato da un fisico, il prof. de Gennes, su quale fosse la sua teoria della letteratura, egli si rende conto di non averne alcuna.

Avendo sempre preso la teoria della letteratura per una disciplina neutra (lo studio generale delle forme letterarie) piuttosto che come un’ipotesi esplicativa militante, restai pressoché senza voce alienandomi d’un sol colpo e definitivamente il suo voto, meditando fra me e me sulla differenza di senso (e di forza) della parola “teoria” in questi due campi, (...) dovendo tuttavia confessare a me stesso che effettivamente una teoria della letteratura non l’avevo e che non vedevo nemmeno bene in che potesse consistere una cosa simile (Genette, 2000, pp. 36-37).

Il suo cammino l’aveva fino a quel momento portato ad ampliare costantemente il suo orizzonte di ricerca, passando, in successione, dal singolo testo all’opera di un particolare autore, a quella di un’intera corrente, fino ad arrivare alla letteratura in generale, ma sempre con un intento di analisi e classificazione delle forme (letterarie), e non di spiegazione: la teoria come unico modello razionalizzante, appunto, ma non una teoria, come possibile ipotesi esplicativa. Ciò che improvvisamente si manifesta alla coscienza di Genette è un vuoto, una mancanza nella riflessione da lui condotta intorno alla letteratura che lo spinge ad intraprendere una nuova strada.

Durante parecchi anni, dunque, la consapevolezza di questa lacuna deve essersi fatto strada sotterraneamente in me, fino al giorno in cui compresi che in quest’ambito “teoria” poteva significare in senso forte: tentativo, se non di spiegazione, almeno di definizione, e dunque di rispondere alla suddetta domanda “Che cos’è ...” - sia pure nella forma (tornerò sul punto) “Quando vi è ...” (Genette, 2000, p. 37).

E' dunque proprio la domanda epistemologica a cambiare: non si tratta più di estendere il campo d’applicazione di un metodo già consolidato, ma di adottare un nuovo punto di vista cui fare corrispondere un nuovo metodo.

Se, e fino a che punto, Genette riesca a mantenere fede a questo suo proposito, spogliandosi della sua veste di critico, per indossare, come si diceva all'inizio, quella di scienziato, è ciò che si vuol tentare di verificare in questo scritto.

Per un approccio scientifico

Genette stabilisce alcuni parametri ai quali ritiene ci si debba attenere ogni qualvolta s’intenda adottare un atteggiamento “scientifico” dinanzi a un qualsivoglia problema. Innanzitutto, egli prende in esame la posizione dello scienziato rispetto all’oggetto d’indagine, posizione che necessita (se l’intento è per l’appunto quello di tentare una spiegazione) di una certa distanza cognitiva, perché “il ruolo di una scienza o di una teoria non è quello di ‘sposare’ il proprio oggetto, ma di descriverlo correttamente, e ciò comporta un certo divorzio, magari consensuale ...” (Genette, 1998, p.114).

Questa distinzione soggetto-oggetto deve essere netta, “poiché non può esservi studio, e ancor meno scienza, di ciò che non ha esistenza oggettiva” (Genette, 1998, p.80). Soggetto e oggetto devono essere due entità teoriche perfettamente e indiscutibilmente separate, distinte. Genette insiste molto nel ribadire il concetto di oggettività della scienza, nel senso appena indicato, verosimilmente perché ciò risponde alla sua personale difficoltà ad abbandonare il punto di vista del critico che lo aveva al contrario portato ad entrare nell’oggetto, a vivere con esso, caricandolo di tutta una serie di valori soggettivi, di giudizi..

Essenzialmente sono dunque l’oggettività e la “neutralità” (Genette, 1998, p.114) della scienza i punti fondamentali del metodo che Genette vuole adottare in questa sua nuova indagine intorno alla letteratura, indagine volta, ripetiamo, a un tentativo di definizione.

La relazione estetica

La prima questione che Genette affronta con quest’intento scientifico è il fatto estetico in generale, ossia la questione del “bello”. Volendo inquadrare la posizione di Genette all'interno dell’eterna disputa su ciò che si definisce “bello”, possiamo affermare che tra oggettivismo (le ragioni del “bello” risiedono nell’oggetto) e soggettivismo (l’“essere bello” non è una qualità oggettiva, ma un’attribuzione del soggetto), egli si colloca senza dubbio tra i sostenitori del secondo punto di vista.

Genette dichiara che l’identità estetica (ma non solo) di un oggetto viene stabilita all’interno della relazione soggetto-oggetto, ossia che “non è l’oggetto che rende estetica la relazione, ma la relazione che rende estetico l’oggetto” (Genette, 1998, p.22). Non sono quindi determinate caratteristiche dell’oggetto che autonomamente possono attivare una fruizione di tipo estetico, ma è una loro particolare presa in considerazione all’interno di una relazione con il soggetto che le può determinare come estetiche. Si tratta dunque di quelle caratteristiche dell’oggetto selezionate dal soggetto che hanno a che fare con il suo aspetto, con la sua (per usare un termine inflazionato) forma. Genette chiama “aspettuali le proprietà attivate in questo tipo di relazione, e il tipo di attenzione che le attiva” (Genette, 1998, p.19). Va sottolineato come quest’identità così costituita non sia l’identità, per così dire, assoluta dell’oggetto, ma una sua identità parziale legata a una determinata pratica (in questo caso quella estetica) che costruisce il suo oggetto specifico, non coincidente (almeno, non necessariamente) né con l’oggetto, diciamo, naturale, né con quello costruito da altre relazioni, altre pratiche.

La cosa più sicura mi pare sia definire l’esperienza estetica dalla sua causa, che non è il suo oggetto nel senso corrente, poiché in questo senso ogni oggetto può offrirsi a essa come pretesto, bensì piuttosto la maniera in cui questo oggetto viene considerato - la quale, a sua volta, si definisce in virtù di ciò che, nell’oggetto, essa decide di considerare - e che costituisce poi il suo oggetto attenzionale (Genette, 1998, p.40).

Ciò che è rilevante in questo passaggio è la dichiarazione che qualsiasi oggetto può essere parte di un’esperienza estetica, in quanto qualsiasi oggetto può fungere da pretesto per esercitare quel tipo di attenzione chiamata da Genette aspettuale e che, dell’oggetto, decide di selezionare certe caratteristiche e non altre, costituendolo appunto come oggetto estetico.

Il soggetto e il giudizio estetico

La bellezza sarebbe dunque una proprietà attribuita all’oggetto dal soggetto all’interno di una relazione estetica. Ma in che cosa consiste più precisamente una relazione estetica, che cos’è che muove il soggetto ad effettuare quest’attribuzione? Dichiarare, dice Genette, che un oggetto è bello (o brutto) non è altro che il modo tramite cui il soggetto manifesta il proprio piacere (o dispiacere), è un’oggettivazione di un sentimento.

... il soggetto estetico attribuisce all’oggetto, a titolo di predicato, una proprietà che deve essere la causa oggettiva del proprio piacere o dispiacere, e che egli chiama la sua “bellezza” - o qualunque altra “qualità” estetica (Genette, 1998, p.84).

Il soggetto ha dunque la necessità di fondare “oggettivamente” il proprio piacere nel momento in cui intende formulare un “giudizio” estetico, nel senso che il soggetto ha bisogno di credere che il piacere o dispiacere che prova abbia una base oggettiva. “ ‘Amo questo brano musicale’ (...) non cerca per sé alcuna motivazione oggettiva; non è insomma un giudizio” (Genette, 1998, pp. 112-113). Genette a tal proposito parla di illusione estetica, in quanto si ha una trasformazione in oggettivo di qualcosa che in realtà è soggettivo.

L’illusione estetica è l’oggettivazione di questo valore stesso (‘Questo tulipano è bello’) che presenta l’effetto (il valore) come una proprietà dell’oggetto, e per conseguenza l’apprezzamento soggettivo come una ‘valutazione’ oggettiva (Genette, 1998, p.87).

Il giudizio estetico è dunque un atto costitutivamente soggettivo che ha bisogno dell’oggetto per darsi una motivazione. È in questo senso che Genette parla di oggetto come pretesto dell’esperienza estetica.

Nel fondare il giudizio estetico su un criterio decisamente soggettivo, Genette riprende il pensiero di Kant e ciò che egli dice a proposito del ‘giudizio di gusto’.

Quello che chiamiamo giudizio estetico, che riguarda per esempio, e per parlare sbrigativamente (e falsamente), la “bellezza” e la “bruttezza” delle cose, in effetti Kant lo chiama più usualmente “giudizio di gusto”, prendendo a prestito questo termine e questo concetto, come molte altre cose, da una tradizione anteriore cui apparteneva lo stesso Hume. E ciò che in lui viene designato dall’aggettivo “estetico” è il fatto che questo giudizio, sto citando, “non è un giudizio di conoscenza, cioè logico, ma è estetico; il che significa che il suo principio determinante non può essere null’altro che soggettivo”. Questo principio determinante è un sentimento di piacere o di dispiacere, e il giudizio estetico del tipo “Questo oggetto è bello” non fa assolutamente nient’altro che esprimere tale sentimento, su cui, come su ogni sentimento, nessun argomento, nessuna dimostrazione, nessuna “prova” oggettiva, se ce ne fossero, potrebbe in realtà agire (Genette, 1998, p.77).

Genette ritiene dunque che il giudizio estetico non sia logico, che non riguardi cioè la conoscenza, ma che sia espressione di un sentimento, e che, in quanto tale, non abbia bisogno di riscontri oggettivi, poiché non ha lo scopo di conoscere alcunché: al limite posso giudicare bello o brutto un oggetto anche senza sapere che cosa è, senza cioè averlo in qualche modo precedentemente identificato.

A questo punto sembrerebbe di ritrovarsi davanti ad una contraddizione: come è possibile affermare che il giudizio estetico essendo soggettivo non ha bisogno di prove oggettive, quando allo stesso tempo si sostiene che il soggetto giudicante ha l’assoluta necessità di fondare oggettivamente il proprio giudizio? In realtà, queste due affermazioni pertengono a due differenti punti di vista, a due differenti livelli di osservazione, quello del teorico che descrive dall’esterno, e quello del fruitore, del giudice che agisce dall’interno. Il problema è che Genette, pur essendo consapevole di tale distinzione (di cui espressamente tratta), nel corso dell’esposizione non sempre la precisa, scivolando spesso da un piano all’altro, senza specificare dove in quel momento intende collocarsi.

Andiamo comunque ad osservare in che termini Genette distingue questi due diversi piani dell’esperienza estetica.

Oggettivo/soggettivismo e soggettivo/oggettivismo: teoria e pratica

Genette ricorre spesso nel corso della sua trattazione alle contrapposizioni soggettivo/oggettivo, soggettivismo/oggettivismo, ma anche soggettivo/soggettivismo, oggettivo/oggettivismo, lasciando però spesso che i differenti campi di applicazione di tali concetti emergano, per così dire, da sé. Per esemplificare ciò che intendiamo dire prendiamo alcune sue affermazioni.

Eccoci dunque in presenza di due concezioni dell’apprezzamento estetico: quella simbolizzata dalla chiave di Sancho, e quella che, secondo me, risulta dalla rivoluzione kantiana. Non sarà un grande sforzo per me definire la prima come oggettivista e la seconda come soggettivista, né confermare che aderisco totalmente a quest’ultima (Genette, 1998, p. 81).

E ancora:

Detto altrimenti, la teoria soggettivista che sostengo considera che l’apprezzamento estetico è oggettivista a causa di un’illusione costitutiva (...) Per me, l’apprezzamento estetico è costitutivamente oggettivista perché non può rinunciare al proprio corollario di oggettivazione senza pregiudicare se stesso come apprezzamento: se giudico bello un oggetto, non posso nello stesso tempo (con lo stesso atto) ammettere la proposizione soggettivista e tipicamente riduttrice, che mi dice: “Tu lo giudichi bello, ma significa solo che ti piace” (Genette, 1998, p.103).

In sintesi, il giudizio, per chi lo esercita, sarà soggettivo e oggettivista, per chi, invece lo analizza dall’esterno sarà un fatto oggettivo e soggettivista.

E ne consegue evidentemente che il (meta-)estetologo soggettivista - colui che, dall’esterno e in teoria, dice con Kant che “il bello non è null’altro che l’oggetto di un simile piacere (ossia, naturalmente, si definisce soltanto per mezzo di tale piacere) - non può mai “applicare” a se stesso (ai propri apprezzamenti) la propria (e giusta) teoria nell’atto stesso del proprio apprezzamento: per quanto giustamente sia in teoria convinto che l’apprezzamento in generale è puramente soggettivo, non può di fatto (non più che chiunque) vivere la propria vita estetica nella maniera riduttrice di questa teoria ... (Genette, 1998, p.103).

Detto altrimenti,

... si può e, secondo me, si deve essere soggettivisti “in teoria”, ossia quando si tratta di descrivere dall’esterno l’apprezzamento estetico, ma non è possibile esserlo in pratica, ossia quando si è impegnati nell’atto di apprezzamento, oggettivista per definizione. (...) in rapporto all’atto di apprezzamento, la teoria oggettivista dell’apprezzamento è soggettiva (inerente e adeguata all’atto di apprezzamento), e dunque non può essere oggettiva, come deve essere una teoria per essere corretta; invece, la teoria soggettivista è oggettiva, ossia esterna all’atto di apprezzamento ... (Genette, 1998, p.114).

La teoria estetica dunque per essere oggettiva, e quindi per essere teoria, non può essere altro che soggettivista, non può cioè far altro che sostenere che il “bello” non è una proprietà oggettiva, ma un’attribuzione soggettiva (anche se oggettivata). Inoltre, se non può esservi scienza se non di ciò che ha esistenza oggettiva (come Genette ha precedentemente dichiarato) e se il “bello” è puramente soggettivo, allora non può esservi scienza del bello.

... se il bello non è null’altro che il contenuto dell’apprezzamento soggettivo, l’estetica, concepita fino allora come scienza del bello, non può essere una scienza simile, poiché non può esservi studio, e ancor meno scienza, di ciò che non ha esistenza oggettiva (Genette, 1998, p.80).

Ma qual è allora il possibile oggetto di un’estetica intesa come scienza, come teoria? Genette risponde che “l’estetica in quanto studio, eventualmente in quanto ‘scienza’, non può essere altro che una ‘meta-estetica’, ossia lo studio dell’apprezzamento estetico stesso (Genette, 1998, p. 80).

L’apprezzamento

In generale, Genette indica col termine “apprezzamento” la causa e la finalità del giudizio di piacere o dispiacere espresso dal soggetto verso un oggetto in una relazione estetica. Tale apprezzamento non si caratterizza per una particolare valenza assiologica: può essere sia positivo che negativo. Ciò che è fondamentale sottolineare è il fatto che Genette inserisca tale concetto all’interno della sua definizione di relazione estetica:

... l’attenzione estetica verrebbe definita come un’attenzione aspettuale animata da, e orientata verso, un problema di apprezzamento o, ma è la stessa cosa, come un problema di apprezzamento (“Questo oggetto mi piace...”) posto a partire da un’attenzione aspettuale ... (Genette, 1998, p.20).

Se l’attenzione aspettuale, ossia una particolare maniera di considerare un oggetto, a dire di Genette, è la causa della relazione estetica ed è motivata da una domanda sull’apprezzamento, ciò significa che il principio di tale relazione è l’apprezzamento stesso. Sottolineiamo come, per questa via, lo scopo della relazione estetica, non sia cognitivo, logico, ma espressivo, emotivo, in netto contrasto con quanto sostiene, per esempio, un altro filosofo (citato dallo stesso Genette), Nelson Goodman, che, al contrario, vede ogni pratica umana finalizzata alla conoscenza e alla costruzione di mondi (cognitivi e simbolici). Egli esclude categoricamente i sentimenti, le emozioni dalla definizione di esperienza estetica e di arte, nel senso che ciò che esclude non è la loro presenza in assoluto (possono anche esserci), ma la loro presenza in una definizione di tale esperienza che rimane fondata sulla logica, a cui anche le emozioni sono subordinate, arrivando a sostenere che perfino queste ultime funzionano cognitivamente.

Ma, in una visione così decisamente soggettivista, dove Genette può trovare quel “fatto oggettivo” da analizzare e spiegare scientificamente? A tale proposito, Genette distingue tra il contenuto dell’apprezzamento, ossia le qualità e/o i difetti attribuiti all’oggetto, e l’atto di apprezzamento stesso, unico possibile oggetto di un’estetica scientifica.

La risposta è che è il contenuto dell’apprezzamento (la “bellezza”, la “bruttezza”, ecc. dell’oggetto apprezzato) che non ha esistenza oggettiva, poiché risulta da un’oggettivazione erronea dell’apprezzamento stesso. Questo, invece (l’atto di giudicare “bello” o “brutto” quell’oggetto) è un fatto evidentemente “soggettivo”, ma ben reale come evento psicologico e osservabile, almeno indirettamente in base alle sue diverse manifestazioni, in particolare quelle verbali - e a questo titolo oggetto di studio valido e legittimo. (...) E dunque il solo fatto che si presti allo studio, teorico (generale) o empirico (caso per caso), è l’apprezzamento medesimo, oggetto di un’analisi meta-estetica che si continuerà a chiamare “estetica” soltanto per non appesantire il lessico; (...) Abbiamo a che fare con oggetti (di attenzione estetica), abbiamo a che fare con l’atto (“giudizio di gusto”) di prestare loro “qualità estetiche”, ma non abbiamo a che fare mai, e a ragione, con quelle stesse “qualità”, se non (dice all’incirca Kant) nell’analisi, e come contenuto di quel giudizio (Genette, 1998, pp. 80, 81).

Il “bello” dunque non esiste, non è una proprietà dell’oggetto, non è un fatto. Al pari di tutte le altre qualità estetiche è un contenuto dell’apprezzamento, un’oggettivazione di un piacere soggettivo, un’“illusione” estetica, e pertanto non può essere oggetto di un’analisi scientifica. L’unico fatto suscettibile di una tale analisi è l’apprezzamento, l’atto di giudicare, benché si tratti di un atto soggettivo che “si spaccia per la valutazione che non è” e che “oggettiva come criteri i propri motivi” (Genette, 1998, pp. 87, 88).

Benché attivato dal soggetto, il quale in realtà non valuta (anche se illusoriamente pensa di farlo), ma semplicemente manifesta il proprio piacere usando l’oggetto come mezzo per motivare e rendere credibile a se stesso ciò che prova (si sta forse facendo della psicologia?), l’apprezzamento resta comunque un processo relazionale.

... se trovo “bello” un fiore che il mio vicino trova brutto, o indifferente, ciò avviene in ragione di un accordo che si produce tra il fiore e me (tra le sue proprietà oggettive e la mia sensibilità personale), e che non si produce tra esso e il mio vicino. La ragione dei sentimenti estetici risiede in questi fattori di convenienza i quali, come tutti i fattori di relazione, hanno essi medesimi una duplice origine, nell’oggetto e nel soggetto. Il movimento di oggettivazione, osservato da Kant di sfuggita e obliquamente, e che merita un’attenzione più approfondita, consiste nell’attribuire unilateralmente all’oggetto l’intera responsabilità di questa relazione bilaterale, come se questa relazione dipendesse interamente dall’oggetto ... (Genette, 1998, p. 86).

Se dunque si ritiene che una definizione dell’estetico è possibile trovarla solo all'interno di una relazione soggetto-oggetto (cosa che fin dall’inizio Genette sostiene), allora l’oggetto, anche senza essere stato identificato da una qualche altra pratica cognitiva, deve possedere una sua materialità, un insieme di “proprietà oggettive” che saranno sue prime che della  relazione. L’accordo che come dice Genette, si produce tra un soggetto e un fiore chiama in causa, appunto, non solo le sensibilità individuali, ma anche le proprietà oggettive del fiore che in qualche modo vengono attivate.

La questione dell’oggetto emergerà con tutta la sua problematica all’interno di quella che per Genette dovrebbe consistere in un caso particolare di relazione estetica, ossia la relazione artistica.

La relazione artistica

Genette inizia dunque concependo l’artistico come un caso particolare dell’estetico e dichiara che “la differenza tra ‘semplice’ relazione estetica e relazione artistica dipende solo dall’assenza o dalla presenza di un fattore intenzionale” (Genette, 1998, p.13). Tale differenza ci dice che in una relazione artistica, oltre all’apprezzamento, che rimane la finalità (ma anche la causa) principale dell’attenzione aspettuale, è necessario che vi sia anche l’intenzionalità dell’apprezzamento stesso, ossia che l’oggetto sia stato prodotto con l’intenzione di portare a un tipo di fruizione estetica. Posta in questi termini, la definizione dell’artistico sembrerebbe far rientrare in gioco l’oggetto come sua causa (o con-causa). La questione però sulla natura di quest’intenzionalità e, di conseguenza, sullo statuto artistico appare molto più complessa e ambigua.

Ciò che è peculiare alle opere d’arte, è la funzione intenzionale, o funzione artistica; ovvero, per dirlo in termini più soggettivi, ciò che, agli occhi del suo ricettore, conferisce a un oggetto lo statuto di opera d’arte, è il sentimento (corsivo nostro), fondato o meno, che tale oggetto è stato prodotto in base a un’intenzione, almeno parzialmente, estetica ... (Genette, 1998, p.12).

Genette dunque afferma che anche la funzione artistica poggia su un sentimento che, in quanto tale, non necessita di un fondamento oggettivo. Per esserci opera d’arte ci deve essere l’intenzionalità dell’apprezzamento, ma, d’altra parte, dice Genette, quest’intenzionalità è sufficiente che esista come sentimento del soggetto. Che cosa significa tutto ciò? Criterio dell’artistico è dunque un sentimento?

Ora, la questione è: quale ruolo teorico Genette intende attribuire alla funzione artistica? Quello di determinare l’identità dell’arte in generale, o quello di rendere conto di una particolare poetica? Dire “ciò che è peculiare alle opere d’arte” rimanda al piano della descrizione in generale, ma, d’altra parte, dichiarare che è “agli occhi del suo ricettore” che un oggetto assume lo statuto di opera d’arte, limita la relazione artistica a luogo di manifestazione dell’opinione personale del soggetto nel momento in cui prova il sentimento che l’oggetto sia stato prodotto con un’intenzione estetica. Per far valere tale opinione, tale ipotesi circa l’intenzionalità, come criterio scientifico dell’artistico, occorre verificarla. Eppure, Genette non sembra interessato a ciò, a dare cioè fondamento a tale supposizione, mostrando esclusivamente interesse a sottolineare la validità del giudizio soggettivo.

 Andiamo dunque a guardare più da vicino questo concetto d’intenzionalità.

L’intenzionalità e l’arte

La faccenda al riguardo appare alquanto ambigua e ingarbugliata.

Perché si abbia un’opera d’arte, bisogna e basta che un oggetto (o, più letteralmente, che un produttore, attraverso tale oggetto) abbia di mira, tra gli altri o esclusivamente, un simile apprezzamento estetico, possibilmente favorevole; se l’apprezzamento ottenuto non è tale, o (caso frequente) non lo è quanto l’autore auspicherebbe, questo obiettivo sarebbe interamente o parzialmente fallito, ma è sufficiente che l’obiettivo (l’intenzione artistica) sia riconosciuto, o perfino semplicemente supposto, perché l’opera funzioni come tale; se questo obiettivo non viene riconosciuto, l’opera non funzionerà come tale, ma ciò che qui e ora non funziona può funzionare benissimo altrove o più tardi; beninteso, taluni casi possono rimanere indecidibili (non si sa se il produttore di un certo utensile mirasse, o meno, anche all’apprezzamento estetico che provoca) o avere una risposta chiaramente negativa (si sa che un certo oggetto naturale, per esempio un ciottolo, che funziona esteticamente, non lo fa in virtù di un’intenzione autoriale); in tutti i casi però il carattere soggettivo dell’apprezzamento desiderato non inficia affatto la definizione: un oggetto è “estetico” in quanto e nella misura in cui provoca un apprezzamento estetico, è arte in quanto e nella misura in cui è manifestamente “candidato” (Dickie) a un tale apprezzamento (all’occorrenza positivo), e non è né il successo né il fallimento di questa candidatura che determina il suo carattere di opera d’arte (Genette, 1998, p. 131).

Anche qui Genette inizia adottando un punto di vista generale: “perché si abbia un’opera d’arte”. E anche qui pone come principio dell’arte l’intenzionalità dell’apprezzamento. Tale obiettivo, aggiunge, deve essere manifestato e riconosciuto affinché un oggetto funzioni come opera d’arte, e questa necessità sembrerebbe aprire alla possibilità di una verifica, ma subito precisa che è sufficiente che sia supposto e che non è il successo o il fallimento di questa candidatura (intenzione) a determinare il carattere dell’artistico.

Ciò che c’è di nuovo in una relazione artistica rispetto a una relazione estetica è l’intenzionalità dell’apprezzamento. Ora, come considerare tale intenzione perseguita dall’oggetto o, meglio, dal suo autore? Si potrebbe pensarla o come un nuovo fatto osservabile e indagabile scientificamente, anch’esso eventualmente scindibile in fatto e contenuto, o come una delle due facce dell’apprezzamento, se lo si immagina scisso secondo due punti di vista, quello del fruitore dell’opera che tale apprezzamento prova, e quello dell’autore che volutamente lo ricerca come scopo. In entrambi i casi, l’apprezzamento del soggetto che attiva un’attenzione aspettuale, sembrerebbe però avere (a differenza di quanto accade in una relazione esclusivamente estetica) una sorta di fondamento oggettivo nel legame causa-effetto instaurato. Così ragionando, potremmo essere portati a credere che nell’arte l’oggetto torni a esercitare un qualche ruolo nella definizione della relazione e, conseguentemente, della sua stessa identità. Ma le cose non stanno proprio così. Innanzitutto, Genette parla sempre di produttore dell’oggetto (quindi di un soggetto) tutte le volte che entrano in gioco intenzione, scopo, desiderio. L’oggetto non è mai considerato come un agente autonomo capace di innescare e di fondare una relazione artistica. Genette parla (prendendo a prestito il termine di un altro studioso) di “candidatura” dell’oggetto, ma non si tratta di un’auto-candidatura (grazie magari alla presenza di certe caratteristiche aspettuali o formali), bensì di una produzione o di una scelta (in realtà questa seconda opzione, come vedremo, non viene accettata da Genette) da parte di un soggetto. L’oggetto non decide della sua identità di opera d’arte.

Se l’intenzionalità non vuole essere un recupero di certe posizioni strutturaliste che vedevano nella forma il fondamento del significato e dell’identità, allora potrebbe comunque indicare la via per far valere il principio di autorità dell’emittente, in base al quale proprio a quest’ultimo spetterebbe la decisione circa l’artisticità di un oggetto e il suo significato in quanto opera. Eppure, ciò che Genette sostiene non è neppure questo. Difatti, a ben vedere, egli non afferma che perché vi sia arte è sufficiente e necessario che ci sia quest’intenzionalità, ma che essa venga riconosciuta dal lettore, dal fruitore, anzi, andando ancora oltre, che essa venga semplicemente supposta dal soggetto che attiva un’attenzione estetica: è necessario e sufficiente cioè che egli creda di aver scorto un’intenzionalità nell’apprezzamento provato nell’incontro con un oggetto, perché tale oggetto funzioni come arte. Siamo nuovamente di fronte a due differenti punti di vista, quello del fruitore, per il quale  supporre l’intenzionalità artistica di un oggetto è sufficiente per farne (ai suoi occhi) un’opera d’arte (si tratta sempre d’illusione oggettivizzante?), e quello dell’estetologo (scienziato) che ha bisogno invece di verificare l’ipotesi d’intenzionalità artistica avanzata dal fruitore. Le logiche sottese a questi due punti di vista sono essenzialmente diverse e distinte, mentre Genette non sempre riesce a mantenerle tali. Se si parte col dire “perché si abbia un’opera d’arte” (affermazione oggettiva condivisa), non si può poi concludere dicendo che è sufficiente una semplice supposizione (opinione personale del fruitore). Come si può infatti sostenere che, ai fini di una definizione di opera d’arte, non ha alcuna importanza che l’intenzionalità sia oggettivamente presente, in quanto è sufficiente che sia semplicemente supposta? Come può una semplice supposizione essere o funzionare come criterio dell’artistico (o di qualsiasi altra cosa) senza necessitare di alcun riscontro oggettivo? Genette (lo abbiamo visto) afferma che si può fare scienza solo di ciò che ha esistenza oggettiva, dei fatti, e per questo pone a fondamento della relazione estetica l’apprezzamento in quanto atto, accadimento osservabile, escludendo di pari passo da tale analisi il “bello” e qualsiasi altro contenuto dell’apprezzamento stesso, perché soggettivo. Ora, se l’intenzionalità viene fatta derivare esclusivamente da una credenza, da un giudizio soggettivo, potrà forse avere un’esistenza oggettiva ed essere posta come criterio identificativo dell’arte? Si potrà obiettare che anche l’apprezzamento viene fatto dipendere dal soggetto, e difatti anche lo statuto dell’apprezzamento non è, a nostro avviso, esente da ambiguità, come tra poco mostreremo, ma, almeno a livello teorico, Genette pone la distinzione tra apprezzamento come fatto indagabile scientificamente, in quanto considerato in sostanza come una modalità di presa in considerazione dell’oggetto, e apprezzamento come contenuto, come insieme di giudizi soggettivi. Al contrario, dell’intenzionalità non afferma mai che sia indagabile come fatto, perché può esserci come non esserci, l’importante è che il soggetto creda che sia in qualche modo presente nell’oggetto con cui è entrato in relazione, e quindi è necessario e sufficiente che ci sia come contenuto del giudizio del soggetto.

Dicevamo che anche a proposito dell’apprezzamento incontriamo contraddizioni e ambiguità che portano ad una notevole confusione teorica. Affermare infatti che il principio dell’artistico sta nella supposta “candidatura” di un oggetto all’apprezzamento entra in contraddizione con quanto dichiarato subito dopo, ossia che non è il successo o il fallimento di questa candidatura a fare di un oggetto un’opera d'arte. Ma allora, viene da chiedersi, di che principio si tratta? L'unico modo per rispondere a questo problema è supporre che quando parla di successo o di fallimento Genette si riferisca sempre e soltanto all’apprezzamento in quanto contenuto (il produttore vedrebbe o meno riconosciuta una sua personale idea di apprezzamento, una sua personale idea di “bello”), andandosi a collocare sul piano di ciò che vale agli occhi del fruitore; in caso contrario, intendendo cioè l’apprezzamento come fatto, il fallimento della “candidatura” porterebbe eccome alla negazione dello statuto di artisticità di un oggetto: infatti senza apprezzamento (e questo lo afferma Genette), non solo non si avrebbe un’opera d’arte, ma neanche un oggetto estetico. In tal modo, però, Genette non riesce a conferire né alla “candidatura”, né all’apprezzamento il ruolo teorico di principi costituenti l’artistico, in quanto questi concetti scivolano continuamente su un altro piano, quello del giudizio, della critica.

La conclusione che lo statuto artistico di un oggetto va e viene in base al riconoscimento, alla supposizione da parte del soggetto di un’intenzione all’apprezzamento, è coerente con la posizione di chi, come Genette, si dichiara, senza incertezze, soggettivista: parlare di intenzione dell’autore o dell’oggetto può essere pericoloso, perché si potrebbe aprire un varco alle istanze oggettiviste. Ma che significa allora in quest’ottica (e siamo a un’altra contraddizione) che vi possono essere degli statuti indecidibili dovuti al fatto che non si sa se vi sia e quale sia l’intenzione dell’autore? Credere e sapere rimandano a due differenti ontologie: dire che perché vi sia arte è necessario e sufficiente che il soggetto della relazione creda di trovare in un oggetto un’intenzione estetica significa fondare lo statuto artistico su una base esclusivamente soggettivista; dire, invece, che è necessario e sufficiente che il soggetto sappia che nell’oggetto, in un certo senso, si incarna l’intenzione dell’autore significa porre il criterio dell’artistico o nell’oggetto, o nel volere dell’autore, o in entrambi. Genette sembra comunque trascurare queste ambiguità e va avanti nel suo intento di porre l’intenzionalità dell’opera d’arte come attribuzione da parte del soggetto della relazione.

Lo statuto di opera di un oggetto dipende dunque fondamentalmente dalla considerazione, presso il ricevente, della presenza in esso di un’intenzione estetica. Dico però “considerazione” piuttosto che “percezione”, poiché l’intenzione estetica non è sempre sicura (“Vi è un’intenzione?”) e ancor meno determinata (“Quale intenzione vi è?”), e poiché l’attenzione specifica che conferisce lo statuto di opera d’arte consiste propriamente nell’attribuzione di un’intenzione estetica al produttore dell’oggetto: allo stesso modo in cui un oggetto è per me un oggetto estetico quando entro con esso in una relazione di tipo estetico, è per me un’opera d'arte quando, a torto o a ragione, riferisco questa relazione a un’intenzione autoriale: una roccia può essere (per me) un oggetto “bello”; se imparo (o se presumo) che non è una roccia, ma una scultura, tale oggetto cambia statuto ai miei occhi, in quanto il suo aspetto, precedentemente attribuito alla “casualità” dell’erosione, mi rimanda ora all’attività intenzionale di uno scultore e questo rimando, che gli conferisce lo statuto di opera, modifica quasi inevitabilmente il mio apprezzamento ... (Genette, 1998, p. 162).

E qui siamo giunti alla resa dei conti: cosa significa attribuire “a torto o a ragione” un’intenzione estetica? Torto o ragione, in rapporto a che cosa? All’effettiva presenza di quest’intenzione e quindi di un’opera d’arte? Ma allora quest’attribuzione non può avere il ruolo teorico di principio dell’artistico, in quanto si fonda su ciò che dovrebbe costituire. Ciò che qui Genette praticamente afferma è che è la conoscenza (certa o presunta) dell’identità di un oggetto (roccia o scultura) a influire sul modo di ricezione del soggetto e sul suo apprezzamento. Ma questo non è esattamente il contrario di quanto si è finora venuto affermando? Non era l’apprezzamento a conferire lo statuto di opera d’arte a un oggetto tramite l’attribuzione di un’intenzionalità? E come è allora possibile che proprio l’intenzionalità (che in questa dichiarazione viene logicamente dopo) modifichi l’apprezzamento (che invece viene logicamente prima)? Il fatto è che Genette non indaga con sufficiente chiarezza e onestà la natura dell’intenzionalità : è soggettiva o oggettiva, è parte dell’apprezzamento o se ne situa al di fuori, dipende da quest’ultimo o agisce su di esso? Affermare che è indifferente che l’attribuzione del soggetto sia corretta o errata, mostra come tale attribuzione possa eventualmente svolgere un ruolo all’interno del giudizio, della critica, ma non della scienza e dei suoi principi. Ciò che è certo è che d’ora in avanti il nostro autore comincerà a prestare ascolto alla voce dell’oggetto arrivando a dichiarazioni in netto contrasto con quanto da lui sostenuto in precedenza, anche se non arriverà mai a negare esplicitamente la sua adesione al soggettivismo. Vediamo dunque come Genette procede.

Ipotesi, statuto, identità

... la scelta tra i due statuti può procedere benissimo non da un’informazione sicura, ma da una semplice ipotesi attenzionale del tipo: “Una simile forma può essere il prodotto del caso”, e se mi inganno con facilità (se, senza il minimo dubbio, prendo per una scultura ciò che in effetti è una roccia), il carattere erroneo della mia ipotesi non produrrà alcun mutamento nel carattere “artistico” della mia relazione a tale oggetto identificato tanto scorrettamente (Genette, 1998, p. 163).

Abbiamo quindi un soggetto che formula un’ipotesi d’intenzionalità artistica per un dato oggetto; abbiamo anche la presa in considerazione di un’eventuale verifica di tale ipotesi; e abbiamo infine un possibile risultato che, stranamente, non influisce sull’ipotesi, in quanto Genette sostiene che, in caso di esito negativo, ossia nel caso in cui venga stabilito che l’oggetto non è un’opera d’arte, il carattere artistico della relazione non viene modificato, nel senso che se il soggetto è convinto della sua attribuzione d’intenzionalità artistica, per lui il suo giudizio resta valido.

Ma di quale artisticità si sta dunque parlando? Dell’oggetto o, piuttosto, della relazione, come Genette sembrerebbe intendere? Da quanto affermato, si evincerebbe che da una parte stia un oggetto con una sua identità (di cui, almeno per il momento, non si dice da dove abbia origine), e dall’altra un soggetto che ipotizza un’intenzione artistica per tale oggetto, ma l’ipotesi, a ben vedere, riguarda la relazione, non l’identità dell’oggetto, e, in quanto tale non necessita di verifica, di convalida. Insomma sembrerebbe esistere uno scollamento tra l’identità dell’oggetto e quella della relazione, nel senso che l’ipotesi d’intenzionalità determinerebbe il carattere artistico della relazione, ma non dell’oggetto. Eppure, non era Genette a dichiarare che è la relazione a rendere artistico l’oggetto? Ora, in base a queste ultime dichiarazioni, è ancora possibile continuare ad affermare che l’identità artistica di un oggetto sia decisa dalla relazione che intrattiene con il soggetto? A noi pare che intesa in questo modo la relazione artistica non possa assolutamente conferire l’identità di opera d’arte a qualsivoglia oggetto, identità che sembra nascere altrove. Genette parla infatti di inganno, di prendere qualche cosa per ciò che effettivamente non è, d’identificazione erronea. Ma dire che si tratta di un errore se il soggetto prende per statua una roccia, o viceversa, significa ammettere che la decisione circa l’identità di opera d’arte di tale oggetto è già stata presa altrove e prima della relazione artistica in cui il soggetto eventualmente attribuisce l’intenzionalità estetica.

Si potrebbe allora pensare che Genette faccia riferimento a due modalità dell'essere di un oggetto: l’identità, ossia una sorta di essenza (l’essere effettivamente), e lo statuto, ossia una sorta di risultante ipotetica che deriva dall’attribuzione del soggetto. La prima sembrerebbe rappresentare la verità, la seconda quasi un’intuizione che prevede anche l’errore, in caso di mancato raggiungimento di tale verità, ma che, in modo anomalo e misterioso, resterebbe in ogni caso valida per il soggetto che la manifesta. In che cosa consisterebbe allora questo statuto? Genette dovrebbe chiarire a se stesso e a i suoi lettori che cosa intende fare: della metafisica, della teoria della conoscenza o della teoria della critica? Per essere sinceri, Genette è consapevole della necessità di distinguere (e di scegliere, in quanto oggetto d’analisi) tra un’identità concepita come assoluta e un’identità concepita invece come relativa (ma non per questo, aggiungerei, falsa), anche se, di fatto, tale distinzione non è applicata e mantenuta con chiarezza. Lo spunto per riflettere su tali problematiche gli deriva dalla lettura di Goodman, filosofo spesso citato in queste pagine, che distingue tra ciò che l’arte è e ciò l’arte fa, tra che cosa è e quando è.

La vera domanda, in definitiva, non è propriamente: “Quando vi è arte?” (...) bensì piuttosto “Quando un oggetto viene recepito come un’opera d'arte”. (...) il relativismo goodmaniano (o qualunque altro) può trovare coerenza solo accettando premesse soggettiviste: non si può, almeno letteralmente, fare uso nello stesso tempo di un quando relativista e di un vi è oggettivista. La domanda quando? (in quanto opposta a che cosa è?) ha pertinenza se verte su una ricezione, ossia su un fatto soggettivo, in grado di andare e venire: “Quando percepisco arte?”. Se un oggetto - come, diciamo, il Rembrandt occasionalmente stravolto da Goodman o da Duchamp - è (oggettivamente e in modo permanente) un’opera d'arte, come Goodman ammette infine e non senza ragione, la domanda quando? non può che riguardare la sua ricezione, ossia l’uso o l’idea che me ne faccio, a seconda che lo recepisca come un’opera o meno. Se pongo la domanda in termini oggettivi, bisogna abbandonare il quando, e tornare al che cosa: un oggetto è un’opera se è stato effettivamente prodotto con un’intenzione estetica; esso funziona come un’opera quando gli si attribuisce una simile intenzione ... (Genette, 1998, pp. 244, 245).

Ecco che allora Genette distingue nettamente l’identità dalla funzione, nel senso che non ritiene che la funzione di un oggetto possa definirne l’identità: per essere un’opera d’arte non basta che un oggetto funzioni come tale, ma deve essere stato prodotto con quest’intenzionalità.. A tal proposito, occorre osservare che, benché coerenti, le osservazioni di Genette circa la differenza di prospettiva tra il quando e il che cosa sono ovvie e sterili da un punto di vista epistemologico. Dire semplicemente che il che cosa è essenzialista e oggettivista, mentre il quando è relativista e soggettivista non apporta nulla di nuovo alla riflessione. Al contrario, la tensione concettuale del pensiero di Goodman risiede proprio nella domanda “Quando vi è arte?”, dove giustappone relativismo e essenzialismo, mettendo insieme due punti di vista solitamente separati. Osservare, come fa Genette, che anche letteralmente, quando e vi è non possono essere utilizzati nella stessa frase, significa non avere colto la portata della riflessione di Goodman, il quale conferisce al quando la possibilità di affermare l’essere, anche se poi lo stesso Goodman non avrà il coraggio di andare fino in fondo a questo cammino. È proprio il suonare male, il fastidio, quasi, di questa domanda che attira la nostra attenzione e che ci porta a cercare eventuali possibili punti di contatto tra ciò che fino a questo momento è sempre stato considerato distante e non rapportabile. Genette, invece, non fa altro che dirci che l’essere pertiene alla genesi delle cose, verso la quale non ci rimane altro che condurre delle indagini storiche o filologiche che possano condurci a ricostruire quelle che egli definisce le articità “‘costitutive’, il cui carattere intenzionale è più o meno oggettivamente stabilito, sia per mezzo di testimonianze storiche che in virtù di un’appartenenza generica palese e determinante” (Genette, 1998, p. 246); mentre alla cultura, all’uso, alle pratiche è soltanto concessa la possibilità di far funzionare gli oggetti secondo certi scopi in determinate situazioni, costituendo quelle che chiama articità “‘condizionali’ (…) il cui carattere intenzionale è dell’ordine dell’ipotesi attenzionale, che questa ipotesi sia fondata o no” (Genette, 1998, p.246), e che possono quindi venire smentite dai fatti. 

Assistiamo a questo punto ad un nuovo cambio di rotta. Dopo aver affermato che l’identità artistica di un oggetto è un fatto relazionale, dopo avere successivamente  dichiarato che l’ipotesi d’intenzionalità artistica riguarda le articità condizionali, dove tale ipotesi per il soggetto resta valida indipendentemente da quelle che sono le articità costitutive, Genette arriva infine a sostenere che è l’identità di un oggetto a modificare la relazione e l’apprezzamento del soggetto.

La mia domanda è più modesta, e concerne non la validità ma l’influenza fattuale di simili dati sulla ricezione e, particolarmente, sull’apprezzamento delle opere; e la mia risposta è semplicemente positiva: sì, le circostanze “genetiche” della produzione di un’opera, per poco che il ricevente le conosca o creda di conoscerle, agiscono, per il meglio o per il peggio, sulla ricezione e particolarmente sull’apprezzamento di un’opera (Genette, 1998, p. 166).

E qui, se s’intende l’apprezzamento come atto di conferimento di uno statuto artistico, si cade in contraddizione e si giunge anche a dare ragione a Danto, il quale non crede nella possibilità definitoria della relazione estetica o artistica.

Se sapere che una certa cosa è un’opera d’arte provoca una differenza nel modo di reazione estetica di fronte a questa cosa, (...) allora ogni definizione dell’arte che consideri la relazione come un fattore definitorio rischia di essere circolare. Non si potrebbero definire le opere d’arte unicamente in base alla relazione estetica che corrisponde loro, (...) poiché bisogna già averle distinte dagli oggetti naturali o dai meri artefatti prima di poter definire il genere di reazione appropriata. Non si potrebbe dunque partire dalla specificità della reazione estetica per definire il concetto di opera d’arte (Arthur Danto, 1981, pp. 155, 156).

Quando Genette dunque dice che lo statuto di un oggetto influisce sull’apprezzamento intende forse fare riferimento all’apprezzamento in quanto contenuto? Benissimo, però su quale terreno ci si sta allora muovendo? Certamente non su quello della definizione dell’arte, ma semmai su quello della critica, o se vogliamo, della teoria della critica.

Solo a partire da questo equivoco sull’apprezzamento e solo collocandosi sul piano della critica è allora concepibile l’interesse che Genette rivolge alle eventuali circostanze genetiche (ossia di produzione) capaci d’influenzare l’apprezzamento stesso, diventando parte integrante della relazione artistica. Genette arriva anche a dichiarare che “è questa pertinenza [di dati extra-percettivi], o quantomeno la sua possibilità, che definisce la specificità della relazione artistica”(Genette,1998, p.163). Questa pertinenza dei dati tecnici diventa per Genette un vero e proprio principio dell’artistico.

Lo statuto dell'opera d’arte

L’opera d’arte quindi non si specifica esclusivamente attraverso l’intenzionalità dell’apprezzamento; qualcos’altro viene ad aggiungersi al suo statuto.

Le opere d’arte presentano dunque questa duplice caratteristica, la cui contraddittorietà è solo apparente: da una parte, e a causa della loro intenzionalità (della loro “candidatura”) specifica, sollecitano, esclusivamente o al di là della loro funzione pratica, un’attenzione estetica più costitutiva di quella che si può attribuire arbitrariamente agli “oggetti estetici” puramente attenzionali (oggetti naturali, artefatti consueti); d’altra parte però, e a causa di quella stessa intenzionalità, esse mobilitano a proprio servizio mezzi tecnici che, per quanto poco li si conosca, riguardano la funzione estetica delle opere quando, e nella misura in cui, influiscono sul loro apprezzamento. Questa pertinenza estetica dei dati tecnici mi sembra che costituisca il fattore essenziale dello statuto particolare delle opere d’arte (corsivo nostro), ed è essa che, sia detto di sfuggita, giustifica l’importanza accordata da Nelson Goodman all’attività cognitiva (in senso forte) nella relazione artistica ... (Genette, 1998, pp. 178, 179).

Da queste osservazioni segue che il radicale soggettivismo (o anche arbitrarietà, come qui scrive Genette) dell’apprezzamento estetico non caratterizza anche l’apprezzamento artistico che nasce da un’attenzione estetica più “costitutiva”, motivata. Ora infatti, oltre all’intenzionalità, dati tecnici, genetici, storici costituiscono una base oggettiva su cui fondare l’artistico, in quanto “non solamente per funzionare come opera d’arte, ma per essere un’opera d’arte, un oggetto deve essere stato effettivamente prodotto da un essere umano” (Genette, 1998, pp. 243, 244). La relazione artistica quindi non può più fondarsi unicamente su un giudizio estetico, ma anche logico, cognitivo.

Ho detto in precedenza che la relazione artistica, ossia l’attribuzione a un oggetto estetico dello statuto di opera d’arte, si basava su una duplice ipotesi, fondata o meno, circa il carattere di artefatto e l’intenzione estetica del suo produttore. Questa è una definizione molto liberale, poiché fa dipendere la natura della relazione solo da un’opinione del ricevente. Bisogna però aggiungere che questa opinione non è arbitraria, né puramente soggettiva come il giudizio di apprezzamento, perché un’ipotesi si basa essa stessa necessariamente su indici oggettivi, bene o male percepiti o interpretati: (...) l’apprezzamento artistico, in ciò che ha di specifico, non è né puramente soggettivo, né pienamente autonomo (Genette, 1998, pp. 233, 234).

Qui ritroviamo i dubbi e i timori di Genette nell’affidare la definizione dell’arte alla sua logica radicalmente soggettivista e le sue parole riecheggiano un po’ quelle di Goodman quando confessava, con una certa apprensione, il pericolo che le sue affermazioni potessero indurre qualche lettore a pensare che tutto quanto viene detto a proposito di un’opera d’arte abbia valore dal punto di vista estetico, e che le opinioni di un comune commentatore valgano tanto quanto quelle dell’autore. Genette arriva paradossalmente (e forse senza neanche rendersene conto fino in fondo) a stringere la mano a Goodman nel riconoscere come specifico dell’artistico non il sentimento (necessariamente soggettivo e autonomo), ma la conoscenza di certi dati, percettivi o meno, non il carattere estetico, ma quello logico. Siamo all’abbandono dell’estremismo soggettivista e alla revisione del rapporto tra estetico e artistico: quest’ultimo non è più un caso particolare del primo, proprio perché ha una differente natura.

Lo statuto della relazione artistica non è pertanto identico a quello della semplice relazione estetica: non si può confutare un apprezzamento, ma si può confutare un’ipotesi. Se mi si dimostra chiaramente che un oggetto che mi piace non è un’opera d'arte, questa dimostrazione non ha alcuna ragione di rovinare la mia relazione estetica a tale oggetto, ma rovinerà di certo il carattere artistico della relazione ... (Genette, 1998, p.233).

Ecco allora ciò che comporta l’aver introdotto nella definizione dello statuto di opera d’arte certi dati oggettivi: l’ipotesi d’intenzionalità artistica, contrariamente all’apprezzamento (che riguarda invece la relazione estetica), è confutabile e, in quanto tale, influisce sul carattere artistico della relazione, mentre, in precedenza (cfr. p.163), come abbiamo visto, Genette aveva paradossalmente affermato che un’ipotesi rivelatasi erronea non avrebbe in alcun modo modificato tale carattere.

In sintesi, qui si afferma, contraddicendo l’affermazione di partenza, che è l’oggetto che fa la relazione e non viceversa. L’artistico non sembra avere più niente a che fare con l’estetico e con tutto quanto è stato posto a suo fondamento, ossia il soggettivismo e l’arbitrarietà. Entrano ora in campo principi storici e genetici.

... l'obiezione [Genette si riferisce a Danto] mi sembra innegabilmente valida sul piano dello statuto oggettivo, ossia quando si tratta di determinare storicamente se un oggetto “è” o “non è” un’opera d'arte. (...) il fatto che io abbia con un oggetto una relazione di tipo artistico non è in alcun modo sufficiente per provare che questo oggetto è effettivamente un’opera d'arte, e dunque che la mia relazione estetica è “appropriata”, o legittima, e supporlo dipende per certo da un processo circolare. Che io assuma un oggetto come opera d’arte non rende questo oggetto un’opera d’arte - anche se, sia detto di sfuggita, mi chiamo Duchamp, Warhol ... o Danto. (...) L’articità di un’opera è dopo tutto un fatto storico, che non dipende dall’apprezzamento soggettivo così come la sua “bellezza” o la sua “bruttezza”... (Genette, 1998, p. 236).

Il principio dell’artistico non ha dunque nulla a che fare con l’apprezzamento, bensì con una dimensione storica dove l’opera incontra le altre opere e il pubblico. Questo concetto di storicità rimanda allora a quello di trascendenza, termine con cui Genette indica infatti la modalità di esistenza di tutte le opere d’arte che divengono tali proprio nel momento in cui escono dall’oggetto che le contiene per relazionarsi alle altre opere, al pubblico, alla storia. Qui risiede allora il significato dell’opera.

... le opere, in tanti modi, trascendono l’oggetto, materiale o ideale, nel quale sembrano consistere (...) tutte le opere, anche senza subire la minima modificazione nell’oggetto che le manifesta, cambiano costantemente di significato, e dunque di funzione estetica, a misura che la storia modifica il loro pubblico (...) le opere trascendono dunque l’oggetto nel quale esse risiedono piuttosto che non vi consistano, e che chiamo, per render conto di questa restrizione, il loro “oggetto di immanenza”: così, l’opera letteraria trascende il suo testo, come l’opera pittorica trascende il suo quadro, come l’opera musicale trascende la sua partitura e le sue esecuzioni. (...) Tale gioco accompagna, o piuttosto costituisce tutta la vita delle opere, cioè la nostra relazione con esse, relazione mobile e incessantemente modificata dalla storia - quella storia su cui la teoria goodmaniana dell’arte mi sembra sorvolare pagando un prezzo gravoso e difficile da sostenere. L’arte, come produzione e come ricezione, è a mio avviso da cima a fondo una pratica storica, e una teoria dell’opera deve tenerne conto fin dall’inizio, cioè fin dalla definizione del suo oggetto ... (Genette, 2000, pp. 46-48).

Ciò di cui Genette qui parla è il funzionamento polisemico dell’opera d’arte che egli sembra legare essenzialmente a una dimensione diacronica, a un’evoluzione storica del gusto, tralasciando totalmente l’analisi della dimensione sincronica di questa polisemia che in maniera più anomala, ma più specifica caratterizza l’opera d’arte. Il fatto è però che Genette gira intorno all’argomento fondamentale (o supposto tale) della questione, argomento di cui si era proposto di tentare una definizione, ossia la causa di questo funzionamento artistico e/o polisemico di un oggetto, il “che cosa è” che fa funzionare in tal modo un oggetto, o il “quando” un oggetto è opera d’arte. Genette in sostanza rende conto di un momento precedente (produzione o poetica) e di un momento successivo (ricezione o critica) a quello in cui un oggetto si mette a  funzionare come opera d’arte. La sua analisi si sintonizza sulla vita di un’opera, sui diversi significati che questa assume, quindi su una relazione soggetto - oggetto che risponde più al nome di poetica e di critica che di estetica.

La presenza presso il ricevente di una considerazione artistica non è dunque evidentemente un criterio oggettivo di articità. Essa però costituisce in se stessa, anche quando si basa su un’ipotesi errata o inverificabile, un fatto soggettivo altrettanto certo dell’attenzione e dell’apprezzamento estetici, e in definitiva questo fatto è l’unico che ci interessa qui, ossia entro un tentativo di definire la relazione artistica: si ha una relazione artistica a un oggetto quando un soggetto estetico conferisce a tale oggetto uno scopo estetico - che si può anche qualificare come scopo artistico, poiché un’intenzione estetica, secondo questa definizione, può presiedere solo a un’opera d’arte. Posso “ingannarmi” assumendo un oggetto come opera d’arte (o meno), ma non posso ingannarmi osservando che lo assumo come tale (o meno), e definire la relazione artistica non esige affatto che questa relazione sia “appropriata”, legittima e fondata su un criterio oggettivo - che essa evidentemente non può costituire (Genette, 1998, p.237).

Il  quando? relativista e soggettivista può dunque rendere conto solamente della relazione artistica che vale come espressione di un’opinione, di un giudizio, ma non come conferimento d’identità artistica, tanto è vero che “una scienza come la storia dell’arte non potrebbe seriamente farvi affidamento” (Genette, 1998, p. 246).

Conclusione

Partito con il proposito di tentare di formulare una teoria (in senso forte) dell’arte, una teoria cioè scientifica, capace di spiegare i fatti dell’arte, che cosa è l'arte o quando un oggetto funziona come opera d’arte, Genette giunge a una sorta di revisione di intenti. Non essendo riuscito, per sua stessa ammissione, a individuare il criterio oggettivo di artisticità, ma avendo però formulato una definizione di relazione artistica, alla fine infatti dichiara che l’unica cosa che conta come suo oggetto d’interesse e d’indagine è proprio questa relazione, e mette quindi da parte la ricerca del principio dell’arte, in quanto si tratterebbe di un qualche cosa al di fuori del suo campo di riflessione. Se, da una parte, è giusto riconoscere a Genette la correttezza nel confessare che l’unico fatto artistico di cui è riuscito a rendere conto è stato il giudizio critico e la vita delle opere nelle diverse poetiche, d’altra parte non si possono ignorare le pesanti contraddizioni teoriche incontrate in questa sua trattazione, contraddizioni che confermano quello che si è cercato di mettere in luce in questo nostro breve saggio, ossia un fallimento del tentativo di definire l’identità dell’arte da un punto di vista scientifico, proprio a causa di ripetute invasioni di campo da parte di logiche e interessi propri di altri versanti d’indagine. Pensiamo, per esempio, al passaggio in cui, a proposito del ready made, Genette dichiara: “la semplice scelta non è un’intenzione produttrice nel senso in cui l’intendo io (corsivo nostro)” (Genette, 1998, p. 243). Questo sarebbe dunque l’atteggiamento di chi dovrebbe rendere conto del fatto artistico con neutralità e distanza oggettiva? O non è piuttosto il caso di chi opera una scelta, se(le)zionando il presupposto oggetto d’indagine e eliminando ciò che dell’oggetto contrasta una certa ipotesi esplicativa? Qui non c’è scienza, c’è critica. Ciò che Genette in realtà analizza è la componente valutativa del fatto artistico, la modalità di ricezione dell’opera, la relazione artistica nel senso sia d’influenza dell’oggetto sul soggetto (un oggetto già riconosciuto come opera d’arte che agisce sulla fruizione del soggetto), sia di ipotesi del soggetto circa l’identità dell’oggetto, ipotesi che però tale identità non può mai costituire. Genette ossia prende in esame l’arte dopo che qualcosa è già stato identificato come tale, dopo che l’identità artistica di un oggetto è già stata decisa. In sostanza, Genette analizza la pratica della critica, pratica a lui ben nota e a lungo frequentata, e dalla quale non riesce così facilmente a prescindere come invece aveva auspicato. Il problema è che lo fa dichiarando di stare facendo dell’altro, e confessare alla fine che “la prospettiva di questo lavoro era solamente quella del ‘pubblico’ ricevente di cui faccio parte” e che “è la mia propria (ancorché banale) esperienza estetica che qui ho tentato di scrutare” (Genette, 1998, p.255) non può certo assolverlo dalle sue responsabilità teoriche.

Per concludere, l’errore teorico fondamentale è stato quello di aver inserito nella definizione dell’artistico il giudizio, il pensiero critico, mescolando ciò che invece doveva essere tenuto assolutamente distinto. In realtà, Genette stesso si è poi reso conto che le cose così non funzionavano, e ha dunque introdotto per l’arte i concetti di storicità e di trascendenza, intuendo che tra l’oggetto e il soggetto dovesse esserci dell’altro, ma senza approfondire la questione, anzi “accontentandosi” di aver formulato una definizione di relazione artistica, dove comunque il punto di vista soggettivista viene salvaguardato.   

Bibliografia

Genette, G., 1997, L'oeuvre de l'art. La rélation esthétique, Paris, Seuil; trad. it. 1998, L'opera dell'arte. La relazione estetica, Bologna, CLUEB.

Genette, G., "Dal testo all'opera", in Studi di estetica, 2000, n. 22, Bologna, CLUEB.

Danto, A., 1981, Transfiguration of the Commonplace, Harvard University Press, Cambridge Massachussetts, London England .

Goodman, N., 1968, Languages of Art, The Bobbs-Merrill Company, Inc.; trad. it. 1976, I linguaggi dell’arte, Milano, Il Saggiatore

 

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