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Nietzsche e la genesi del mondo umano (con un'eco da Rilke)
di Antonello Giugliano

"O einer, o keiner, o niemand, o du:

Wohin gings, da's nirgendhin ging?

O du gräbst und ich grab, und ich grab dir zu,

und am Finger erwacht uns der Ring"

P. CELAN, Die Niemandsrose (1963) I, 1

"Ma la legge interna della scienza storica è questa: insieme al costruirsi del mondo storico nel tempo, cresce di pari passo la comprensione scienti­fica della natura storica dell'uomo. Infatti l'uomo non può comprendere se stesso attraverso nessun genere di vuota elucubrazione sopra di sé: da quest'ultima nasce soltanto la grande miseria nietzscheana della soggetti­vità esasperata. Soltanto nella comprensione della realtà storica, che egli stesso produce, l'uomo perviene alla coscienza del suo potere, nel bene e nel male"[i][1].

Forse non è un caso che a meno di un anno dalla morte di Nietzsche, Dilthey sentisse l'esigenza, immediatamente all'inizio del suo gran saggio del 1901 sul secolo diciottesimo e il mondo storico, di tirare una linea netta di demarcazione tra l'impostazione scientifico-spirituale propria della sua considerazione della scienza storica e della storia e quella, impersonata dalla tragica vicenda filosofica e biografica di Nietzsche, che ne rappresen­tava il preciso, catastrofico, opposto.

E questa esigenza di separare criticamente il chiaro dal torbido stava quasi anche ad esorcizzare l'ombra malignamente stagliantesi di un'indicibile affinità di contenuto (il problema dell'essenza e del senso della storia) che poteva in qualche modo ricollegare, spesso anche per la loro forma, i grandi studi e frammenti coevi e successivi dell'incompiuta Einlei­tung in die Geisteswissenschaften (1883) diltheyana con quelli dell'altrettanto incompiuto e frammentario Der Wille zur Macht  postumo nietzscheano (1901, poi 1906).

Dilthey, il quale forse segretamente era pienamente consapevole di una scandalosa analogia, aveva ragione a marcare e rimarcare questa as­siale differenza di concezioni. Ancora nel 1903 vi era tornato sopra quasi inquietamente in un testo biografico privato: "Invano, in una solitaria con­siderazione di sé, Nietzsche cercò la natura originaria [del sé], la sua essenza astorica. Egli tirò via una pelle dopo l'altra. E cosa rimase poi?"[ii][2].

Come quello già formulato trent'anni prima da suo cognato, l'eminente filologo ritschliano H. Usener, contro La nascita della tragedia ("uno che ha scritto queste cose è morto per la scienza"[iii][3]), il giudizio critico di Dilthey su Nietzsche avrebbe potuto dirsi definitivo. Esso racchiudeva infatti la quin­tessenza di quanto andava detto per determinare il significato di Nietzsche nel suo autosprofondamento filosofico e per avvisare chi incautamente avesse voluto ancora avvicinarglisi. Se il mondo filosofico fosse stato ragio­nevole, avrebbe dato retta all'ammonimento diltheyano di non prendere mai più Nietzsche scientificamente sul serio. Infatti quella annunciata da Nietzsche costituiva l'antipodo della concezione 'umanistica' della storia, an­che di quella propria della più avvertita storiografia critico-scientifica.

Ma, si sa, la filosofia, soprattutto quella autenticamente filosofica, cioè arcontica e cioè 'afilologica' e perciò per principio sovranamente capace di distruggere anche ed innanzitutto se stessa, per finire e per ricominciare da capo in se stessa, dalle rovine della 'rovina' di se stessa,  è contraria alla ra­gionevolezza, è essa stessa non ragionevole e non vuole sentire ragioni, massimamente quelle cosiddette scientifiche, che la distraggano da se stessa, dalla mania di se stessa. Come appunto la fatale vicenda (filologico-filosofica e biografica) di Nietzsche stava a dimostrare.

Per Nietzsche non solo e semplicemente del "costruirsi del mondo sto­rico umano nel tempo" si trattava, bensì di provocare la tensione della sog­gettività (una sua "esasperazione" l'aveva chiamata Dilthey), una tensione tale da farla improvvisamente scoccare verso il concentrico superamento di se stessa, verso l'analogon opposizionale di se stessa, verso il proprio pri­mordiale fuori-di-sé e perciò di procedere verso il proprio 'grado zero', verso il fondamento della propria possibilità (la domanda circa la 'soggettività' stessa in quanto porta d'accesso alla comprensione della vita-'hypokeimenon' universale e parte della totalità costituita da quest'ultima: la "ursprüngliche Natur", come l'aveva definita Dilthey), e cioè mettendo innanzitutto in questione il senso di tutto l'apparato categoriale ("una pelle dopo l'altra") con cui ogni totalità attraverso l'uomo ostende se stessa: ciò che tradizionalmente costituisce la identità e la medesimezza di quella sog­gettività e che si chiama 'costruzione', 'mondo', 'storia', 'uomo', 'linguaggio', 'pensiero', 'significato', 'vita', 'tempo' etc. etc., insomma di tutti quegli ele­menti fondamentali che Dilthey - che credeva di dover arrestare ad un certo punto, ritenuto inaggirabile, la forza illuminatrice dell'analisi e quindi di non poter più spingere oltre il pensiero - aveva sintetizzato appunto nella fondamentale formula del "costruirsi del mondo storico nel tempo".

L'alternativa che perseguiva invece un pensiero come quello inaugu­rato da Nietzsche era quella di un regresso 'trascendentale' infinito che cerca di attingere la scaturigine primordiale del costituirsi della vita stessa in quanto vita e in quanto vita di una 'soggettività', appunto sollevando una 'pelle' dopo l'altra, attraverso uno svuotamento di tutte le categorizzazioni e stratificazioni storiche onde attingere quel 'vuoto' da cui derivare l'autentica legge e vibrazione interna della storia e della scienza storica. Un'alternativa che pone innanzitutto in gioco e perciò filosoficamente in pe­ricolo l'interrogante stesso, la sua 'soggettività', esponendolo al rischio di naufragare in sé nella esasperata "miseria" del proprio fuori-di-sé. In­somma, decidendo di saltare al di là della propria 'ombra', Nietzsche aveva pro­ceduto verso la decisa infrazione metafisica del monito filosofico-critico che lo stesso Dilthey aveva formulato pochi anni prima in una lettera indiriz­zata al suo acuto interlocutore filosofico conte Yorck von Wartenburg: l'inaggirabilità della "coscienza storica, che l'uomo non può togliersi la pelle e trovarsi come è in sé (e su ciò Nietzsche divenne pazzo)"[iv][4].

Paradossalmente (e ciò in quanto intorno a Nietzsche sempre di nuovo di un infinito e concentrico paradosso si tratta), però, la dichiarazione dell'impossibilità filosofica di un aggiramento non può essere mai defini­tiva, proprio in quanto mera dichiarazione che ha ancora tutto il giro della totalità delle possibilità attorno a sé, e cioè ancora di nuovo dietro e avanti a sé, sopra e sotto di sé; allorché questo aggiramento improvvisamente si compie - è proprio della circolarità del cerchio il necessario ed inarresta­bile continuare a girare su se stesso, anche laddove e proprio laddove esso appare ristare solo più immobile in se stesso: questo essendo il modo pri­mario di girare innanzitutto su se stesso e dunque anche di aggirare e rag­girare innanzitutto se stesso - esso porta alla precisazione del concetto di 'aggiramento' stesso e dunque chiarisce il senso del limite che era stato po­sto da Dilthey come invalicabile: in questo caso, dei concetti di coscienza storica e di in sé, di costruzione, di storicità, di mondo e, innanzitutto, di tempo.

A Dilthey (ma in parte con minor penetrazione filosofica della dram­maticità dei termini della questione toccata) farà eco pochi anni dopo (dopo che il mondo storico, cui anche il secolo diciottesimo e la scienza storica ap­partenevano, veniva lentamente inghiottito dall'abisso che si era iniziato a spalancare con la prima guerra mondiale ed il cui spettacolo era  stato dalla sorte pietosamente risparmiato al vecchio Dilthey, scomparso nel 1911) il teologo Ernst Troeltsch, il quale, in un articolo dedicato allo spirito metafi­sico e religioso della cultura tedesca, celebrando il carattere idealistico di fondo della filosofia e storiografia tedesche, sottolineava come proprio per­ciò, e nonostante tutti i suoi indiscutibili meriti di critico della cultura, "Nietzsche [...], der, mehr ein Dichter als ein Denker [ist], mit der deutschen Philosophie wenig [...] zu tun hat"[v][5].

Qui non mi interessa entrare nel merito della questione, spesso analiz­zata, ma ancora non del tutto chiarita, della effettiva incidenza del pensiero di Nietzsche (ma di quale Nietzsche?) sugli autori della costellazione del co­siddetto storicismo tedesco contemporaneo[vi][6]. Attraverso una sorta di mitri­datizzazione filosofica, al fine di una 'urbanizzazione' del pensiero nietzscheano stesso, un certo tipo di storicismo si è limitato solo più ad una tanto cauta quanto superficiale riassunzione della acuta tripartizione della storiografia in antiquaria, monumentale e critica operata da Nietzsche nella seconda considerazione inattuale.  Proprio la (contraddittoria) recezione da parte dei principali esponenti del Historismus  è esemplificativa della con­traddittorietà della recezione di Nietzsche e quindi di come, però, proprio lo storicismo laddove esso prenda sul serio i suoi problemi ed innanzitutto la problematizzazione di se stesso, cioè la chiarificazione filosofica dei propri fondamenti concettuali, trovi in Nietzsche il suo momento decisivo sia nel rifiutarlo o riutilizzarlo entro i ben stretti limiti della figura dell'acuto cri­tico della cultura e testimone della crisi della filosofia (come in Windelband e Dilthey e in Troeltsch e in Meinecke), sia nell'assumerlo più o meno radi­calmente e/o superficialmente (come in Simmel, Spengler, Weber).

Anche sulla scia del tipo or ora menzionato di recezione critica del pen­siero di Nietzsche ci si è ormai abituati a considerare interpretativamente Nietzsche ed insieme il contrario di Nietzsche. Più propriamente, però, si dovrebbe parlare non semplicemente di Nietzsche e del suo contrario, bensì dire e pensare che Nietzsche filosoficamente è  in se stesso il suo proprio contrario.

Il radicalismo di Nietzsche ha fatto sì che il suo pensiero venisse uti­lizzato per i più diversi tentativi di determinazione filosofica della verità della realtà nella sua totalità, come è avvenuto nella filosofia dei valori ric­kertiana e in certe peculiari tendenze 'vitalistiche' della fenomenologia ei­detico-trascendentale (laddove come in Scheler si tratta di determinare la genesi 'materiale' dei valori); nella filosofia della vita simmeliana e nell'esistenzialismo jaspersiano, nell'utopismo messianico blochiano e negli sviluppi della stessa fenomenologia ermeneutica heideggeriana.

La potenza della concezione nietzscheana in tutta e con tutta la sua propria programmatica ambiguità, che la esponeva continuamente al neces­sario fraintendimento e alla sua volontaria autodistruzione, era tale da ri­uscire ad attrarre a sé anche i suoi migliori oppositori filosofici, come è il caso dello stesso Dilthey il quale rispetto alle prime nette stroncature qual­che anno più tardi riconoscerà l'importanza culturale di Nietzsche per la ri­definizione concettuale dell'essenza della filosofia in termini di filosofia della vita storica.

La distruzione dell'umanesimo e della filosofia stessa: questa intenzio­nalità ultima del pensiero di Nietzsche non ha impedito che questo pensiero stesso venisse ricollocato e riutilizzato proprio nell'ambito contrapposto alla sua arci-intenzionalità, e questo contromovimento si configura come gene­rale 'filosofia dei valori', e precisamente come urbanizzazione e bonifica del pensiero nietzscheano mediante il suo innesto sul filone della tradizione lotzeana: la derivazione di questa 'filosofia dei valori' anche proprio da Nietzsche (e malgrado Nietzsche) attende ancora una approfondita e spre­giudicata analisi, che dovrebbe tenere sempre di nuovo in debito conto la fondamentale linea di connessione entro cui procedere alla chiarificazione e comprensione dei singoli elementi che la scandiscono: Nietzsche-Rickert-Heidegger[vii][7]), e ciò proprio in quanto il pensiero di Nietzsche, che ci è giunto ed in parte ancora ci giunge mediato dal pensiero wertphilosophisch e da quello seinsgeschichtlich, ha già relativizzato tutto il discorso sul valere dei valori in quanto ha radicato la stessa logica e dunque la 'verità' nel terreno primordiale dello Schein, e dunque dell'animalità, del tempo. Rickert è stato a suo modo l'anticipatore del supremo tentativo filosofico del XX secolo, quello heideggeriano, di salvare la filosofia da se stessa col tentare di sal­vare Nietzsche da se stesso, dall'autosfondamento della filosofia nella sra­gione, nella non-ragione. Ben più del filosoficamente inconcludente tenta­tivo jaspersiano - che risentiva ancora di un'impostazione 'clinicistica' per quanto ermeneuticamente aggiornata ed affilata - o del concettualmente goffo e malriuscito tentativo bäumleriano di lettura nazionalsocialista di Nietzsche come filosofo-politico della volontà di potenza, sarà Heidegger il massimo artefice di quel tentativo di salvare la filosofia da se stessa col tentare di salvare Nietzsche dal 'se stesso' del suo esser-fuori-di-sé.

Cento anni dalla morte di Nietzsche. L'impressione è quella di una an­cora futura contemporaneità del pensiero di Nietzsche (che ha avuto il co­raggio/la follia di andare a prendere il toro per le corna, cioè di attraver­sare il cerchio di fuoco della autodistruzione della filosofia: il suo proprio naufragium feci, bene navigavi - ma senza il compimento schopenhaue­riano nel Nulla, bensì la sua evocazione come cerchio concentrico del ri­torno), del suo continuo essere-avanti-a-sé, e simultaneamente tutta l'inadeguatezza della posizione ancora 'aletheiologica', pur se consapevol­mente e tormentatamente relativizzante e  critico-problematica, propria dell'anabasi dello storicismo diltheyano e troeltscheano.

La ribaltabilità di Nietzsche nei propri opposti e nell'opposto di questi opposti e così via all'infinito, questa ribaltabilità è tutta già inscritta nella 'catastrofalità' del pensiero nietzscheano e nella sua essenza fondamentale: lo Schein.. "La novità nella nostra attuale posizione verso la filosofia è una convinzione che finora non fu propria di nessuna epoca: che cioè non pos­sediamo la verità. Tutti gli uomini del passato 'avevano la verità': persino gli scettici"[viii][8].

Ciò implica, allora, che il pensiero si sposti dal piano del 'poter-essere-un-tutto', quale estrema configurazione fenomenologico-esistenziale della volontà di verità, a quello del 'tutto-può-essere' (anche e innanzitutto che non si dia più alcuna possibilità-di-totalità, alcuna totalità che possa essere possibile) dello Schein.. Di qui, da questo piano, si dovrebbe riarticolare e riformulare il tutto non più nei termini categoriali-esistenziali di 'Sein und Zeit ', bensì più appropriatamente nei termini apparenziali di 'Schein ' e 'Zeit ' (in cui la congiunzione sarebbe solo il pleonasmo dell'autoapparenzialità dell'esser-fuori-di-sé del temporalizzarsi della tem­poralità). Lo Schein costituisce il pensiero dominante della 'anti-filosofia' di Nietzsche, e ad esso sono sottomessi tutti gli altri pensieri fondamentali (eterno ritorno dell'eguale, volontà di potenza, nichilismo, genealogia etc.).

Ma in esso non si tratta di una mera contrapposizione gnoseologistico-fenomenistica (come tutta la costellazione della variegata Erkenntnistheorie neokantiana - da Riehl e Simmel a Rickert fino al finzionalismo vaihinge­riano di Del Negro[ix][9] - ha sempre voluto vedere, e come lo stesso Nietzsche ha spesso fatto se non autofraintendendo se stesso offrendo però almeno i presupposti per il fraintendimento del suo più proprio pensiero[x][10]) tra elea­tismo degli apparati categoriali ed eraclitismo del divenire intensivamente ed estensivamente infinito della vita (esterna ed interna); ciò di cui Nietzsche parla nel famoso aforisma nr. 54 del primo libro de La gaia scienza (1882) è piuttosto una più precisa, seppur non ancora definitiva, esplicitazione concettuale di quanto la metafisica artistica de La nascita della tragedia aveva espresso nei termini filosoficamente approssimativi della diade estetica dionisiaco-apollineo e del loro infinito sfondo 'musicale'.

"La coscienza dell'apparenza.. In che modo meraviglioso e nuovo e in­sieme tremendo ed ironico mi sentivo posto con la mia conoscenza dinanzi all'esistenza tutta! Ho scoperto per me che l'antica umanità e animalità, perfino tutto il tempo dei primordi e l'intero passato di ogni essere sensi­bile, continua dentro di me a meditare, a poetare, ad amare, ad odiare, a trarre le sue conclusioni, - mi sono destato di colpo in mezzo a questo so­gno, ma solo per rendermi cosciente che appunto sto sognando e che devo continuare a sognare se non voglio perire: allo stesso modo in cui il son­nambulo deve continuare a sognare, per non piombare a terra. Che cos'è ora, per me, 'apparenza'! In verità, non l'opposto di una qualche sostanza: che cos'altro posso asserire di una qualche sostanza, se non appunto i soli predicati della sua apparenza? In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una X sconosciuta e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive, che va tanto lontano nella sua auto­derisione da farmi sentire che qui tutto è apparenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente di più; che tra tutti questi sognatori anch'io, l''uomo della conoscenza', danzo la mia danza; che l'uomo della conoscenza è un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in questo senso fa parte dei soprin­tendenti alle feste dell'esistenza; e che la sublime consequenzialità e con­comitanza di tutte le conoscenze è forse, e sarà il mezzo più alto per mante­nere l'universalità delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi sognatori e con ciò appunto la durata del sogno"[xi][11].

La coscienza dell'apparenza: la co-scienza appunto che appare in me, cioè attraverso la mia conoscenza, una soggettività che è simultaneamente altra-e-non-altra da me: essa è l'autentico me, l'autentico sé di me stesso: essa pone me ed io pongo/scopro essa: essa, cioè tutta la primordiale uma­nità ed animalità con tutto ciò che queste stesse in parte sono, con tutto ciò cui queste stesse appartengono: tutto il tempo dei primordi e l'intero pas­sato di ogni essere sensibile, che continuano ad accadere (cioè ad avere un passato, un presente ed un futuro) nel sé soggettivo-umano troppo umano: essa è il sogno primordiale (cui la stessa cosiddetta veglia appartiene) di cui ciò che si è soliti chiamare la dimensione onirica potrebbe essere una pecu­liare porta d'accesso, che però contrariamente a quanto si crede non con­duce sempre più all'interno, bensì che dall'interno porta all'oltremodo esterno, al massimamente esterno: al più ampio cerchio dei cerchi che con­tinua ad apparire e a ri-petere se stesso girando e rigirando su se stesso e perciò nel 'me stesso', a "tutto il tempo dei primordi e l'intero passato di ogni essere sensibile", e precisamente al suo principio stesso: il temporaliz­zarsi l'uno nell'altro del passato del presente del futuro.

Circa tre anni dopo, ciò che qui sembra ancora presentato solo più nel quadro di una arguta meditazione critico-culturale e psicologico-moraleg­giante, viene da Nietzsche ulteriormente e radicalmente tematizzato (ormai lo Zarathustra è definitivamente in cammino). Così in una breve sequenza di frammenti - la cui vertiginosità da sola basterebbe a fissare la irripeti­bile importanza filosofica del suo nome e del suo pensiero, anche laddove poi questo stesso pensiero ha bisogno di venire scrollato dalle inevitabili incrostazioni che lo ricoprono, e ciò anche attaverso il ricorso ad altri 'luoghi' in cui il medesimo flusso di pensiero riemerge intensificato e rige­nerato (come è il caso, e lo vedremo tra poco, di alcuni aspetti della 'poesia' di Rilke)/-, Nietzsche scriveva, contro la fatale concezione metafisica tradi­zionale di una apparenza inautentica contrapposta ad un essere autentico, di un inapparente 'essere' vero sottostante e contrapposto alla mera appa­renzialità dei 'fenomeni', che "ci sono parole nefaste che sembrano espri­mere una conoscenza, mentre in realtà impediscono una conoscenza; una di queste è la parola 'apparenze' ['Erscheinungen' ]. Quanta confusione procu­rino le 'apparenze' ['Erscheinungen'], può essere svelato da queste proposi­zioni, che cito da vari filosofi moderni ---"[xii][12], e sottolineava perciò come il contenuto 'retrostante' dei fenomeni non sia altro che l'apparenzialità dell'apparenza stessa che rende possibile l'apparire della 'verità' stessa: "gegen das Wort 'Erscheinungen'. / NB. Schein, wie ich es verstehe, ist die wirkliche und einzige Realität der Dinge, - das, dem alle vorhandenen Prädikate erst zukommen und welches verhältnismässig am besten noch mit allen, also auch den entgegengesetzten Prädikaten zu bezeichnen ist. Mit dem Worte ist aber Nichts weiter ausgedrückt, als seine Unzugän­glichkeit für logischen Prozeduren und Distinktionen: also 'Schein' im Verhältniss zur 'logischen Wahrheit' - welche aber selber nur an einer imaginären Welt möglich ist. Ich setze also nicht 'Schein' in Gegensatz zur 'Realität', sondern nehme umgekehrt Schein als die Realität, welche sich der Verwandlung in eine imaginative 'Wahrheitswelt' widersetzt. Ein be­stimmter Name für diese Realität wäre 'der Wille zur Macht', nämlich von Innen her bezeichnet und nicht von seiner unfaßbaren flüssigen Protheus-Natur aus"[xiii][13].

Solo per il pensiero umano, troppo umano, solo per ciò che muove ne­cessariamente dall'interno verso l'esterno e per cui l'esterno è sempre dato come un che di interno e a partire dall'interno e dunque come l'esterno di un interno, la realtà arcontica dello Schein  può venire solo "designata dall'interno" e cioè appunto come "volontà di potenza", intesa come il su­premo potenziamento della volontà per uscire fuori da se stessa, per per­venire al fondamento dell'interiorità di se stessa, all'esterno assoluto di sé: a quella sua inafferrabile fluida natura proteiforme: a quel sogno primor­diale che avvolge di sé e circonda col suo più ampio giro precedendoli ogni contrapposizione di interno ed esterno, alto e basso, superficialità e profon­dità, essere e apparenza, soggetto e oggetto, natura e spirito, etc. Proprio perciò il "Wille zur Macht ist das letzte Factum, zu dem wir hinunterkom­men"[xiv][14].

Ma se si prescinde da quell'interno/esterno per procedere - attraverso la massima 'esasperazione' dell'interno, attraverso la discesa agli inferi, ai fondamenti abissali - fuori verso quell'esterno assoluto, come è possibile ostendere concettualmente questo orizzonte apparenziale intenzionato come fluida natura proteiforme?

Nietzsche era talmente consapevole di questo problema di 'metodo' da poter acutamente osservare: "Das müßte etwas sein, nicht Subjekt, nicht Objekt, nicht Kraft, nicht Stoff, nicht Geist, nicht Seele: - aber man wird mir sagen, etwas dergleichen müsse einem Hirngespinnste zum Verwechseln ähnlich sehn? Das glaube ich selber: und schlimm, wenn es das nicht thäte! Freilich: es muß auch allem Andern, was es giebt und geben könnte, und nicht nur dem Hirngespinnste zum Verwechseln ähnlich sein! Es muß den großen Familienzug haben, an dem sich Alles mit ihm verwandt wiederer­kennt --"[xv][15].

Con ciò, però, Nietzsche ha già anche dato la risposta: questa è il tempo che 'apparenta' tutto: l'interno e l'esterno etc. etc. L'autoapparire del tempo-Schein  che domina anche l'epocalità dell'essere e le epoche dell'essere, 'è' esso il fondamento dell'autoappropriazione e della autodi­sappropriazione dell''essere' in quanto 'proprio' di sé stesso. Questo è 'propriamente' il fondamento disumano dell'umano: ciò che "maltrattava"[xvi][16] Nietzsche fin nelle radici del suo più proprio essere e che egli disperava perciò di poter comunicare mediante una concettualizzazione filosofica tra­dizionale, giacché "zwischen dem Ähnlichsten gerade lügt der Schein am schönsten; denn die kleinste Kluft ist am schwersten zu überbrücken"[xvii][17]

"Maltrattato": anche perché Nietzsche, completamente invaso  dal pensamento di quel pensiero capitale, da quel "Gipfel der Betrachtung" - tanto abissalmente alto da dare le vertigini: esso stesso nella sua propria verticalità una vertiginosa vertigine - non è in grado di 'concettualizzarlo' e 'definirlo' adeguatamente, cioè nella sua interezza. E perciò Nietzsche ri­corre alla 'poesia', cerca cioè di 'cantarlo'. Ma il suo 'canto' non è in genere adeguato alla vertiginosa altitudine di quel pensiero abissale la cui abissa­lità è tale perché la superficialità (e la frivolità) appartiene all'essenza di quel pensiero stesso. Nietzsche rincorre la 'poesia' (lo Zarathustra, per es., o i Ditirambi di Dioniso etc.), ma il suo 'canto' (salvo rarissime eccezioni: per es. la famosa Sils Maria[xviii][18]) nel complesso fallisce[xix][19], come fallisce nella 'prosa' la concettualizzazione di quell'Ur-pensiero: il puro, tautologico, fuori-di-sé dello Schein  in quanto temporalizzarsi del tempo.

In tal senso, si può affermare - facendo comunque attenzione a non restare intrappolati nella tradizionale contrapposizione e/o giustapposi­zione di filosofia e poesia (tipo quella che sta alle origini della prima rece­zione del Nietzsche artista-poeta e pensatore, come suonava il sottotitolo della gloriosa monografia del neokantiano A. Riehl[xx][20]) - che Rilke (in alcuni aspetti della cui 'poesia', come ho anticipato, il medesimo flusso di pensiero che attraversa Nietzsche riemerge intensificato e rigenerato), se fallisce nel 'pensiero' non fallisce nel 'canto', nel suo  proprio canto poetico che è già come un nuovo pensiero (quel pensiero-balenante che su di un altro bina­rio - quello 'filosofico' - anche Nietzsche prefigura: attraverso la metafisica, ovvero l'antimetafisica, dello Schein).

La caratteristica fondamentale di questo pensiero è la caratteristica fondamentale dello Schein  stesso: la sua propria transitorietà e fugacità; ciò implica propriamente la sua propria immemorialità, ma questa è propria innanzitutto dell'animalità dell'animale; una sua formulazione estrema (ma tenendo conto che questo pensiero, appunto in quanto puro fuori-di-sé, è  l'antiestremo di ogni estremizzazione dialettica) potrebbe essere: la irripe­tibilità del suo eterno ritornare e l'eterno ritornare della sua propria irri­petibilità. Con ciò è espressa la uniduplicità propria dello Schein, che è la vita stessa, e questa, innanzitutto, è l'animalità  degli animali.

Ma proprio Heidegger, malgrado il suo puntuale rilevare in Nietzsche la rimandatività ed identificazione di animalità ed eterno ritorno dell'eguale, proprio Heidegger, attraverso questa tattico sfioramento del problema filosofico-primordiale che i "Zarathustras Tiere"[xxi][21] in sé rappre­sentano, elude strategicamente il problema stesso: precisamente come av­viene per la questione dello Schein.  Anche in ciò animalità  e Schein, gi­rando ogni volta in circolo concentricamente (proprio come fanno l'aquila ed il serpente di Zarathustra) su se stessi, si rimandano a vicenda.

Ma ogni volta è come se Heidegger si ritraesse atterrito da ciò a cui lo Schein , attraverso la sua propria intima compenetrazione di animalità  e temporalità - esso stesso questa 'commettitura' primordiale - conduce. Se solo si sapesse che cosa questi termini propriamente significano, si po­trebbe semplicemente dire: verso il fondamento 'disumano' dell'umano. Ciò implica che si parli anche della 'animalità' e del 'tempo', ma il doppio vo­lume heideggeriano su Nietzsche  uscito solo nel 1961 non  fa trapelare gran che di questa esigenza che pure l'accompagna come un'ombra oltre la quale è impossibile saltare.

Ma proprio riandando a ritroso a partire dal doppio volume su Nietzsche  quest'ombra si rende invece pienamente visibile e comprensibile (nei limiti in cui un'ombra può esserlo): e questa è la intima vicinanza negli Holzwege[xxii][22] heideggeriani, pubblicati dieci anni prima, del lungo saggio su Nietzsche e di quello altrettanto lungo su Rilke; non a caso l'un saggio segue l'altro[xxiii][23]: come a dire che la poesia di Rilke è impensabile senza presupporre Nietzsche, epperò che il pensiero di Nietzsche è cieco ed incompiuto senza gli essenziali presagi d'essere che Rilke canta e rappresenta e che solo un pensiero-balenante, un pensiero che procede per balenii, qual è proprio quello della cosiddetta 'poesia', allorquando essa afferra sovranamente se stessa, può mettere in opera.

Qui però non entrerò direttamente né nelle questioni della tarda filo­sofia heideggeriana, del suo peculiare linguaggio e dei suoi problematici bi­nomi: pensiero e poesia, pensiero poetante e poesia pensante, né nelle que­stioni della poesia di Rilke in quanto tale, della posizione che occupano in essa le Elegie Duinesi , delle interne stratificazioni nella lunga composizione di queste ultime e della loro connessione con altri coevi cicli poetici rilkiani.

Mi interessa piuttosto far vedere, attraverso l'eco reiterata del pen­siero di Nietzsche in alcuni picchi d'eccellenza della poesia di Rilke, davanti a cosa il pensiero di Heidegger (il quale proprio questa ispirazione metafi­sica nietzscheana della poesia di Rilke riconosce e sottolinea[xxiv][24]) si ritrae at­territo, mettendo in moto tutta una strategia di difesa e di aggiramento. E ciò è già ben visibile nel tanto prudente quanto esatto giudizio di Heidegger circa i limiti della comprensione e dell'avvicinamento critico delle Elegie di Duino  e dei Sonetti ad Orfeo[xxv][25]. D'altra parte, però, occorre anche sottoli­neare come proprio l'estrema stratificazione di ispirazioni e di suggestioni presente nei due maggiori cicli poetici rilkiani renda necessario, per seguire propriamente l'importo metafisico nietzscheano nella poesia di Rilke, tra­scegliere "alcune parole fondamentali [Grundworte] dell'autentica [gültige] poesia di Rilke"[xxvi][26] e dunque fare ricorso anche a versi esterni a quei due ci­cli poetici principali.

Utilizzerò perciò alcuni passi delle Elegie Duinesi come 'materiali' (dunque senza alcuna preoccupazione di fedele e/o puntuale commento si­stematico[xxvii][27], e ciò proprio in quanto la pura e sovrana autostensione pecu­liare della poesia per eccellenza in generale, e di alcuni versi delle Elegie Duinesi  in particolare, sembra possedere in sé la capacità di non aver biso­gno di un commento che la riconduca logicamente ad altro: in quanto sono i versi che, reiterati nella loro lettura, rendono propriamente intelligibili le parole del commentario), o meglio come autentico contro-canto ed esplicita­zione in quanto (laddove non ricade nelle sue infelici formulazioni esote­rico-sapienziali che costituiscono un secondo strato innestato sul nucleo ori­ginale delle Elegie Duinesi) in alcuni di questi versi Rilke canta il Dionisiaco nietzscheano con una rigorosità concettuale inattinta dallo stesso Nietzsche (che spesso è abbastanza evasivo e rinunciatario se non anche addirittura 'impreciso' a concettualizzare il Dionisiaco: in effetti però ciò è connesso alla questione dello Schein che non permette più alcuna determinazione logica bensì solo una ostensione 'estetica', ekstatica, per mezzo della 'logica' pro­pria della poesia autenticamente filosofico-metafisica[xxviii][28]), mettendo in con­nessione con insuperata essenzialità propria solo della poesia il Dionisiaco, l'Animalità e la Temporalità del Tempo ed il loro reciproco autoapparire.

Anzi si può dire che come la Nascita della Tragedia  di Nietzsche è un vero e proprio trattato di metafisica dell'apparenza - che costruisce cur­vando nel proprio senso materiali schopenhaueriani e wagneriani  -, cosa che la filologia classica ufficiale coeva fece giustamente notare stroncandola scientificamente, così le Elegie Duinesi di Rilke costituiscono per alcuni tratti l'essenzializzazione di quella metafisica dell'apparenza. In entrambi i casi è questione della delimitazione apollinea nell'essere (ousìa) prodotta dal dolore dionisiaco del divenire (dynamis/energheia),  della delimitazione apollinea nell'essere che è apparenza, ma quest'ultima altro non è che il precipitato del movimento di apparizione dell'illimitato che è il principio dinamico di produzione in sé, ma ciò è proprio lo Schein (che è il monstrum  per eccellenza: ciò che appare in sé, cioè fuori-di-sé, massimamente - ed insieme, poiché è il principio stesso della vita e dunque esso stesso massi­mamente vivente, è l'animale primordiale, il minotauro), cioè il temporalizzarsi del tempo: il puro fuori-di-sé (proprio di ciascuna delle sue ekstasi) nelle sue condensazioni (le varie singole esistenze). Come si vedrà più avanti, Rilke impiegherà formulazioni poeticamente più confacenti alla complicata semplicità propria della 'cosa' da ostendere.

La conoscenza che Rilke aveva di Nietzsche e degli aspetti essenziali del suo pensiero, segnatamente quelli connessi con la metafisica artistica de La nascita della tragedia, gli fu certamente mediata anche da Lou von Sa­lomé. Com'è noto, i due si conobbero nel 1897 (data di inizio della loro in­tensa relazione sentimentale ed intellettuale). La più anziana Lou aveva pubblicato già nel 1894 la sua pionieristica ma in più punti acuta ricostru­zione del pensiero di Nietzsche[xxix][29] in cui, a suo modo, metteva in risalto la centralità della questione della temporalità e la sua intima connessione con la 'follia' mistica: "Questa tendenza verso l'elemento ascetico e mistico, che, proprio nella lotta contro di essi, si palesa con forza come il tratto segreto della filosofia di Nietzsche [...]. La dottrina nietzscheana dell'eterno ritorno non è mai stata messa in rilievo e apprezzata a sufficienza, sebbene in certa misura essa costituisca sia le fondamenta sia il coronamento dell'edificio concettuale di Nietzsche, e sia stata l'idea da cui egli ha preso le mosse nella concezione della sua filosofia dell'avvenire, così come quella con cui la con­clude"[xxx][30]. E forse fu proprio anche questo testo della vom Salomé[xxxi][31] che con­determinò all'epoca la altrettanto pionieristica quanto disordinata scelta editoriale di Fritz Kögel di mettere in risalto il pensiero di Nietzsche fonda­mentalmente come pensiero del temporalizzarsi del tempo e cioè come pensiero dell'eterno ritorno dell'eguale[xxxii][32].

Non è un caso quindi se quel che rimane dei frammentari appunti di lettura rilkiani della seconda edizione (1886) de La nascita della tragedia di Nietzsche fu trovato proprio tra le carte private di Lou. Queste annotazioni - diciotto fogli manoscritti privi di titolo -, risalenti probabilmente al marzo 1900 (periodo in cui Rilke abitava presso Lou Andreas-Salomé nella villa Waldfrieden di Berlino-Schmargendorf) furono pubblicate solo nel 1966, come Marginalien zu Friedrich Nietzsche "Die Geburt der Tragödie", nel quadro dell'edizione delle opere complete di Rilke[xxxiii][33].

Come ho già detto prima, non mi interessa qui entrare nel merito di queste annotazioni per valutare nel dettaglio la loro maggiore o minore ca­pacità di penetrazione e corrispondenza estetico-filosofica al classico testo nietzscheano in quanto tale (su ciò cfr., per es., il classico contributo di F. Jesi[xxxiv][34], ma intanto la letteratura critica sull'argomento si è ovviamente di parecchio arricchita). Qui esse vengono richiamate solo per documentare la presenza altresì di un filo in qualche modo diretto tra Rilke e Nietzsche, ca­sualmente o meno mediato anche dalla von Salomé. Anzi, il dato di fatto fondamentale di queste note rilkiane è di muovere già ad una essenzializ­zazione della metafisica artistica nietzscheana (quale d'altra parte aveva iniziato a procurare Nietzsche stesso, come quest'ultimo ricorda nel suo Tentativo di autocritica apposto come introduzione alla seconda edi­zione,1886, de La nascita della tragedia[xxxv][35], cioè proprio l'edizione che Rilke aveva tenuto presente), cioè ad una arconticizzazione di essa, della metafi­sica dell'artista primordiale, e attraverso di essa del pensiero di Nietzsche in quanto tale riconducendolo al suo principium individuationis che è, in­sieme, il principio di tutti i principi; nei termini di queste note rilkiane: alla "causa della Musica".

"Es ist auffallend, daß man für 'Musik' in allen erwähnten Wirkungen immer jenes Andere setzen kann, das nicht Musik ist, sondern, welches nur durch Musik am reinsten ausgedrückt wird. Der Lyriker bedarf ja nicht  der Musik, um zu schaffen, sondern nur jenes rythmischen Gefühles, das schon nicht mehr des Gedichtes bedürfte, wenn es sich erst in Musik aus­spräche. Und sollte mit Musik nicht überhaupt jene erst dunkle Ursache der Musik gemeint sein und somit die Ursache aller Kunst? Freie bewegte Kraft, Überfluß Gottes? Auch Malerei und Bildhauerei hat nur den Sinn, jene 'Musik' zu interpretieren, an Bildern zu verbrauchen. Und dann wäre etwa die Musik schon der Verrath jener Rythmen, die erste Form sie anzu­wenden, noch nicht an den Dingen der Welt, sondern an den Gefühlen, an uns. Daran schlösse sich die Lyrik an, die uns leise mit der Welt verknüpft, indem sie von unseren Gefühlen spricht als von Dingen der Welt und aus der Lyrik entwickelte sich auf dem Umweg über die plastischen Künste, die mit Weltdingen bereits symbolisch verfahren, das Drama, die bildhafteste und darum vergänglichste Interpretation, der tiefverborgenen Rythmen, die indessen die Absicht hat, in den Schauenden jene erste primäre Ursa­che der Kunst zu erwecken, indem sie die Individualität in den einzelnen Zuschauern zerstört, aus hunderten eine Einheit schafft, d. h. ein Instru­mentum für jene dionysischen Geräusche des Hintergrunds. Und also schließt sich hier der Kreis. Aus der gewaltsam durch den Rausch des Schauens vereinten Menge löst sich ein Einzelner mit dunkler Kraft los, iso­liert seine Gestalt und vergeudet in Flötentönen den Gott, der die erschüt­terte Menge erfüllt"[xxxvi][36].

Ed in un altro passo Rilke annota: "Das Ursprüngliche ist das Wellen­schlagen des Unbegrenzten und sein erster vollkommenster Ausdruck: Mu­sik. Fast mit der ganzen Breite spricht sich der bewegte Hintergrund in der Musik aus, - während in der letzten Anwendung, im Drama, in den schmalen Gestalten nur ein kleiner Theil jenes Hintergrundes Raum hat, der allerdings so wirkt, daß aus den Zuschauern wieder ein verhältnismäßig Unbegrenztes, - also ein momentaner Schauplatz jenes ursprünglichen Wellenschlages entsteht"[xxxvii][37].

Attraverso la messa in rilievo di questo singolare pensiero della "causa della musica", cioè di ciò che 'è' essendo tutto ed il contrario di tutto,  dunque anche della musica strettamente intesa così come dell'apparire di tutte le altre arti, rispetto alle quali l'inapparente 'musica' serba però una primazia che la rende 'causa', innanzitutto di 'se stessa', cioè 'causa della musica' - per cui essa è in sé l'inapparente apparire del puro fuori-di-sé - e attraverso ciò l'orizzonte autoapparenziale di qualsiasi possibilità dell'apparire e di qualsiasi apparizione concreta, Rilke si procura la matrice concettuale (che pure subirà non poche variazioni terminologiche, come si vede già dall'ultimo passo appena citato: ma più precisamente si tratta di estensioni e vibrazioni concentriche provenienti da un medesimo 'diapason') per procedere alla arconticizzazione della metafisica nietzscheana quale avverrà in particolare nelle Elegie Duinesi .

E segnatamente in alcune parti di esse: anche in Rilke infatti non può non farsi sentire l'insostenibile tensione dell'intenzionalità continua e irri­ducibile del principio dei principi, della scaturigine delle scaturigini; come per Nietzsche prima, e poi, più tardi, anche per Heidegger, anche se in modi radicalmente diversi, lo sforzo estremo di intenzionare e concettualizzare il gran principio dei principi non può non risultare esso stesso storico, indivi­duale, e perciò votato necessariamente al naufragio, in se stesso rovinante nel proprio opposto, nella perdita di se stesso, nell'oblìo del raggiungimento totale di sé, nel venire sommerso nella deiezione della 'quotidianità'; a ciò cerca di far fronte appunto la tematizzazione - che è a disposizione del ta­lento proprio del genio poetico e solo raramente del filosofo che si atteggia (spesso solo goffamente se non pateticamente) a poeta - dell'apparenzialità dell'ossimoro puro, in cui è ricompreso lo stesso 'naufragium feci, bene na­vigavi', cui appartengono anche ed innanzitutto i versi dell'epigrafe tom­bale rilkiana della "rosa, pura contraddizione, piacere/ di essere il sonno di nessuno sotto tante/ palpebre"[xxxviii][38], il che significa appunto intenzionare e concettualizzare la supremazia dell'apparire dell'apparenza, del temporaliz­zarsi del tempo, del fondo animale del minotauro, della curvatura del dive­nire, della "causa della musica", etc.

La compiuta 'esasperazione' della soggettività, l'attingimento della sua propria "natura originaria", della sua propria "essenza astorica", di cui par­lava Dilthey a proposito di Nietzsche, è proprio ciò che viene rappresentato da Rilke attraverso la figura dell' "angelo": il potente 'rovescio' dell'uomo: perciò questo assoluto 'rovescio' è/appare 'astorico': il fondamento della storicità storico-umana appare come 'astorico', poiché esso è l'ossimoro puro proprio dell'essenza del tempo, cioè l'apparire di se stesso come au­ten­tico non-se-stesso: e proprio in questa sua autenticità, in questo suo appa­rire-ed-essere propriamente se stesso: inautentico, irragiungibile, apparente, velocissimo, lentissimo, lunghissimo, brevissimo, aurorale, inaugurale, im­mobile, improvviso etc.; ma tutte queste determinazioni sono tali di come 'esso' appare a noi dall'interno, appunto cioè come determinazioni tempo­rali, ma non in sé, cioè nel suo proprio autoapparire, e perciò, come direbbe Nietzsche, non nella 'sua' inafferrabile proteiformità: giacché pure questo voler afferrare è già esso stesso l'autoapparire, l'autoapparirsi, del tempo, il suo proprio temporalizzarsi: il tempo che vuole afferrare il tempo: "Ciò dovrebbe essere qualcosa, non soggetto, non og­getto, non forza, non materia, non spirito, non anima - ma mi si dirà che qualcosa di simile somiglia a un'allucinazione, fino a confondersi con essa? E' quello che credo io stesso: e guai se così non fosse! Certo, dovrà somi­gliare, fino a confondersi con essa, anche a ogni altra cosa che esiste e può esistere, e non solo all'allucinazione! Dovrà avere una grande caratteristica comune, dalla quale tutto si riconosca apparentato ad esso"[xxxix][39].)

Si può dire, perciò, che questo è il medesimo tema metafisico delle Elegie Duinesi[xl][40], pur se esso stesso giammai nella piena e totale disponibi­lità del poeta, che spesso lo perde, lo smarrisce, scambiandolo per altro e con altro, e che perciò lo può solo attendere: in quanto il suo proprio appa­rire (quello della 'cosa' stessa), il suo intimo automovimento, è quello dell'apparire dell'apparenza pura: l'Angelo, che però non appare mai del tutto, giacché ciò, l'apparire della sua pura autoapparenzialità, significhe­rebbe l'annientamento di ogni apparenza finita, perciò esso è tremendo: "e se anche un Angelo a un tratto/ mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte/ mi farebbe morire"[xli][41]; il trattenersi della pura autoapparenzialità dall'apparire totalmente crea come una distanza tra sé ed il proprio com­pleto apparire: il rilucere di questa sospensione è il 'bello': "Perché il bello non è che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora,/lo am­miriamo anche tanto, perch'esso calmo, sdegna/ distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo"[xlii][42]. Gli Angeli sono essi stessi una dimensione primor­diale, la scaturigine di ogni apparire in cui le direzioni temporali si equival­gono, si sovrappongono, si invertono e si cancellano; essa è come la vibra­zione di un'onda musicale che si innalza oltre con il proprio esser-stata  o, più intensamente, è come una corrente rifluente tra vortici contrapposti che pur però appartengono ad essa: "Montava/ un'onda dal passato"[xliii][43]; "Ma i vivi errano, tutti,/ ché troppo netto distinguono./ Si dice che gli Angeli, spesso, non sanno/ se vanno tra i vivi o tra i morti. L'eterna corrente/ sempre trascina con sé per i due regni ogni età,/ e in entrambi la voce più forte è la sua"[xliv][44].

Anche gli Angeli sono e non sono questa stessa corrente centripeta e simultaneamente centrifuga.

"Gli Angeli sono tutti tremendi"[xlv][45]. "Si movesse ora l'Arcangelo, il peri­coloso, si movesse da dietro le stelle/ di un passo soltanto, giù verso di noi: con la violenza/ del battito, ci ucciderebbe il nostro proprio cuore. Chi siete voi?/ Voi, primi perfetti, viziati della Creazione,/ profili di vette, creste di tutto il Creato/ rosse d'aurora, - polline della divinità in fiore,/ articolazioni di luce, anditi, scale, troni, spazi d'essenza, scudi di delizia, tumulti/ di sen­timento in tempeste d'entusiasmo, e a un tratto, uno per uno,/ specchi : la bellezza che da voi defluisce/ la riattingete nei vostri volti"[xlvi][46]

Ogni Angelo è la concentrazione delle diverse direzioni del tempo e delle sue temporalizzazioni (gli Angeli, come il tempo, sono simultanea­mente singolari-e-plurali: essi sono il principio del tempo, cioè della tempo­ralizzazione dei tempi). Perciò il singolare di Angeli è: Arcangelo, cioè il loro principio arcontico. Di fronte ad essi - che sono la totalità estensiva ed in­tensiva delle eternità passate, presenti e future, sempre di nuovo di volta in volta ritornanti in se stesse -, e proprio da essi, in quanto tali culmini della concentrazione del temporalizzarsi dei tempi, reso possibile, sta il di­venire storico umano (di qui il poter-essere-per-una-totalità proprio di quest'ultimo, il suo poter-essere sempre oltre se stesso, il suo costante pas­sare per essere sempre di nuovo in vista di se stesso, e dunque in esso, nella sua consustanziale caducità e rovinanza, anche quello strano ed in­spiegabile - e in fondo falso in quanto malcompreso - presagio di defini­tiva eternità quale sembra affiorare massimamente nel forte sentimento d'amore che promette ogni volta di legare gli amanti l'uno all'altro per sempre): Dai superni agli inferi, l'altissimo e l'infimo si confondono l'uno nell'altro, chiudendo un medesimo cerchio:

"Ma per noi, sentire è svanire; ah, noi/ ci esaliamo, sfumiamo; di brace in brace/ buttiamo odore più lieve. Ecco, qualcuno ci dice:/ sí, tu mi entri nel sangue, questa stanza, la primavera,/ s'empie di te... Che giova, egli non può trattenerci,/ noi svaniamo in lui e intorno a lui. E la bellezza/ oh, chi la trattiene? Sul volto la sembianza/ sorge e spare senza posa. Come rugiada dall'erba novella/ quel che è nostro svapora da noi, come il calore da/ vi­vanda calda. Oh, sorriso, dove mai? Oh alzar d'occhi:/ nuova, calda, fuggitiva onda del cuore -/ ahimè: eppure siamo questo, noi. Avrà forse sapore/ di noi il cosmico spazio in cui ci dissolviamo. Sarà vero che gli Angeli/ attin­gono soltanto dal loro, emanato da loro,/ o c'è talvolta, come per sbaglio, un po'/ d'essere nostro? Ai loro tratti/ siam misti soltanto così, come quel che di vago ch'è nel volto/ delle gestanti? Gli Angeli non se ne accorgono nel vortice/ del loro ritorno a se stessi (Come potrebbero accorgersene)"[xlvii][47].

L'io e il tu, e massimamente quello degli amanti, sono semplicemente la loro propria rispettiva individuazione oppure attraverso di essi  appare e agisce quello che è il principio e l'orizzonte di possibilità di ogni individua­zione e relazione e di ogni promessa di (eterno) amore? Chi è veramente l'altro? E chi è veramente il se stesso? E chi abbraccia/comprende/afferra chi?  

"Amanti, a voi, placati l'uno nell'altro,/ io domando di noi. Voi vi av­vincete. Ne siete sicuri?/ [...] Lo so,/ vi toccate beati così, perché la carezza trattiene,/ perché non svanisce quel punto che, teneri,/ coprite; perché in quel tocco avvertite/ il permanare puro. E l'abbraccio, per voi, è una pro­messa/ quasi d'eternità. Eppure, [...]"[xlviii][48].

Al di là delle dottrine e degli esoterismi che Rilke pure mette in campo per produrre la sua costruzione poetica, ciò che qui occorre mettere in rilievo è l'intreccio tra l'autoapparenzialità pura degli Angeli, la bellezza: cioè il loro trattenersi dall'apparire completamente al cospetto delle sem­plici apparenze finite, e il rimbombare in queste ultime (siano esse appa­renze non-più o non-ancora apparenti) dello scroscio assordante del fluire della corrente concentrica dei tempi del tempo con cui gli stessi Angeli si identificano. Ma un altro aspetto occorre ancora rilevare, e cioè il fatto che questa corrente immemorabile, il cui autoapparire attraversa e ricom­prende in sé le singole apparenze individuali (per es. gli amanti) trascinan­dole con sé, non solo si identifica con gli Angeli, ma questi stessi e quella stessa esprimono una loro ulteriore fattezza come Animale primordiale: come se Angelo e Animale fossero le due facce coincidenti del medesimo cerchio concentrico della corrente primordiale dell'autoapparire del tempo nel suo continuo rifluire (temporalizzarsi) in se stesso: questo è allora l'Animale primordiale che scorre come tempo cosmico dei primordi attra­verso il presente, passato e futuro delle vite e dei corpi dei singoli, già-nati o già-morti o non-ancora nati, che sempre obbediscono - pur illudendosi del contrario, come tra gli amanti che credono di stravedere l'uno per l'altro - ad esso in quanto attratti dal loro atavico signore abissale, dalla loro linfa e matrice primigenia. Ciò costituisce appunto l'ambito della "creaturalità".

Perciò: "Cantare l'amata è una cosa. Un'altra, ahimè,/ quell'occulto, colpevole Dio-fiume del sangue"[xlix][49].

E' questo, il "Signore del piacere"[l][50], questo "Nettuno del sangue"[li][51] co­lui che, attraverso l'attrazione dell'amante per l'amata,  propriamente "levava il capo divino [...]/ per chiamare la notte a tumulto infinito"[lii][52]. E' perciò che lo "struggersi dell'innamorato/ per il volto dell'amata", "lo sguardo che s'interna nel volto puro di lei", "quello spasmo d'attesa, ch'è nell'arco delle sue sopraciglia"[liii][53], non gli viene dalla spirituale purezza stel­lare dell'amore, né gli viene dall'apparire dell'innamorata, né, infine e so­prattutto, gli viene "da sua madre"[liv][54]. L'amata è solo l'occasione perché nell'amante affiori quel "dio-fiume del sangue" che solo così, cioè particola­rizzandosi in figure limitate che esso insieme ama e distrugge, riesce ad autoapparirsi ed insieme a distruggere e non distruggere se stesso. In tal senso l'amata non riesce a richiamare e a trattenere del tutto nella limita­zione l'amante perché questi è e non è se stesso ma è trattenuto e voluto da una volontà che sta al fondo della sua singolarità, il fondamento universale individuale della sua singolarità.

"Credi davvero che l'abbia scosso così il tuo apparire/ leggero [...]?/ Certo gli turbasti il cuore, ma turbe più antiche/ si scaricarono in lui all'urto di quel tocco./ Richiamalo... tu non puoi richiamarlo del tutto da oscura compagnia"[lv][55].

Ma ancora prima e più dell'amata, presso la quale l'amante vuole scaturir fuori da quel dolore/piacere primordiale che lo vuole, lo pretende e lo disintegra, cercare di uscir fuori da esso per incominciare ad esistere, è la madre quella che fin dal principio, fin da piccolo, gli ha dato un inizio, cioè individuazione, esistenza nell'articolazione di passato-presente-futuro, difendendolo dal "Caos ondeggiante"[lvi][56]. Ma anche la madre, come l'amata (che è come un'ulteriore figura materna), non riesce a trattenere il fi­glio/l'amante da quella regione occulta propria del dio-fiume del sangue, del signore del piacere, del Nettuno del sangue, quella regione della vita prima della vita cui egli propriamente appartiene e che costituisce la sua autentica matrice primordiale precedente la stessa maternità della propria madre. Quel regno delle madri dei tempi remotamente remoti e remota­mente futuri che si sollevano improvvisamente per temporalizzarsi, per ac­cadere, per autoapparire. Che interrompono l'ordine consueto, non appena il sonno della notte si impossessa del giorno. Per farlo ricominciare nuova­mente dall'inizio. Come la silente crescita dell'intrico vegetale ed animale.

"Madre, tu  lo facesti piccino, sei tu che gli desti principio,/ per te era nuovo, tu chinavi ai suoi occhi nuovi/ il mondo amichevole, e gli scansavi l'estraneo"[lvii][57]. "Così, rasserenato, nel suo letto,/ solvendo la dolcezza della tua lieve figura/ sotto le palpebre assonnate nel gusto del primo sonno - :/ pa­reva difeso... Ma dentro: chi contrastava,/ chi frenava in lui i flutti dell'origine [Herkunft]?/ Ah, non c'erano precauzioni quando dormiva: dormiva ma sognava, ma febbricitava: e come ci si prestava!/ Lui, il nuovo, il timido, com'era irretito/ dalle liane striscianti dell'intimo accadere:/ già aggrovigliate in archetipi, in strozzante rigoglio,/ in forme dallo slancio fe­rino. Come si abbandonava. Amava./ Amava il suo intimo, il selvame del suo intimo,/ quell'originaria foresta ch'era in lui, sulla cui muta rovina/ stava, verde luminoso, il suo cuore. Amava. Quando lasciava il suo cuore, andava/ oltre le proprie radici, alla potente scaturigine,/ dove la sua pic­cola nascita era già sopravvissuta./ Amando affondava nel sangue più an­tico, nelle forre dov'era la paura sazia ancora dei padri. E ogni/ orrore cono­sceva lui, ammiccava, era come d'intesa./ Sí, l'orrido sorrideva..., di rado/ hai sorriso così teneramente tu, mamma. E lui come faceva/ a non amarlo, se gli sorrideva. Prima di te/ l'aveva amato, perché già quando lo portavi,/ era sciolto nell'acqua che fa lieve il germoglio./ Vedi, noi non amiamo come i fiori, attingendo/ da un'annata soltanto; a noi, quando amiamo/ sale alle braccia un'immemorabile linfa. O fanciulla/ è così: noi non amiamo in  noi, un essere solo, futuro, ma/ l'immenso fermento; non un singolo figlio,/ ma i padri, che come frane di monte/ posano al fondo nostro, ma l'arido greto/ di madri d'un tempo -; ma tutto/ il muto paesaggio sotto il Destino/ nuvo­loso o limpido -; questo, fanciulla, era prima di te./ E tu che ne sai, - tu su­scitasti/ tempi remoti nell'innamorato. Quali mai sentimenti/ eruppero da esseri scomparsi. [...]"[lviii][58].

Come si vede, qui il tempo come Animale primordiale è insieme la fu­sione di diversi eppur medesimi orizzonti 'amniotici' che in analogia a quella che Rilke, nelle postille a Nietzsche, aveva chiamato la "causa della musica" si potrebbero chiamare la 'causa della madre' ovvero le matrici botaniche, vegetative, linfatiche, animali, pulsionali della vita le quali nel sonno e nella notte e nell'amore si impadroniscono di nuovo dell'individuo. Quella possente scaturigine rispetto alla quale ogni nascita è solo piccola e solo già sopravvissuta. Lo stesso accadere del presente è perciò solo l'occasione d'innesco dell'avvento di un passato immemorabile la cui linfa inesausta brama ancora il proprio compimento. Qui Rilke, proprio per sot­tolineare il carattere disumano e pre-umano di questo fluido accadere pri­mordiale, lo chiama anche l'orrore e l'orrido.

Insomma, si tratta di quell'ambito che Rilke altrove ha anche, più ge­nericamente, chiamato 'natura' e che qui chiamerà, nella celebre ottava ele­gia, "l'aperto": "das Offene ". Questo è tale per la "creatura". E questa (il ter­mine designa tutto ciò che appare in natura, senza alcun riferimento ad un 'creatore' che non sia la 'natura' medesima[lix][59]), è innanzitutto l' "animale": "La creatura, qualsiano gli occhi suoi, vede/ l'aperto. Soltanto gli occhi no­stri son/ come rigirati, posti tutt'intorno ad essa,/ trappole ad accerchiare la sua libera uscita./ Quello che c'è  fuori, lo sappiamo soltanto/ dal viso animale; perché noi, un tenero bambino/ già lo si volge, lo si costringe a ri­guardare indietro e vedere/ figurazioni soltanto e non l'aperto ch'è sì pro­fondo/ nel volto delle bestie. Libero da morte./ Questa  la vediamo noi soli; il libero animale/ ha sempre il suo tramonto dietro a sé./ E dinanzi ha Id­dio; e quando va, va/ in eterno come vanno le fonti"[lx][60].

Questi versi rilkiani costituiscono una essenzializzazione della metafi­sica di Nietzsche, ma essi procedono con una ancora più forte sottolineatura della supremazia del più ampio cerchio della 'natura' e della sua tempora­lità, della sua 'animalità', sul cerchio inferiore della 'storia' umana. Per ri­prendere di nuovo l'analogia con la rilkiana "causa della musica", si po­trebbe dire la 'causa della storia', o, più propriamente, la 'causa del tempo'. E così infatti li ha letti Heidegger: come una minaccia metafisica di fonda­zione della temporalità storico-esistenziale dell'esserci a partire dalla tem­poralità in quanto Animale primordiale per il quale non si dà 'essere' ma solo autoapparire dell'Aperto. Un sostituirsi di quest'ultimo, in quanto Schein , alla "verità" dell' Essere la quale sostiene anche il Tempo. Ma ciò, l'impatto di questi versi su Heidegger, non è quasi più visibile nel saggio del '46, dove la sua grande maestria interpretativa chiude piuttosto che aprire i conti con la metafisica nietzscheano-rilkiana della primazia dell'autoapparenzialità dell'Animale primordiale. L'effetto di questo im­patto è invece ancora parzialmente visibile nel corso universitario di quat­tro anni prima in cui Heidegger aggira l'orrido ossimoro di "'animale' ed 'angelo'"[lxi][61] in cui la metafisica 'pagana' nietzscheano-rilkiana riafferma la pura 'creaturalità' senza alcun 'creatore' od orizzonte di possibilità (anche solo aletheiologico-ontologico) che non sia l'autoapparenzialità stessa dello Schein , cioè della animalità  primordiale (il 'Dionisiaco'): "Denn das Offene, das Rilke meint, ist nicht das Offene im Sinne des Unverborgenen. Rilke weiß und ahnt nichts von der alhqeia ;  er weiß und ahnt nichts davon, so wenig wie Nietzsche"[lxii][62].

Perciò, rispetto a questa "Deutung des Menschenwesens aus dem Tierwesen"[lxiii][63] che attraverso Nietzsche costituisce "das durchgängige Thema der Dichtung"[lxiv][64], cioè della poesia di Rilke[lxv][65], Heidegger sottolinea come "der Geist der Schopenhauerschen Philosophie, vermittelt durch Nietzsche und die psychoanalytischen Lehren, steht hinter dieser Dichtung. Wenngleich die Metaphysik Nietzsches im Hinblick auf die Lehre vom Willen zur Macht außerhalb der Rilkeschen Dichtung bleibt, so waltet doch das eine entschei­dende Gemeinsame, daß das Wesen des Menschen aus dem Wesen des Tie­res begriffen, hier 'gedichtet', dort gedacht wird. Rein metaphysisch gese­hen, d.h. im Hinblick auf die Auslegung des Seienden als die rational-irra­tionale Wirklichkeit, ist der Bereich der dichterischen Grunderfahrung Rilkes von dem der denkenden Grundstellung Nietzsches in nichts unter­schieden"[lxvi][66]. Proprio per questo motivo, però, per salvare l'orizzonte aletheiologico dell'Essere, l'apparire in quanto apparire nella verità dell'Essere, occorre per Heidegger respingere l'equazione nietzscheano-rilkiana di 'Schein-Dionisiaco-Offene-Animale-Angelo-Bellezza-Primordia­lità' (ciò che O. Becker sintetizzerà nel termine "Dawesen " contrapponen­dolo all'orizzonte storico-umano, troppo umano del Dasein  heideggeriano[lxvii][67]) facendo valere appunto che "zwischen dem, was Rilke 'das Offene' nennt, und dem Offenen im Sinne der Unverborgenheit des Seienden [cioè nel senso di Heidegger, A.G.] gähnt freilich eine Kluft. Das in der alhqeia wesende 'Offene' läßt erst Seiendes als ein Seiendes aufgehen und anwesen. Dies Offene sieht allein der Mensch. [...] Das Tier dagegen sieht weder, noch erblickt es jemals das Offene im Sinne der Unverborgenheit des Unverbor­genen"[lxviii][68].

In tal modo Heidegger pretende di aver ristabilito l'orizzonte di pre­minenza che nella metafisica 'animalizzante' nietzscheano-rilkiana risultava ribaltato, capovolto e pervertito. Nondimeno qui, malgrado il suo netto ri­fiuto di questa metafisica, Heidegger mantiene ancora in qualche modo aperta la porta del dubbio circa l'arduo problema di una adeguata determi­nazione filosofica della dimensione 'senza-parola' del cosiddetto regno ani­male e vegetale, ossia di quel dominio che Rilke aveva possentemente evo­cato nei suoi versi paragonandolo ad una immane corrente 'panamniotica' che rifluisce sempre di nuovo in se stessa e dall'ondeggiante intrico della quale la stessa temporalizzazione propria della individualità storica scaturi­sce. Heidegger vi si riferisce però chiamandolo semplicemente "il vivente". "Doch mit dem Hinweis auf den Ausschluß des Tieres aus dem Wesensbe­reich der Unverborgenheit beginnt erst das Rätsel uns aufzugehen"[lxix][69]; ep­però secondo Heidegger proprio questo enigma rappresentato dal vivente in sé stesso e nel suo non meno enigmatico passaggio alla forma storico-umana la metafisica nietzscheano-rilkiana non riesce a penetrare: "auch in Rilkes Dichtung die Wesensgrenze zwischen dem Geheimnis des Lebendigen (Pflanze - Tier) und dem Geheimnis des Geschichtlichen, d.h. dem Men­schen, weder erfahren noch innegehalten wird"[lxx][70]. Il giudizio di Heidegger risulta però non del tutto condivisibile.

Nelle Neue Gedichte (1907) di Rilke è contenuta una poesia che è doppiamente archetipica: nel senso che essa sta all'origine della svolta poe­tica di Rilke, ma anche, e soprattutto, nel senso che essa evoca il centro propulsore di quella svolta stessa - così come di qualsiasi altra possibile svolta e svolgimento e rivolgimento etc. -, 'centro' al cui richiamo impe­rioso i versi rispondono ripetendone la movenza.

Forse non del tutto a caso la poesia è intitolata Der Panther (1903): questo termine oltre a designare l'animale costituisce, nel suo strano etimo,  l'archetipo trascendentale dell'animale puro, perfetto (voll-endlich, si po­trebbe dire nella terminologia rickertiana, cioè finito-perfetto), eccellente, massimo, la intensificazione dell'animalità stessa, appunto l'animale di tutti gli animali: o panqhr.

"Sein Blick ist vom Vorübergehen der Stäbe/ so müd geworden, daß er nichts mehr hält./ Ihm ist, als ob es tausend Stäbe gäbe/ und hinter tau­send Stäben keine Welt.// Der weiche Gang geschmeidig starker Schritte,/ der sich im allerkleinsten Kreise dreht,/ ist wie ein Tanz von Kraft um eine Mitte,/ in der betäubt ein großer Wille steht.// Nur manchmal schiebt der Vorhang der Pupille/ sich lautlos auf -. Dann geht ein Bild hinein,/ geht durch der Glieder angespannte Stille -/ und hört im Herzen auf zu sein"[lxxi][71].

In una lettera del 17 marzo 1926 (pochi mesi prima della morte) Rilke, rispondendo ad una giovane lettrice che gli aveva chiesto di cono­scere più in dettaglio alcuni aspetti della sua vita e della sua opera, così scriveva: "Effetto della grande influenza di Rodin, che mi aiutò a superare una superficialità lirica e un à peu près  a poco prezzo (derivante da un sentimento vivamente commosso ma non maturo), impegnandomi a lavo­rare per qualche tempo come un pittore o uno scultore davanti alla natura, con l'inesorabile volontà di capire e di imitare. Il primo frutto di questo se­vero e buon ammaestramento fu la poesia La pantera - nel Jardin des Plantes a Parigi - che ne rivela l'origine"[lxxii][72].

L'origine che qui è rivelata - la Ur-animalità, che si tratta di fissare, comprendere e afferrare (plasticamente, figurativamente, sonoramente) nella sua suprema motilità - è ciò che chiama la poesia rilkiana verso il proprio diventare se stessa, imponendole di uscir fuori di sé e perciò di "superare una superficialità lirica e un à peu près  a poco prezzo (derivante da un sentimento vivamente commosso ma non maturo)":

Il punto centrale di quei versi apparentemente solo più impressioni­sticamente descrittivi è : "Der weiche Gang geschmeidig starker Schritte,/ der sich im allerkleinsten Kreise dreht,/ ist wie ein Tanz von Kraft um eine Mitte, / in der betäubt ein großer Wille steht"[lxxiii][73]. Il molle ritmo di passi che flessuosi e forti girano in minima circonferenza come una danza di forze intorno a un centro: ove stordito un gran volere dorme.

In questi strani versi Rilke cerca di descrivere una configurazione dell''animale primordiale', che in sé è appunto un centro che gira e rigira su se stesso, intorno a se stesso (la 'pantera' ma anche quel centro, come la 'rosa', inconsistente ed invisibile intorno a cui essa gira e rigira, girando e rigirando intorno a se stessa) contenendo in sé tutto l'autoapparire del temporalizzarsi del tempo.

Ed è precisamente a questa dimensione dello Schein  che si riferisce Nietzsche quando decide di raccontare 'come si diventa ciò che si è', mo­strando il principium individuationis  di natura e cultura: laUr-individua­zione del puro in-sé/fuori-di-sé: il tempo-Schein, lo Schein-und-Zeit arcon­tico immemoriale; immemoriale come l'animale-primordiale: lo Ur-indivi­duo ricomprendente in sé ogni uno ed ogni dualità, essendo 'prima' di 'uno' e 'due'. Insomma, l'individuazione quale principio dello stesso principium individuationis e dunque quale principio della stessa 'verità': l'autoapparire dello Schein  che solo rende possibili natura e storia e la loro distinzione.

 In Ecce homo , la sua 'autobiografia', Nietzsche conia la più intensa formulazione del proprio pensiero 'abissale', una formulazione tanto traspa­rente quanto enigmatica (per la cui disarmante 'semplicità' forse solo la concettualità sviluppata da O. Becker[lxxiv][74] è stata in grado finora di offrirci una chiave se non di soluzione almeno di precomprensione):

"Das Glück meines Daseins, seine Einzigkeit vielleicht, liegt in seinem Verhängniss: ich bin, um es in Räthselform auszudrücken, als mein Vater bereits gestorben, als meine Mutter lebe ich noch und werde alt. Diese doppelte Herkunft, gleichsam aus der obersten und der untersten Sprosse an der Leiter des Lebens, décadent zugleich und Anfang - dies, wenn ir­gend etwas, erklärt jene Neutralität, jene Freiheit von Partei im Verhältniss zum Gesammtprobleme des Lebens, die mich vielleicht auszeichnet"[lxxv][75]

"La fatalità della mia esistenza ne ha fatto la felicità, le ha dato, forse, il suo carattere unico: io, parlando per enigmi, come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora ed invecchio. Questa doppia discen­denza, come dire dal più alto e dal più basso germoglio sulla scala della vita, décadent e inizio al tempo stesso - questo solo, se mai, può spiegare quella neutralità, quella libertà da qualunque partito di fronte al problema generale della vita, che forse mi contraddistingue"[lxxvi][76].


[i][1]W. Dilthey, Il secolo XVIII e il mondo storico, tr. it di F. Tedeschi Negri, Milano, Edizioni di Comunità, 1977(2), p. 27. - Cfr. W. Dilthey, Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche Welt  (1901), ora in ID., Gesammelte Schriften, Bd. III, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1976(5), p. 210: "Aber das ist nun das innere Gesetz der hi­storischen Wissenschaft: wie die geschichtliche Welt sich in der Zeit aufbaut, wächst zugleich mit ihr das wissenschaftliche Verständnis der geschi­chtlichen Natur des Menschen heran. Denn der Mensch versteht sich selber durch keine Art von Grübe­lei über sich; aus dieser entspringt nur das große Nietzschesche Elend der über­spannten Subjektivität: allein an dem Verständnis der geschichtlichen Wirklichkeit, die er hervorbringt, gelangt er zum Bewußtsein seines Vermögens, im Guten und im Schlimmen".

[ii][2]Cfr. W. Dilthey, Traum (1903), in ID., Gesammelte Schriften, cit., Bd. VIII, p. 226: "Umsonst suchte Nietzsche in einsamer Selbstbetrachtung die ursprüngliche Natur, sein geschichtsloses Wesen. Eine Haut nach der anderen zog er ab. Und was blieb übrig?".

[iii][3]Cfr. la lettera del 25 ottobre 1872 di Nietzsche a Erwin Rohde, in Fr. Nietzsche, Epistolario, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. II (1869-1874), trad. it. di C. Colli Staude, Milano, Adelphi,  1976, p. 374, nr.  265. - (Com' è noto, questa irreversibile damnatio filologico-scientifica di Nietzsche sarà codificata dal famoso opuscolo di un suo altro giovane collega: U. Wilamowitz-Möllendorf, Zukunftsphilologie!, Berlin, Bornträger, 1872).

[iv][4]Cfr. P. Yorck von Wartenburg/W. Dilthey, Carteggio 1877-1897 (1923), a cura di F. Donadio, Napoli, Guida, 1983, p. 345, lettera nr. 151 del maggio 1897.

[v][5]Cfr. E. Troeltsch, Der metaphysische und religiöse Geist der deutschen Kultur (1916), ora in: ID., Deutscher Geist und Westeuropa. Gesammelte kulturphilosophi­sche Aufsätze und Reden, hrsg. von H. Baron, Tübingen, Mohr, 1925, pp. 58-79, qui p. 75.

[vi][6]Mentre in Simmel e Spengler quella da parte di Nietzsche è un'influenza filo­sofica ampiamente dichiarata, negli altri autori della costellazione storicistica il rap­porto con Nietzsche resta per lo più sullo sfondo celando spesso l'entità dell'effettiva incidenza (positiva o negativa che sia). Il principale discrimine dell'interesse filoso­fico per Nietzsche è costituito dalla presenza o meno negli autori storicisti di una reale riflessione 'estetologica' (come è nel caso anche di Dilthey).

[vii][7]Cfr. O. Pöggeler, Heidegger und die hermeneutische Philosophie, Frei­burg/München, Alber,  1983, p. 39: "auch unter dem Einfluß seines Lehrers Rickert hatte Heidegger in Nietzsche zuerst einen leidenschaftlichen Kritiker der überlie­ferten 'Werte' gesehen".

[viii][8]Cfr. Fr. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari (= OFN), vol. V,1, Au­rora e Frammenti postumi 1879-1881, trad. it. di F. Masini e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964,  Frammento 3 [19] (Primavera 1880), pp. 306-307. - Cfr. Fr. Nietzsche, Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe (=KSA), hrsg. von G. Colli und M. Monti­nari, DTV, München, + de Gruyter, Berlin/New York 1988(2), Bd. 9, Nachgelassene Fragmente 1880-1882, p. 52, nr. 3 [19] (Frühjahr 1880): "Das Neue an unserer jetzigen Stellung zur Philosophie ist eine Überzeugung, die noch kein Zeitalter hatte: daß wir die Wahrheit nicht haben. Alle früheren Menschen 'hatten die Wahrheit': selbst die Skeptiker".

[ix][9]Cfr. W. Del Negro, Die Rolle der Fiktionen in der Erkenntnistheorie Friedrich Nietzsches, München, Rösl & Cie, 1923.

[x][10]Cfr., per esempio, OFN, VII, 3, Frammenti postumi 1884-1885, trad. it. di S. Gia­metta, p. 240, nr. 36 [27] (giugno-luglio 1885): "La sola filosofia che ha per me ancora valore è la forma più generale della storia, il tentativo di descrivere in qualche modo e di abbreviare con segni il divenire eracliteo (di tradurlo per così dire, e di mummi­ficarlo, in una specie di essere apparente [scheinbaren Seins])".

[xi][11]Cfr. Id., La gaia scienza, aforisma nr. 54, trad. it. di F. Masini, in OFN, vol. V, 2, pp. 75-76. - Cfr. Id., Die fröhliche Wissenschaft, nr. 54, in KSA, Bd. 3, pp. 416-417: "Das Bewusstsein vom Scheine. - Wie wundervoll und neu und zugleich wie schauerlich und ironisch fühle ich mich mit meiner Erkentniss zum gesammten Dasein gestellt! Ich habe für mich entdeckt, dass die alte Mensch- und Thierheit, ja die gesammte Ur­zeit und Vergangenheit alles empfindenden Seins in mir fortdichtet, fortliebt, fort­hasst, fortschliesst, - ich bin plötzlich mitten in diesem Traume erwacht, aber nur zum Bewusstsein, dass ich eben träume und dass ich weiterträumen muss, um nicht zu Grunde zu gehen: wie der Nachtwandler weiterträumen muss, um nicht hinabzustür­zen. Was ist mir jetzt 'Schein'! Wahrlich nicht der Gegensatz irgend eines Wesens, - was weiss ich von irgend welchem Wesen auszusagen, als eben nur die Prädicate sei­nes Scheines! Wahrlich nicht eine todte Maske, die man einem unbekannten X auf­setzen und auch wohl abnehmen könnte! Schein ist für mich das Wirkende und Le­bende selber, das soweit in seiner Selbstverspottung geht, mich fühlen zu lassen, dass hier Schein und Irrlicht und Geistertanz ist, - dass unter allen diesen Träumenden auch ich, der 'Erkennende', meinen Tanz tanze, dass der Erkennende ein Mittel ist, den irdischen Tanz in die Länge zu ziehen und insofern zu den Festordnern des Da­seins gehört, und dass die erhabene Consequenz und Verbundenheit aller Erkentnisse vielleicht das höchste Mittel ist und dein wird, die Allgemeinheit der Träumerei und die Allverständlichkeit aller dieser Träumenden unter einander und eben damit die dauer des Träumes aufrecht zu erhalten".

[xii][12]Cfr. OFN, VII, 3, p. 341, nr. 40 [52] (agosto-settembre 1885). - Cfr. KSA, Bd. 11, Nachgelassene Fragmente 1884-1885, p. 654 , nr. 40 [52] (August-September 1885): "Es giebt verhängnißvolle Worte, welche eine Erkenntniß auszudrücken scheinen und in Wahrheit eine Erkentniß verhindern; zu ihnen gehört das Wort 'Erscheinungen'. Welches Wirrsal die 'Erscheinungen' ausrichten, mögen diese Sätze verrathen, wel­che ich verschiedenen neueren Philosophen entlehne".

[xiii][13]Cfr. KSA,  Bd. 11,  p. 654 , nr. 40 [53] (August-September 1885). - Cfr. OFN, VII, 3, p. 341, nr. 40 [53] (agosto-settembre 1885): "Contro la parola 'apparenze'/ NB. 'Illusione', come la intendo io, è la vera e unica realtà delle cose, ciò a cui soltanto spettano tutti i predicati esistenti, e che si può indicare nel modo relativamente mi­gliore con tutti i predicati, cioè anche con quelli opposti. Con il termine però non si esprime nient'altro che la sua inaccessibilità ai procedimenti e alle distinzioni logi­che: quindi 'illusione' in rapporto alla 'verità logica' - che è però essa stessa possibile solo in un mondo immaginario. Io perciò non contrappongo 'illusione' a 'realtà', ma prendo viceversa l'illusione come realtà, che si contrappone alla trasformazione in un 'mondo di verità' immaginario. Un nome preciso per questa realtà sarebbe 'la vo­lontà di potenza', se viene designata dall'interno, e non in base alla sua inafferabile e fluida natura proteiforme".

[xiv][14] Cfr. KSA,  Bd. 11, p.  661, nr. 40 [61] (August-September 1885). - Cfr. OFN, VII, 3, p. 348, nr. 40 [61] (agosto-settembre 1885): "La volontà di potenza è l'ultimo fatto a cui perveniamo scendendo in profondità".

[xv][15] Cfr. KSA,  Bd. 11, p.  644, nr. 40 [31] (August-September 1885). - Cfr. OFN, VII, 3, p. 331, nr. 40 [31] (agosto-settembre 1885): "Ciò dovrebbe essere qualcosa, non sog­getto, non oggetto, non forza, non materia, non spirito, non anima - ma mi si dirà che qualcosa di simile somiglia a un'allucinazione, fino a confondersi con essa? E' quello che credo io stesso: e guai se così non fosse! Certo, dovrà somigliare, fino a confon­dersi con essa, anche a ogni altra cosa che esiste e può esistere, e non solo all'allucinazione! Dovrà avere una grande caratteristica comune, dalla quale tutto si riconosca apparentato ad esso --".

[xvi][16]Cfr. quanto Nietzsche scriveva a Fr. Overbeck nella lettera del 2 luglio 1885 da Sils Maria: "[...] aber meine 'Philosophie', wenn ich das Recht habe, das, was mich bis in die Wurzeln meines Wesens hinein malträtirt, so zu nennen, ist nicht mehr mittheilbar [...]", in Fr. Nietzsche, Sämtliche Briefe. Kritische Studienausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, München, dtv, + Berlin-New York , de Gruyter, 1986, Bd. 7, p. 62.

[xvii][17]Cfr. Also sprach Zarathustra, in KSA, Bd. 4, (Der Genesende, 2),  p. 272 - Cfr. Così parlò Zarathustra, trad. it. di M. Montinari, in OFN, VI, 1, (Il convalescente, 2), p. 265: "Proprio tra le cose più simili tra loro, si insinua la parvenza come la più bella delle menzogne; infatti l'abisso più tenue è il più difficile da superare".

[xviii][18]Cfr. Die fröhliche Wissenschaft  (1882, 1887), Anhang : Lieder des Prinzen Vo­gelfrei  (1887), in KSA, Bd. 3, p. 649; trad. it. di F. Masini: La gaia scienza, Appzndice: Canzoni del principe Vogelfrei, in OFN, V, 2, p. 274.

[xix][19] Può forse valere qui anche per Nietzsche quanto una volta è stato critica­mente osservato a proposito del tardo Heidegger da O. Pöggeler, Heidegger und die hermeneutische Philosophie, cit., p. 28: "Es blieb bis heute unklar, wieweit Heidegger in seinem letzten Lebensabschnitt über die publizierten Vorträge hinaus zu einem denkerischen Werk fand - ob er nicht die meiste Arbeitskraft in jene kleinen Ge­dichte oder Quasigedichte investierte, die man niemandem verwehren kann, die aber auch nicht die Aufgabe gerade eines Philosophen sind. Dichtung und das Gespräch mit den Dichtern brauchen wir; eine Vermischung von Dichten und Denken aber ist [...] weder Fisch noch Fleisch".

[xx][20]Cfr. A. Riehl, Friedrich Nietzsche. Der Künstler und der Denker, Stuttgart, Frommann, 1897.

[xxi][21]Cfr. M. Heidegger, Gesamtausgabe, Bd. 44, Freiburger Vorlesung Sommerseme­ster 1937, Nietzsches metaphysische Grundstellung im abendländischen Denken, hrsg. von M. Heinz, Frankfurt a./M., Klostermann, 1986, pp. 44-51 e 238-239. Cfr. inoltre M. Heidegger, Nietzsche, Pfullingen, Neske, 1961, Bd. I, pp. 298-302.

[xxii][22]M. Heidegger, Holzwege, Frankfurt a./M., Klostermann, 1950.

[xxiii][23]Cfr. M. Heidegger, Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1968: "La sentenza di Nietzsche 'Dio è morto'" (1943) e "Perché i poeti?" (1946), rispettivamente pp. 191-246 e pp. 247-297. 

[xxiv][24]Ciò già prima del saggio del 1946, cfr. M. Heidegger, Gesamtausgabe, Bd. 54, Freiburger Vorlesung Wintersemester 1942/43, Parmenides, hrsg. von M. S. Frings, Frankfurt a./M., Klostermann, 1982, pp. 225-240.

[xxv][25]Cfr. Id., Perché i poeti?, cit. p. 254: "Non siamo affatto preparati a un'interpretazione d'insieme delle Elegie  e dei Sonetti; e ciò perché la regione da cui essi ci parlano non è ancora stata pensata sufficientemente nella sua costituzione e nella sua unità metafisica a partire dall'essenza della metafisica stessa  [...] L'interpretazione delle Elegie  e dei Sonetti  non solo ci trova impreparati, ma anche non qualificati, poiché il dialogo fra il poetare e il pensare può essere illuminato, raggiunto e pensato soltanto con grande lentezza".

[xxvi][26]Cfr. ibid., p. 253.

[xxvii][27]A tal uopo rimando, ma solo come indicazione di massima, oltre che agli utili spunti interpretativi contenuti in L. Andreas-Salomé, Rainer Maria Rilke (1928), a cura di A. Valtolina, Milano, La Tartaruga, 1992, ai classici commenti di R. Guardini, Rainer Maria Rilke. Le Elegie duinesi come interpretazione dell'esistenza (1941, 1961), trad. it. di G. Sommavilla, Brescia, Morcelliana, 1974; e di P. SZONDI, Le "Elegie Duinesi" di Rilke (1975), a cura di E. Agazzi, Milano, SE, 1997.

[xxviii][28]Risulta ancora utile, per il generale inquadramento della caratterizzazione filosofico-metafisica della poesia di Rilke, il vecchio studio di E. Heftrich, Die Philoso­phie und Rilke, Freiburg/München, Alber, 1962. Il volume di Heftrich dà conto, abba­stanza analiticamente, oltre che delle classiche interpretazioni di Heidegger e di Guardini, anche di quelle di F. Kaufmann, F. J. Brecht, O. Fr. Bollnow, E. Buddenberg e H. U. von Balthasar. Ovviamente il testo rilkiano privilegiato di queste interpretazioni filosofiche resta prevalentemente quello delle Duineser Elegien. - Si vedano però, ol­tre al volume di A. Destro, Le "Duineser Elegien" e la poesia di R. M. Rilke, Roma, Bul­zoni, 1970, anche gli importanti studi di H. Mörchen, Rilkes Sonette an Orpheus, Stutt­gart, Kohlhammer, 1958, e di B. Allemann, Zeit und Figur beim späten Rilke, Pfullin­gen, Neske, 1961, nonché le acute considerazioni svolte, in margine a quest'ultimo volume, da H. Mörchen, Rilke und die Zeit. Metaphysische Ideologie und Dichtung, in: "Philosophische Rundschau", 11 (1964), pp.  281-291.

[xxix][29]Cfr. L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, Wien, Kone­gen, 1894; ora ristampato per il centenario, a cura di E. Pfeiffer, presso Insel, Frank­furt a./M., (1983) 1994; (trad. it. col titolo Vita di Nietzsche, a cura di E. Donaggio e D. M. Fazio, Roma, Editori Riuniti, 1998).

[xxx][30]Cfr. ID., Vita di Nietzsche, cit., pp. 201, 204.

[xxxi][31]Non a caso in quella che rappresentò la prima grande interpretazione filoso­fica complessiva del pensiero di Nietzsche, che contestando la lettura nazionalsociali­sta (cfr. A. Bäumler, Nietzsche der Philosoph und Politiker, Leipzig, Reclam, 1931) di un Nietzsche solo più filosofo sistematico della 'volontà di potenza' politicamente in­tesa, poneva l'accento appunto sulla questione della centralità del pensiero della tem­poralità, K. Löwith, Nietzsche e l'eterno ritorno (1935, 1956), trad. it. di S. Venuti, Roma-Bari 1982, p. 200, poteva osservare, in un'appendice dedicata alla "storia delle interpretazioni di Nietzsche (1894-1954)" (sulla quale appendice cfr. altresì ibid. p. 260, n. 21), a proposito della ricostruzione della Salomé che "questo studio fu pubbli­cato nel 1894, dunque ancor prima dell'autorappresentazione fornita da Nietzsche in Ecce homo, e perciò è tanto più sorprendente la prudenza e la maturità della caratte­rizzazione. Nei cinquant'anni che seguirono non fu pubblicata nessuna interpreta­zione più centrata di questa, ma anche nessuna che al giorno d'oggi venga tenuta in minor conto. Ciò che Baeumler propone come nuova scoperta, vale a dire il 'sistema' nietzscheano, qui è già chiaramente elaborato e, a dire il vero, senza dover rinun­ciare alla dottrina del ritorno in virtù della quale soltanto la filosofia di Nietzsche ha un suo centro".

[xxxii][32]F. Kögel, curatore della seconda edizione dei Nietzsche's Werke (la cosiddetta Großoktavausgabe, o GOA, stampata da Naumann, Leipzig, 1894-1913), aveva pubblicato nel volume XII (1897) una scelta di frammenti postumi risalenti agli anni 1880 e se­guenti, riunendoli, sistemandoli e identificandoli come il capolavoro filosofico di Nietzsche intitolato Die ewige Wiederkunft des Gleichen. Questo mettere l'accento sul Nietzsche più 'esoterico', aspetto che in questo volume risultava appunto intensificato al massimo,  accanto ad altri problemi di natura filologico-editoriale, costrinse la dire­zione del Nietzsche-Archiv, sotto la guida politico-culturale di Elisabeth Förster-Nietzsche, sorella del filosofo, a ritirare e a sopprimere tutti e quattro i Nachlaßbände (voll. IX-XII) della GOA curati da Kögel. - Sul 'caso' Kögel e le sue implicazioni, cfr. i riferimenti bibliografici contenuti, supra, nel cap. I: Sulla ricostruzione filologico-filosofica del presunto 'capolavoro' postumo di Nietzsche: "Der Wille zur Macht"

[xxxiii][33]Cfr. R. M. Rilke, Sämtliche Werke (1955 ss.), hrsg. vom Rilke-Archiv, Bd. 6, Frankfurt a./M., Insel, 1966, pp. 1163-1177.

[xxxiv][34]Cfr. F. Jesi, Le postille di Rilke a "Die Geburt der Tragödie" di Nietzsche, in Id., Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, Messina-Firenze, D'Anna, 1976, pp. 170-196.

[xxxv][35]Cfr. Fr. Nietzsche, La nascita della tragedia, ovvero Grecità e pessimismo (18862), in OFN, vol. III, 1, pp. 4-15.

[xxxvi][36]Cfr. R. M. Rilke, [Marginalien zu Friedrich Nietzsche "Die Geburt der Tragödie"], in Id., Sämtliche Werke, cit., Bd. 6, p. 1176.

[xxxvii][37]Ibid., p. 1177.

[xxxviii][38]"Rose, oh reiner Widerspruch, Lust,/ Niemandes Schlaft zu sein unter soviel/ Lidern", cfr. R. M. Rilke, Poesie, vol. II (1908-1926), edizione con testo a fronte a cura di G. Baioni, commento di A. Lavagetto, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, pp. 316-317.

[xxxix][39]Cfr. OFN, vol. VII, 3, p. 331, nr. 40 [31] (agosto-settembre 1885).

[xl][40]Cfr. R. M. Rilke, Elegie duinesi (=ED), trad. it. di E. e I. De Portu, Torino, Einaudi, 1978, che riproduce a fronte il testo delle Duineser Elegien contenuto in Id., Sämtliche Werke (=SW), cit., Bd. I, pp. 684-726. Tutte le citazioni si riferiranno a questa versione italiana delle Elegie duinesi. - Per le notizie concernenti la decennale composizione e stratificazione del testo delle Elegie duinesi rinvio agli apparati critici ed informativi contenuti in ED  e in SW, I, e inoltre a quelli presenti in R. M. Rilke, Poesie, vol. II (1908-1926), cit.

[xli][41]ED, I, 2-4 : "und gesetzt selbst, es nähme/ einer [Engel] mich plötzlich ans Herz: ich verginge von seinem/ stärkeren Dasein".

[xlii][42]ED, I, 4-7: "Denn das Schöne ist nichts/ als des Schrecklichen Anfang, den wir noch grade ertragen,/ und wir bewundern es so

[xliii][43]ED, I, 27-28: "Es hob/ sich eine Woge heran im Vergangenen"

[xliv][44]ED, I, 80-85: "Aber Lebendige machen/ alle den Fehler, daß sie zu stark unter­scheiden./ Engel (sagt man) wüßten oft nicht, ob sie unter/ Lebenden gehn oder To­ten. Die ewige Strömung/ reißt durch beide Bereiche alle Alter/ immer mit sich und übertönt sie in beiden".

[xlv][45]ED, II, 1: "Jeder Engel ist schrecklich".

[xlvi][46]ED, II, 7-17: "Träte der Erzengel jetzt, der gefährliche, hinter den Sternen/ eines Schrittes nur nieder und herwärts: hochauf-/schlagend erschlüg uns das ei­gene Herz. Wer seid ihr? Frühe Geglückte, ihr Verwöhnten der Schöpfung,/ Höhen­züge, morgenrötliche Grate/ aller Erschaffung, - Pollen der blühenden Gottheit,/ Gelenke des Lichtes, Gänge, Treppen, Throne,/ Räume aus Wesen, Schilde aus Wonne, Tumulte/ stürmisch entzückten Gefühls und plötzlich, einzeln,/ Spiegel: die die entströmte eigene Schönheit/ wiederschöpfen zurück in das eigene Antlitz".

[xlvii][47]ED, II, 18-36: "Denn wir, wo wir fühlen, verflüchtigen; ach wir/ atmen uns aus und dahin; von Holzglut zu Holzglut/ geben wir schwächern Geruch. Da sagt uns wohl einer:/ ja, du gehst mir ins Blut, dies Zimmer, der Frühling/ fuullt sich mit dir... Was hilfts, er kann uns nicht halten,/ wir schwinden in ihm und um ihn. Und jene, die schön sind,/ o wer hält sie zurück? Unaufhörlich steht Anschein/ auf ihrem Ge­sicht und geht fort. Wie Tau von dem Frühgras/ hebt sich das Unsre von uns, wie die Hitze von einem/ heißen Gericht. O Lächeln, wohin? O Aufschaun:/ neue, warme, entgehende Welle des Herzens -;/ weh mir: wir sinds doch. Schmeckt denn der Weltraum,/ in den wir uns lösen, nach uns? Fangen die Engel/ wirklich nur Ihriges auf, ihnen Entströmtes,/ oder ist manchmal, wie aus Versehen, ein wenig/ unseres Wesens dabei? Sind wir in ihre/ Züge soviel nur gemischt wie das Vage in die Ge­sichter/ schwangerer Frauen? Sie merken es nicht in dem Wirbel/ ihrer Rückher zu sich. (Wie sollten sie's merken.)".

[xlviii][48]ED, II, 44-60: "Liebende, euch, ihr einander Genügten,/ frag ich nach uns. Ihr greift euch. Habt ihr Beweise?/ Seht, mir geschiehts, daß meine Hände einander/ inne werden oder daß mein gebrauchtes/ Gesicht in ihnen sich schont. Das giebt mir ein wenig/ Empfindung. Doch wer wagte darum schon zu sein ?/ Ihr aber, die ihr im Entzücken des anderen/ zunehmt, bis er auch überwältigt/ anfleht: nicht mehr  -; die ihr unter den Händen/ euch reichlicher werdet wie Traubenjahre;/ die ihr manhmal vergeht, nur weil der andre/ ganz überhand nimmt: euch frag ich nach uns. Ich weiß,/ ihr berührt euch so selig weil die Liebkosung verhält,/ weil die Stelle nicht schwindet, die ihr, Zärtliche,/ zudeckt; weil ihr darunter das reine/ Dauern verspürt. So versprecht ihr euch Ewigkeit fast/ von der Umarmung. Und doch, [...] ".

[xlix][49]ED, III, 1-2: "Eines ist, die Geliebte zu singen. Ein anderes, wehe,/ jenen ver­borgenen schuldigen Fluß-Gott des Bluts".

[l][50]ED, III, 4: "dem Herren der Lust".

[li][51]ED, III, 8: "des Bluts Neptun".

[lii][52]ED, III, 6-7: "[...] das Gotthaupt/ aufhob, aufrufend die Nacht zu unendlichem Aufruhr/".

[liii][53]Cfr. ED, III, 11-15.

[liv][54]Cfr. ED, III, 15. 

[lv][55] Cfr. ED, III, 18-22.

[lvi][56]ED, III, 31: "wallendes Chaos".

[lvii][57]Cfr. ED, III, 26-28.

[lviii][58]ED, III, 42-78: "Und er selbst, wie er lag, der Erleichterte, unter/ schläfernden Lidern deiner leichten Gestaltung/ Süße lösend in den gekosteten Vorschlaf -:/ schien  ein Gehüteter... Aber innen : wer wehrte,/ hinderte innen in ihm die Fluten der Herkunft?/ Ach, da war  keine Vorsicht im Schlafenden; schlafend,/ aber träu­mend, aber in Fiebern: wie er sich ein-ließ./ Er, der Neue, Scheuende, wie er ver­strickt war,/ mit des innern Geschehens weiterschlagenden Ranken/ schon zu Mu­stern verschlungen, zu würgendem Wachstum, zu tierhaft/ jagenden Formen. Wie er sich hingab -. Liebte./ Liebte sein Inneres, seines Inneren Wildnis,/ diesen Urwald in ihm, auf dessen stummen Gestürtztsein/ lichtgrün sein Herz stand. Liebte. Verließ es, ging die/ eigenen Wurzeln hinaus in gewaltigen Ursprung,/ wo seine kleine Ge­burt schon überlebt war. Liebend/ stieg er hinab in das ältere Blut, in die Schluchten,/ wo das Furchtbare lag, noch satt von den Vätern. Und jedes/ Schreckli­che kannte ihn, blinzelte, war wie verständigt./ Ja, das Entsetzliche lächelte... Selten/ hast du so zärtlich gelächelt, Mutter. Wie sollte/ er es nicht lieben, da es ihm lächelte. Vor   dir/ hat ers geliebt, denn, da du ihn trugst schon,/ war es im Wasser gelöst, das den Keimenden leicht macht./ Siehe, wir lieben nicht, wie die Blumen, aus einem/ einzigen Jahr; uns steigt, wo wir lieben,/ unvordenklicher Saft in die Arme. O Mäd­chen,/ dies : daß wir liebten in  uns, nicht Eines, ein Künftiges, sondern/ das zahllos Brauende; nicht ein einzelnes Kind,/ sondern die Väter, die wie Trümmer Gebirgs/ uns im Grunde beruhn; sondern das trockene Flußbett/ einstiger Mütter -; sondern die ganze/ lautlose Landschaft unter dem wolkigen oder/ reinen Verhängnis -: dies  kam dir, Mädchen, zuvor./ Und du selber, was weißt du -, du locktest/ Vorzeit empor in dem Liebenden. Welche Gefühle/ wühlten herauf aus entwandelten Wesen. [...]/".

[lix][59]Su questo punto capitale cfr. M. Heidegger, Parmenides , cit., p. 229.

[lx][60]ED, VIII, 1-14: "Mit allen Augen sieht die Kreatur/ das Offene. Nur unsre Au­gen sind/ wie umgekehrt und ganz um sie gestellt/ als Fallen, rings um ihren freien Ausgang./ Was draußen ist , wir wissens aus des Tiers/ Antlitz allein; denn schon das frühe Kind/ wenden wir um und zwingens, daß es ruuckwärts/ Gestaltung sehe, nicht das Offne, das/ im Tiergesicht so tief ist. Frei vom Tod./ Ihn sehen wir allein; das freie Tier/ hat seinen Untergang stets hinter sich/ und vor sich Gott, und wenn es geht, so gehts/ in Ewigkeit, so wie die Brunnen gehen".

[lxi][61]cfr. M. Heidegger, Parmenides  (WS. 1942/43) , cit., p. 229, n. 6.

[lxii][62]Ibid., p. 231.

[lxiii][63]Ibid., p. 232.

[lxiv][64] Ibid.

[lxv][65]Cfr. ibid., p. 232: "Die maßgebende und alles tragende Grundbedeutung des Wortes 'das Offene' ist für Rilke das Grenzenlose, das Unendliche, worin die Le­bewesen sich veratmen und ungehemmt in die unhaufhaltsamen Beziehungen der Wirkungszusammenhänge der Natur sich auflösen, um in diesem Grenzenlosen zu schweben"

[lxvi][66]Ibid., p. 235.

[lxvii][67]Cfr. O. Becker , Mathematische Existenz. Untersuchungen zur Logik und On­tologie methema­tischer Phänomene, in "Jahrbuch für Philosophie und phänomeno­logische Forschung", Bd. VIII (1927), pp. 439-809; ma soprattutto i saggi raccolti in Id., Dasein und Dawesen. Gesammelte philosophische Aufsätze, Pfullingen, Neske, 1963, in particolare pp. 11-40 e 103-126.

[lxviii][68] Cfr. M. Heidegger, Parmenides  (WS. 1942/43), cit., p. 237.

[lxix][69]Ibid.

[lxx][70]Ibid., p. 239.

[lxxi][71]Cfr. R. M. Rilke, Poesie, cit., vol. I (1895-1908), Torino, Einaudi-Gallimard, 1994, p. 491: "Dal va e vieni delle sbarre è stanco/ l'occhio, tanto che nulla più trattiene./ Mille sbarre soltanto ovunque vede/ e nessun mondo dietro mille sbarre.// Molle ritmo di passi che flessuosi e forti/ girano in minima circonferenza,/ è una danza di forze intorno a un centro/ ove stordito un gran volere dorme.// Solo dalle pupille il velo a volte/ s'alza muto -. Un'immagine vi pènetra,/ scorre la quiete tesa delle mem­bra -/ e nel cuore si smorza" (trad. it. di G. Cacciapaglia).

[lxxii][72]Cfr. R. M. Rilke, Lettere da Muzot (1921-1926), a cura di M. Doriguzzi e L. Tra­verso, Milano, Cederna, 1947, p. 354.

[lxxiii][73]Cfr. R. M. Rilke, Poesie, cit., vol. I (1895-1908), p. 490.

[lxxiv][74]Cfr., supra, n. 67.

[lxxv][75]Cfr. Fr. Nietzsche, Ecce homo. Wie man wird, was man ist, in KSA, Bd. 6, p. 264.

[lxxvi][76]Cfr. Id., Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, trad. it. di R. Calasso, in OFN, VI, 3, p. 271.

 

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