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Intervista a Philip Glass

di Antonio Della Marina

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L'intervista che segue è stata raccolta nei giorni 19 e 20 novembre 1999, in occasione del Festival dei quattro pianoforti, svoltosi a Roma presso il Palazzo delle Esposizioni.

Nonostante i doverosi sospetti nei riguardi delle etichette e delle classificazioni della critica resta difficile avvicinare Philip Glass senza portare il discorso sul tema del minimalismo. L'intento era quello di indagare su ciò che questo movimento d'avanguardia, sostenuto con vigore da lui e da pochi altri musicisti durante gli anni sessanta e settanta, ha lasciato in eredità allo stile del compositore americano, di individuare una certa continuità stilistica attraverso l'analisi di composizioni di opere più recenti.

Philip Glass si è rivelato tanto disponibile alle domande quanto risoluto nel rifiutare il mio punto di vista, preferendo spostare l'accento dal concetto di continuità di uno stile, a quello di novità che ogni fase creativa porta con sè. In altre parole, il compositore non riesce a celare una certa insofferenza di fronte all'atteggiamento di chi si ostina a confinare la sua musica all'interno di una poetica vecchia di trent'anni, e chiarisce ancora una volta un punto importante: il suo congedo dal minimalismo è avvenuto nel 1974. Alle quattro ore e mezza di Music in Twelve Parts è affidato il ruolo di summa delle idee sviluppate sino a quel momento attorno alla musica. Da allora lo stile di Glass è andato via via arricchendosi di elementi nuovi, elementi estranei al minimalismo, ma non meno importanti. In questa intervista Glass ne mette in luce gli aspetti principali, vi aggiunge alcune considerazioni sulla musica contemporanea, sulla metodologia di lavoro, sull'evoluzione del gusto, offrendo così interessanti spunti di riflessione, e non solo agli appassionati di musica.

 * * *

Antonio Della Marina: In un'intervista hai dichiarato di aver scritto il tuo ultimo pezzo di musica minimale nel 1974...

Philip Glass: Si, penso si tratti di Music in Twelve parts.

A.D.M.: Eppure a me sembra che in Koyaanisqatsi ci siano molti elementi dal sapore minimalista, quasi dei monumenti, degli omaggi a quella cultura.  Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Vorrei sottolineare questo: quando il fulcro centrale, il soggetto della musica, si è spostato dal linguaggio della musica verso qualcosa d'esterno ad essa, come ad esempio le immagini, o un testo, o il movimento, non è stato più possibile parlare di un'estetica riduttiva. Questo perché stiamo parlando di utilizzare la musica in un contesto teatrale, e io non penso al periodo minimalista come ad un periodo di musica rappresentativa. Si trattava di musica basata sulla struttura, ove l'elemento principale, il contenuto della musica, coincideva con la struttura. Il processo era la struttura della musica, ne era il contenuto. Prendi ad esempio Music in Fifths, o Music in Similar Motion; se pensi a questi lavori capisci che la loro struttura ha a che fare con il processo, e che questo ne è l'unico soggetto. Da quel momento in poi, io mi sono allontanato da un tale punto di vista, inserendo elementi come il testo, o il movimento, o l'immagine; ecco allora che stiamo già parlando di una musica che si rapporta a se stessa in maniera diversa.

A.D.M.: Come posso chiamarla? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Vuoi sapere qual è il suo vero nome? È theatre music, ecco cos'è. Con theatre music io intendo una musica dove il punto di partenza non è il linguaggio della musica, ma un soggetto che è esterno ad essa. Questa è l'idea di base. Approssimativamente io ho realizzato le musiche per quindici opere, venti rappresentazioni teatrali, venti balletti, diversi film; con theatre music intendo proprio questo genere di lavori. Theatre music è un termine generico, il cinema è una forma di teatro, chiaramente i balletti sono una forma di teatro, così come lo sono tutti i tipi di rappresentazione. Dal punto di vista del compositore, direi che l'ispirazione che mi guida in un lavoro di questo tipo non è un dialogo interno al linguaggio musicale, ma un fattore esterno alla musica, e che si presenta come il punto di partenza del lavoro. Nel caso di un film potrebbe essere il copione, o le immagini. Diciamo che quando parlo di minimalismo, più dettagliatamente mi riferisco ad una strategia di lavoro, ad una tecnica di lavoro, non mi riferisco ad uno stile, o ad un linguaggio armonico, che non sono poi così importanti, perché io posso cambiare. Ecco perché penso assolutamente di aver scritto l'ultimo pezzo minimale nel '74.

A.D.M.: Eppure nei film di Reggio si vedono palazzi che sembrano sculture uscite dalle mani di Sol Le Witt, e lo stato di coscienza che si prova nella visione di certe sequenze non sembra essere molto lontano dagli elementi della cultura minimalista. Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Bèh, può essere. Tu puoi darne una tua definizione personale. A me in realtà non interessa come tu lo chiami, ma come lo chiamo io. Forse è una buona idea, ma non è la mia idea. Se siamo o non siamo d'accordo non è importante, tu puoi confrontarti con le mie idee, le puoi interpretare, puoi non essere d'accordo, non è importante.

A.D.M.: Perché non sei orgoglioso di essere un compositore minimalista? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Per me è irrilevante. Pensa che io ho lavorato seguendo quello stile per dieci anni, e non lo rinnego, ma l'ho utilizzato a sufficienza. Dopo il mio periodo minimalista ho scritto Einstein on the Beach, Satyagraha, Akhnaten, Koyaanisqatsi, Powaqqatsi, Anima Mundi, i balletti per Jerry Robbins, i balletti per Twyla Tharp, per Lucinda Childs, tutti i brani teatrali per i Mabou Mines, ecc... In tutta questa mole di lavoro ci sono alcuni pezzi scritti in maniera diversa; cinque o sei quartetti d'archi, tre o quattro concerti, cinque sinfonie, in tutto una quindicina di pezzi. Ricorda che io scrivo molta musica, e che quindici pezzi non sono poi tanti. Suono ancora alcuni di quei brani con l'ensemble, ma non lavoro, né penso più in quel modo. Mantengo in scaletta ad esempio Music in Similar Motion; e questa sera eseguirò Mad Rush, un brano scritto vent'anni fa molto simile per scrittura allo stile dei primi lavori. Il mio repertorio è davvero molto vasto, è molto differenziato, spesso suono anche un pezzo che risale al '67 assieme ad una serie di brani che coprono la produzione dei trent'anni seguenti. C'è un gruppo di Roma che si chiama Alter Ego che suona la musica del mio primo periodo, li ho incontrati ieri e li ho incoraggiati, io stesso sostengo e promuovo quel tipo di musica, ritengo che abbia pure una sua collocazione, un certo valore, se posso dirlo. Ma se sei un compositore e vivi abbastanza a lungo, puoi passare attraverso stili e periodi molto diversi; quel che puoi fare oggi che hai trent'anni sarà sicuramente diverso da ciò che produrrai quando ne avrai cinquanta.

A.D.M.: Hai trascorso anni importanti a New York, durante un periodo carico di energie e di idee, una città in fermento. Oggi cos'è cambiato? Esiste ancora un centro culturale così vitale? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Oggi c'è un forte movimento di giovani compositori, le cui inclinazioni sono molto diverse da quelle della mia generazione. Essi non hanno lo stesso conflitto ideologico che toccò a noi, non devono combattere per i valori del linguaggio. Quando noi eravamo giovani dovevamo fronteggiare la forte chiusura mentale dell'ambiente accademico allora dominante. I giovani compositori non hanno questo genere di problema, ma ne hanno un altro, che è quello di trovare da soli un proprio linguaggio, un linguaggio autentico. L'impatto di un certo tipo di tecnologia, la possibilità di attingere da aree molto differenziate, come la world music (quella indiana, quella africana, ecc.), o la musica popolare; tutti questi elementi esercitano una forte influenza nella cultura di oggi. Molti compositori oggi provengono dalle rock bands. Inoltre c'è la tradizione della musica sperimentale, che io rappresento. In definitiva oggi c'è una vastissima scelta, una enorme fonte di ispirazione per la propria musica, ed io non credo che sia semplice venirne fuori. In un certo senso per me fu più facile, perché sapevo esattamente cosa fare. Era facile da capire, dal momento che in quegli anni tutti i compositori erano allineati e compatti in difesa di un unico stile. Conosci quel gioco cinese, Go, dove a turno si mettono le pedine sulla scacchiera? Bèh, potrei dire che erano dei pessimi giocatori di Go, perché giocavano tutti solo in un angolo, era piuttosto stupido. Oggi la cosa interessante è che io non ho idea di cosa faccia un compositore fino a che non lo ho ascoltato. Trenta anni fa, se dicevi di essere un compositore, io potevo decisamente farmi un'idea di quel che avrei potuto ascoltare ad un tuo concerto. Oggi non lo so, il campo delle possibilità è vastissimo.

A.D.M.: Esiste ancora oggi la musica sperimentale? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Il fatto è che oggi non esiste una sola forma di musica sperimentale, perché l'approvazione di uno stile non è più circoscrivibile entro ambiti precisi. Nel passato questa era nelle mani di una manciata di compositori che approvavano o disapprovavano, ora una tale autorità non è più così chiara e determinata. Per questo motivo credo anche che non possa esistere uno stile convalidato.

A.D.M.: L'avvento della tecnologia ha impresso prepotentemente l'uso della ripetizione nella musica tekno. Che differenza c'è tra questo utilizzo della ripetizione e quello presente nella musica minimale? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Non penso che la ripetizione sia una componente essenziale della tekno music. Quest'ultima, per essere legata alla musica popolare, mette in evidenza un forte carattere ritmico, niente altro. Per questo appare una sorta di connessione superficiale con certi aspetti modernistici della musica minimalista, ma non penso che questo sia il vero punto di contatto. Le persone che io conosco, coinvolte nell'ambito delle musica tekno, vengono da esperienze molto diverse. Quasi nessuno di loro ha una preparazione da conservatorio, non hanno la minima idea di cosa sia un grado armonico, e la maggior parte non sa assolutamente leggere la musica. Non sto facendo una critica, io stesso lavoro con persone così. È possibile lavorare con chi non legge la musica, bisogna solo farlo diversamente; alcuni di loro hanno un grande talento. Direi semplicemente che la musica tekno si ascolta in ambienti molto diversi da quelli in cui si muovono gli artisti provenienti dal minimalismo. Le persone che sono qui stasera, ad esempio, non hanno mai fatto musica commerciale, e questo li distingue molto. D'altro canto persone come Brian Eno, che conosco da molto tempo, hanno portato un'ondata di novità e di freschezza in termini di concettualizzazione della musica che apprezzo molto. Brian Eno viene da una scuola d'arte, e non da una scuola di musica. Direi quindi che la connessione tra la tekno music e la musica sperimentale non è molto chiara, per molteplici ragioni, economiche e d'impatto sociale. Da questo punto di vista la nostra capacità di lavorare assieme è quasi una sorta di casualità accidentale. Non sono molto soddisfatto di questa risposta, la questione è interessante, ma penso di non essere in grado di risolverla facilmente.

A.D.M.: Cambiamo argomento. A che punto è la lavorazione di Naqoyqatsy? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Non abbiamo ancora cominciato, perché Godfrey non è riuscito a reperire i fondi necessari. Ci sta provando da dieci anni, ciò è molto strano, dato che i suoi film non sono stati dimenticati. Io suono costantemente le loro musiche con la mia compagnia (dal vivo, sulle immagini in tempo reale, n.d.r.), eppure in qualche modo questi film non riescono ad allettare i produttori. Attualmente abbiamo un soggetto, Godfrey ha iniziato a girare alcune riprese, e abbiamo un progetto per quanto riguarda le musiche, ma non possiamo cominciare a lavorare perché non ci sono soldi a disposizione.

A.D.M.: Sarà molto diverso dai precedenti? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Ci saranno notevoli differenze, soprattutto per il fatto che sono passati quasi dieci anni dal film precedente. Noi stessi siamo piuttosto cambiati, e questo influirà senza dubbio sulla produzione.

A.D.M.: Ho letto in una tua intervista[i] che durante la lavorazione di Koyaanisqatsi, Godfrey Reggio ti metteva a disposizione una serie di libri ed articoli, così che tu potessi meglio comprenderne l'idea di fondo. Potresti indicarmi alcune di queste pubblicazioni? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Devo dire di non aver tenuto in gran considerazione queste letture per la realizzazione della colonna sonora. Per quanto riguarda Godfrey, devo separare la figura del regista da quella dell'intellettuale, perché spesso non sono la stessa cosa. Godfrey è un eccellente parlatore, sa esporre e divulgare le proprie idee molto bene. Qualche volta però i suoi film vanno in un'altra direzione. Penso anche che i suoi film sappiano comunicare il loro messaggio meglio di quanto possa fare lo stesso regista. Godfrey ha un'enorme quantità di libri, che io ho letto o ho tentato di leggere, è una fonte inesauribile di idee, tutte piuttosto intellettuali, ma i suoi film sembrano operare diversamente. Sono molto efficaci anche a livello popolare, non per le idee in essi contenute, ma perché il pubblico può sintonizzarsi molto velocemente con la loro portata emozionale. Grazie alla musica e alle immagini i film sembrano convogliare in modo diretto concetti che le parole non sono in grado di cogliere efficacemente. Mi sono accorto subito che le idee guida del film non ne erano la spiegazione migliore. Godfrey potrebbe parlarne a lungo ed approfonditamente, ma io ho ritenuto che non sarebbe stato molto utile per me, come compositore, dare ascolto a quelle idee, così ho cominciato semplicemente a lavorare seguendo le mie inclinazioni. Ho guardato le immagini da solo e ho cominciato a scrivere le musiche avvicinandomi intuitivamente al materiale. Le spiegazioni erano certo meno persuasive delle immagini. Da un altro punto di vista, Godfrey ed io siamo persone della stessa generazione, siamo cresciuti nello stesso periodo, abbiamo condiviso le stesse esperienze sociali, come la guerra del Vietnam, o la beat generation. Era quindi abbastanza facile per me calarmi nel lavoro che lui aveva in mente.

A.D.M.: Lo scienziato James Lovelock, nel 1969, ha formulato la cosiddetta ipotesi Gaia. Secondo questa teoria, la terra è un unico enorme organismo vivente, una matrice che si auto-regola biologicamente. C'è quest'idea nei film di Reggio? Ascolta risposta Risposta

Ph.G.: Godfrey non ha mai parlato espressamente di Gaia. Ha citato spesso gli Hopi, e gli indiani indigeni del Messico e Guatemala, i Toltechi, i Maya, i pre-Maya, tutte le culture vissute nell'America centrale fino al quindicesimo secolo. Quest'idea, della terra come una matrice, è certo molto interessante, che viene fuori anche nel Dalaismo, e nelle tradizioni sciamaniche della Siberia e del Messico. In questi paesi hanno un'idea molto chiara della Terra e del suo essere madre e matrice della realtà in cui viviamo. È un'idea molto antica. Godfrey si è basato soprattutto sui testi indiani, sulle profezie Hopi, e sul loro modo di pensare alla Terra. La terra è un organismo vivente, se guardi in fondo a Koyaanisqatsi lo puoi vedere, ma non penso che l'idea nasca dalle teorie di Lovelock, ma più direttamente dalle culture indigene del centro-America.

A.D.M.: Forse il processo inverso ha fatto sì che le teorie scientifiche venissero influenzate dalle culture antiche. Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Certo è che si tratta di una concezione di molto anteriore. Si pensa che abbia origine dalla Siberia, anche se non si è certi. Ha inoltre forti connessioni con il Taoismo, con la Cina. Se questa idea è fortemente presente in Koyaanisqatsi, però, credo che ciò sia dovuto semplicemente alle influenze che le culture del centro-America hanno esercitato su Godfrey, nato e cresciuto in quella parte del sud-ovest. Forse noi abbiamo bisogno di un'affermazione scientifica, ma se ci si pensa bene, si vedrà che non è affatto un'idea nuova. Nelle culture del centro America, ripeto, questo concetto è presente in maniera molto forte, così come nello sciamanismo.

A.D.M.: Ho capito che non ami parlare di minimalismo. Vorresti dirmi qualcosa sugli sviluppi che nel tuo caso sono nati da quell'esperienza? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: I risultati, gli sbocchi, nel linguaggio musicale, che si sono sviluppati dopo quel periodo, per me hanno avuto a che fare con una sorta di ricerca nell'ambito della polimodalità e la politonalità. Gli aspetti più forti del minimalismo sono una struttura ripetitiva, una tonalità stabile e una pulsazione costante. Questi sono i tre elementi sempre presenti in quel tipo di musica. Per me era abbastanza per cominciare ad intraprendere una nuova strada. In quel periodo stavo realizzando Music in twelve Parts, analizzando quel brano si può identificare molto chiaramente come ho gradualmente sviluppato ed esaurito tali idee. Dopo quel lavoro la mia musica è riapprodata all'armonia funzionale. Ho cercato di applicare la teoria funzionale ad un tessuto musicale di tipo post-minimalista. La risposta a questo tipo di ricerca è in Einstein on the Beach. L'idea di far funzionare assieme l'armonia funzionale con la struttura ripetitiva è stata la base di lavoro per Einstein on the Beach, e si è esaurita con Satyagraha. Dal 1980 non ho più proseguito su quella strada, poiché nuovi obbiettivi, nuove idee cominciavano ad emergere. La questione della tonalità è infatti diventata per me in quegli anni un elemento autonomo, con i propri diritti, indipendente dalla struttura armonica. Lo sviluppo di una struttura armonica è diventata una sorta di base, di sottotesto. Se si parlasse di un dipinto essa costituirebbe lo sfondo, non il soggetto; essa costituiva una sorta di struttura per la musica, ma non ne era più l'elemento centrale. Il problema delle relazioni tonali era diventato il soggetto della musica, e questo è un punto veramente interessante di questi tempi. Oggi infatti riemerge come già era successo alla fine dell'ottocento, ma in maniera diversa. Nel sistema attuale infatti non c'è più un'esatta gerarchia delle relazioni tonali all'interno di una chiave. In altre parole: 1°- 6°- 4°- 5°- 2°- 1°, oggi qualsiasi combinazione di gradi è stata fatta; tutto quell'archivio di relazioni si è esaurito, semplicemente non è più una strategia di lavoro.

A.D.M.: Hai parlato spesso di una strategia di lavoro, di elementi come la struttura, o l'armonia; perché non fai mai riferimento alla componente emozionale delle tue musiche? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Non ne parlo quasi mai, di solito lascio queste considerazioni al pubblico. Dal mio punto di vista non è l'approccio giusto. La questione, la ricerca, per me, riguarda le relazioni possibili all'interno di una tonalità, in questo modo alcune idee sono emerse. Una di queste è l'abitudine ad indagare all'interno della politonalità, ma in maniera diversa da come era stato fatto durante gli anni trenta e quaranta, quando si usavano chiavi diverse contemporaneamente. Quando una musica appare scritta in re bemolle se vista da un lato e in mi bemolle se osservata dall'altro, diventa un problema percettivo. Non è stato più possibile stabilire la tonalità di un simile brano, non perché fosse in due tonalità, ma perché non può esistere un brano in due tonalità. Bisogna scegliere, quando decidi per una chiave, neghi necessariamente la seconda. Ecco che allora la politonalità diviene un problema in termini di percezione.

A.D.M.: Hai un'idea sul perché la tua musica sia così adatta all'esperienza visiva? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Ci sono due risposte a questo. In primo luogo perché molti dei miei lavori sono ispirati direttamente dalla proposta visiva, come le immagini e il movimento nei film. Prima di iniziare a lavorare guardo sempre il materiale e gli elementi da cui trarre delle idee. Secondariamente la cultura attuale enfatizza molto il linguaggio visivo. Potremmo dire che siamo nell'epoca del linguaggio visivo. Molte persone hanno sviluppato in questo campo una sorta di intelligenza che applicano poi ad ogni cosa. Così, naturalmente, l'immagine diventa una parte della musica, e la completa adattandosi ad essa. L'attitudine dell'ascoltatore proviene in effetti dall'esperienza visiva, che è parte integrante importante della musica. Penso che ci sia anche una terza ragione: specialmente nel teatro e nel cinema, le immagini hanno come una sorta di neutralità, possono essere catturate facilmente dalla musica. Grazie ad essa le condizioni emozionali effettive delle immagini vengono magicamente accentuate. Infatti, se guardiamo un film senza sonoro, ci sembra che questo perda una componente notevole di impatto emotivo, sembra meno emozionante. Le cose ordinarie, grazie alla musica, sembrano caricarsi di un certo tipo di emozione, e penso che oggi siamo abituati a questo. La musica può in qualche modo giocare con le immagini.

A.D.M.: Nella tua musica il tempo gioca un ruolo importante. Espedienti come il processo additivo, o le strutture cicliche, sembrano quasi disorientare la normale percezione temporale. Cosa puoi dirmi al riguardo? Ascolta risposta Risposta

Ph. G.: Ci sono differenti tipi di tempo. Il tempo del quotidiano, che potremmo chiamare tempo consensuale. Ad esempio, quando ti do un appuntamento all'una del pomeriggio, so che tu a quell'ora sarai in quel determinato luogo. Certo poi dipende dalla cultura, dal luogo, dalle persone, ma c'è in questo caso una sorta di accordo, di tempo ordinario, come dicevo un tempo consensuale, un'intesa di ciò che è il tempo. Poi ci sono svariati altri tipi di tempo. C'è il tempo della memoria. La memoria nel senso di storia personale, ma anche in termini di memoria culturale. Ognuna di queste ha il suo tempo specifico. Ad esempio, se penso alla storia di Roma, o quando cammino per le sue strade, posso facilmente guardandomi attorno, percepire questo tipo di tempo, o risalire con la memoria agli ultimi duecentocinquanta, trecento anni. Poi c'è anche un altro tempo, quello del futuro, la sensazione di ciò che immaginiamo che accada. Poi, giusto per confonderci ancora un po' le idee, si può parlare delle esperienze soggettive. Quando il tempo è lento, quando è veloce; se aspetti un amico, di sera, il tempo può scorrere molto lentamente, così come quando lo incontri, esso può passare molto in fretta, e così via. Penso che non esista una percezione unica del tempo, ma che ce ne siano molte, e noi siamo diventati molto abili nel passare facilmente da un livello all'altro. Lo facciamo automaticamente, quasi senza pensare. Ad esempio, se si assiste ad un'opera su Gandhi, che dura tre ore, ma copre un periodo storico di vent'anni, per noi è facile calarsi in questo tipo di rapporto dimensionale. In aggiunta, ci possono essere parti dell'opera che sembrano scorrere molto velocemente, ed altre lentamente, senza per questo costituire un problema a livello della comprensione della trama. Il mio modo di lavorare con il tempo nella musica è molto accurato. Quando compongo un pezzo di musica so esattamente quanto dura e quanto tempo trascorre tra una sezione e l'altra. Ad ogni bordo pagina, infatti, faccio una notazione su come è organizzato il tempo, sia nei confronti del metronomo, sia in rapporto al tempo cronometrico. Questo mi aiuta nell'organizzazione di una strategia. Prendi ad esempio anche il brano suonato da Terry Riley questa sera[ii]. Era un brano organizzato in quattro parti, con uno stacco netto tra la seconda e la terza. Sono sicuro che Terry avesse un'idea molto chiara del tempo durante l'esecuzione, anche se suonava seguendo l'ispirazione, anche se c'erano lunghe parti di improvvisazione ipnotica, se glielo chiedi te lo confermerà. Prima della serata, infatti, mi aveva detto che avrebbe suonato per circa un'ora e mezza. Alla fine del brano era passata un'ora e ventisei minuti, e questo senza che potesse tenere sott'occhio un orologio. La cosa interessante della musica è dunque che in essa possono mescolarsi il tempo storico, quello convenzionale, quello cronometrico, quello emozionale, e così via. Per noi compositori e musicisti è anche interessante il fatto di come siamo mano a mano diventati abili a maneggiare la nostra consapevolezza del tempo. Saperlo controllare, mescolarlo, in questo rapporto giocoso risiede una buona parte dell'esperienza di compositore.

 

 

[i] L'intervista a cui mi riferisco è in Philip Glass returns to Koyaanisqatsi, di Lozaw T., "The Boston Phoenix", 7-14 gen. 1999, p.21.

[ii] The Dream, per piano solo, eseguito in prima mondiale.

 

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