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"Sei storie per Bologna" di Peter Greenaway:
concerto di immagini, parole e suoni"

Elisabetta Zoni

INTRODUZIONE

Una storia di Bologna

Scrittura e architettura. L'architettura di Bologna come "libro" su cui vergare la storia della città, illustrata e commentata da immagini e suoni: è l'idea alla base di Sei storie per Bologna, l'installazione multimediale del regista e artista visivo britannico Peter Greenaway inaugurata il 30 Luglio 2002 sotto il Voltone del Palazzo del Podestà. Alle torri e ai portici di Bologna, Greenaway si era ispirato già nel 2000, per il grandioso "light event" Bologna Towers che, per otto giorni nel mese di Giugno, illuminò e ridisegnò le quattro facciate di Piazza Maggiore con una fantasmagoria di immagini, colori, luci e suoni. Nel 2002 Greenaway ha scelto di rielaborare e integrare il materiale utilizzato per Bologna Towers e di trasferire la sua storia di Bologna, ora suddivisa in sei brani (sei storie) sotto il Voltone del Palazzo del Podestà, la cui facciata, in occasione dello spettacolo del 2000, era stata una delle quattro "pagine" del libro animato.

Questa volta l'evento, che attira ogni sera un numeroso pubblico, non è durato pochi giorni ma si protrae da circa un anno. Tutti i giorni, dopo il tramonto, al passaggio del visitatore i proiettori e gli altoparlanti nascosti nel Voltone e dotati di sensori si attivano, proiettando sulle pareti un video di circa venti minuti, ripetuto fino a mezzanotte circa. Una voce elenca le date e gli eventi principali della storia di Bologna e d'Italia, alternate a 21 brevi aneddoti concepiti da Peter Greenaway e ambientati nel passato, che hanno per protagonisti altrettanti bizzarri costruttori di torri andate perdute. Mentre la voce pronuncia le date e racconta le storie, un grande pennino guidato dalla mano del calligrafo Brody Neuenschwander (che già collaborò con il regista nei due lungometraggi L'ultima tempesta e I racconti del cuscino) scrive incessantemente gli stessi testi con inchiostri multicolori e in stili calligrafici diversi secondo le epoche storiche; la scrittura è catturata nell'atto della sua creazione, in tutte le sue possibili varianti: il cambio del colore dell'inchiostro e dello stile calligrafico, il diverso spessore del tratto, la velocità di scrittura, la sicurezza o l'incertezza della mano che scrive, il ritmo fluido oppure spezzato, sono tutti indicatori di stati emotivi o di contenuti legati alla narrazione. Le scritte si moltiplicano e si intrecciano nel campo visivo, e alla scrittura si aggiungono, quasi sempre sovrapposte, immagini grafiche, fotografie e brevi spezzoni di filmati (documentari o film) tratti dall'archivio della cineteca di Bologna: l'artista ci gioca, li ingrandisce e li moltiplica, inserendoli in cornici all'interno di altre cornici, facendone un collage, talvolta un'immagine ibrida, a metà strada fra filmato e disegno. Scrittura e immagini non sono statiche, ma vanno e vengono, entrano ed escono di scena, muovendosi più o meno velocemente in orizzontale e in verticale, dal basso all'alto, da destra a sinistra e viceversa, seguendo le linee dell'architettura entro cui sono proiettate. L'architettura, a sua volta, non è una semplice cornice: spesso viene inglobata nello spazio della rappresentazione e finestre, archi e pilastri si trasformano in elementi di un quadro figurativo. Infine, la colonna sonora, un mélange di voci narranti, suoni d'ambiente e frammenti di musica classica e contemporanea, è costruita secondo lo stesso principio delle immagini e della scrittura (ripetizione e sovrapposizione) e scandisce, commenta e arricchisce i momenti della narrazione.

L'ambiente architettonico

Le scenografie di Greenaway, per quanto effimere, sono in grado di trasfigurare l'aspetto dello spazio architettonico in cui sono inserite. L'installazione non occupa il vero e proprio Voltone, ma la parte superiore delle pareti a destra e a sinistra del Voltone e il corridoio retrostante. La "galleria multimediale" è quindi formata da tre ambienti e sei facciate, ognuna occupata da un affresco in movimento simile agli altri cinque ma contenente immagini e scritte diverse. Greenaway ha scelto di collocare la sua installazione in questo complesso architettonico per almeno due ragioni: la prima è il suo significato storico e simbolico come "cuore della città": il Salone del Palazzo del Podestà è decorato con affreschi che raffigurano gli episodi storici e le glorie della Bologna antica, romana e medievale, mentre il Palazzo del Capitano del Popolo e la Torre dell'Arengo (la cui campana, nel medioevo, chiamava a raccolta i cittadini in occasione di avvenimenti di pubblico interesse), insieme al Palazzo Re Enzo (simbolo della vittoria dei comuni medievali sull'imperatore Federico Secondo) sono strettamente legati all'identità cittadina. Greenaway sceglie di scrivere la storia di Bologna sugli edifici che ne hanno fatto la storia. La seconda ragione che ha indotto l'artista britannico a scegliere questi spazi è la passione per le torri e i portici bolognesi; questi ultimi lo riportano alla sua passione per l'eterno topos del labirinto: nel corso dello spettacolo vengono proiettate numerose mappe e piante della città vista dall'alto, che mostrano il dedalo di vie e viuzze del centro storico.

Il progetto

Uno dei più importanti cineasti d'avanguardia e artista di formazione pittorica, Greenaway ha abituato il pubblico dei suoi cortometraggi e lungometraggi (The Falls, 1980; I misteri del giardino di Compton House, 1982; Lo zoo di Venere, 1986; Il ventre dell'architetto, 1987; Giochi nell'acqua, 1988; Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, 1989; L'ultima tempesta, 1991; The Baby of Mâcon, 1993; I racconti del cuscino, 1996; Otto donne e mezzo, 1999) alla fusione fra tecniche cinematografiche ed elementi propri di altri media, prima fra tutte la pittura. Le sue opere cinematografiche, come quelle pittoriche, si distinguono per alcuni tratti stilistici peculiari: l'uso del colore e della composizione pittorica come veicoli espressivi; l'abbondanza di allusioni e riferimenti incrociati sia intertestuali sia interni al testo, in netto contrasto con l'esperienza sequenziale del cinema naturalistico; la "messa in scena" dei problemi teorici della rappresentazione e della rappresentabilità; l'artificio, che si esprime attraverso sofisticate tecniche video (sovrimpressione, schermi multipli, cornici "a fregio", ecc.). Amy Lawrence, nel suo recente saggio sui film di Greenaway, ha riassunto la poetica formalista e strutturalista di Greenaway definendolo autore dotato di una profonda autoconsapevolezza, che "crea arte utilizzando idee sull'arte" (1997, 5).

Il progetto per Sei Storie ha origine nel 1994 a Roma, in Piazza del Popolo. Qui Greenaway tenta il suo primo "light event" multimediale ambientale, la Cosmologia, che si avvale di un sistema di illuminazione cinematografico-teatrale tradizionale. Nasce l'idea di creare un "evento luminoso" simile anche a Bologna, "portando il cinema fuori dal cinema"[1], fuori, cioè, dallo spazio artificiale delle sale cinematografiche per sfruttare lo spazio reale dell'architettura urbana. Questo progetto ha partorito, nel 2000, l'evento multimediale Bologna Towers che, oltre al sistema di illuminazione tradizionale, utilizzava un sofisticato meccanismo di proiezione delle diapositive unito al video. La base per Sei Storie resta il materiale visivo e soprattutto sonoro di Bologna Towers, ma con un diverso editing e numerose modifiche e arricchimenti; mentre lo spettacolo del 2000 era un grandioso "light event", Sei Storie è una galleria in cui la luce resta un elemento chiave, così come i colori, che mantengono il loro ruolo dominante; ma questa volta Greenaway si concentra maggiormente sulle immagini (sono stati aggiunti diversi nuovi disegni) e soprattutto sul contrasto, che spesso si fa scontro, fra parola e immagine, un nodo tematico-strutturale che caratterizza soprattutto l'ultima produzione artistica del regista britannico. La sua affermazione, più volte ribadita, secondo cui non solo il cinema sarebbe morto, ma in realtà non sarebbe mai esistito, mira, al di là dell'effetto provocatorio, ad attirare l'attenzione sul predominio incontrastato della parola e del testo che attraversa tutta la storia del cinema e che perdura tuttora: "ciò che abbiamo visto finora non è cinema, ma un secolo di testo illustrato"[2], commenta Greenaway, un testo in cui l'immagine è puramente funzionale alla narrazione, la quale a sua volta risente del vieto modello del romanzo tardo-ottocentesco.

Greenaway, al contrario, sostiene che il cinema dovrebbe fondarsi sull'immagine e non sul testo. Negli ultimi film e nei suoi recenti progetti multimediali, si prefigge di evidenziare la natura fondamentalmente eterogenea di immagine e testo e la contraddizione parola-immagine: "A Bologna cerco di mostrare che testo e immagine sono mezzi di comunicazione concorrenti"[3]. E' questo uno dei motivi della presenza, nell'opera, di immagini apparentemente incoerenti con gli eventi e le storie narrate dalla voce fuori campo (ad esempio, mentre la voce annuncia la fondazione del Regno d'Italia nel 1861, vediamo il filmato a rallentatore di un atleta che compie una capriola); alcuni eventi, poi, sono raccontati solo dalle immagini e non trovano riscontro nel testo parlato: la presenza di Rossini a Bologna è segnalata non dal testo ma dal ritratto di Rossini e dal suo nome moltiplicati fino a occupare l'intero spazio dello schermo, oltre che dalla musica in sottofondo; la liberazione di Bologna da parte degli alleati nel 1945 è raccontata attraverso un filmato, ma la voce narrante non ne parla. A questa "ribellione dell'immagine", che programmaticamente si rifiuta di illustrare servilmente il testo, si affianca la funzione, da sempre presente in Greenaway, dell'immagine come icona enigmatica da decifrare, come geroglifico la cui infinita interpretazione schiude sempre nuove possibilità di senso; da sempre Greenaway lamenta la "disabitudine" del pubblico a interpretare l'immagine e la mancanza di un'adeguata formazione culturale in questo senso. "Il cinema dev'essere difficile"[4]; non deve essere capito alla prima visione, anzi, non deve mai essere compreso completamente, poiché una piena comprensione ne esaurirebbe il potenziale semantico e simbolico.

Un testo polifonico

Greenaway ama citare la celebre frase di Derrida: "l'image a toujours le dernier mot sur le texte"[5]. Tuttavia, in Sei Storie per Bologna, ad avere l'ultima parola forse non sono né l'immagine né la parola, ma la musica. Nonostante l'apparente semplicità dell'impostazione, il sistema semiotico dell'opera risulta incredibilmente complesso e labirintico, come in un disegno di Escher o un gioco di ars combinatoria barocca: linguaggi (nel senso lotmaniano di codici comunicativi) straordinariamente complessi e in continua interazione; il principio dell'ambiguità e della polisemia elevato a sistema e la natura stessa dei meccanismi strutturali che regolano la composizione suggeriscono una lettura metaforica di Sei Storie come concerto, nel senso etimologico di unione, dialogo o competizione di voci eterogenee[6]. L'idea di concerto polifonico applicata all'opera di Greenaway è quindi metafora della comunicazione multimediale e dell'organizzazione semiotica di un testo complesso. Ma non solo. L'installazione produce nello spettatore l'effetto di un vero e proprio concerto, fatto di suoni ma soprattutto d'immagini e di parole: nel meccanismo generativo dell'opera è, infatti, ravvisabile una struttura assai vicina a quella della musica polifonica e del contrappunto.

L'installazione architettonica di Greenaway appare dunque il terreno ideale per l'indagine semiotica, in particolare per un'applicazione delle categorie strutturaliste di Jurij Lotman, da sempre interessato allo spazio semiotico come interazione fra due o più segni appartenenti a linguaggi eterogenei e alla cultura come immensa rete testuale. Lo strutturalismo (e, più di recente, anche il decostruzionismo) è una delle componenti fondamentali della poetica di Greenaway e il suo influsso è facilmente ravvisabile nelle opere cinematografiche e visive dell'artista britannico. Lotman, come Greenaway, parte dall'"ineluttabilità del fatto che lo spazio della realtà non possa essere abbracciato da nessuna lingua separatamente, ma soltanto dal loro insieme" (1998: 10). Nella Semiotica del cinema, Lotman parla quindi del cinema come di testo "polifonico", corale; anche nelle altre sue opere è frequente l'impiego di metafore musicali quali contrappunto e polifonia, soprattutto con riferimento alla struttura del testo cinematografico.

SEMIOTICA DELLA MULTIMEDIALITÀ

Plurilinguismo e intertestualità

Sei storie è anche un viaggio attraverso le diverse tecniche di registrazione della conoscenza (dalla scrittura al video fino all'elettronica), e insieme una ricognizione delle diverse forme e dei codici della rappresentazione, artistica e non. E' quindi un testo multimediale, "poliglotta" (le scritte, peraltro, sono sia in italiano sia in inglese), che unisce in uno stesso spazio diversi codici comunicativi, che tuttavia sono riconducibili ai due fondamentali livelli del visivo, dell'immagine (di cui fanno parte anche l'architettura e il testo, entrambi trattati come immagine) e del sonoro-musicale.

Architettura

Nel suo adattamento da Shakespeare, L'Ultima Tempesta (1991), Greenaway fornisce un indizio chiave che tradisce il suo interesse per gli intrinseci legami fra architettura e musica: uno dei libri magici del protagonista, Prospero, è infatti intitolato Memoria tecnica chiamata architettura e altra musica e lo scenario descritto dal libro contiene già alcuni elementi delle installazioni architettoniche bolognesi (torri, musica, ombre e luci):

Quando si aprono le pagine di questo libro, facciate e prospettive balzano fuori a tutto tondo. Vi sono modellini di vari edifici, costantemente oscurati dall'ombra di nuvole passeggere. Brillano le luci di notturne vedute urbane e s'ode musica dall'interno di saloni e torri.[7]

Nello spettacolo di Greenaway, come in molti dei suoi film, le scenografie proiettate sui muri sono spesso oscurate da ombre intermittenti e illuminate da lampi subitanei; la musica proviene dalla galleria del Voltone, sopra la quale si innalza la Torre dell'Arengo.

L'architettura, come spazio culturalmente assimilato o come luogo dell'utopia, è una delle costanti tematiche delle opere di Greenaway; la maggior parte dei suoi dipinti e le inquadrature dei suoi film sono composizioni architettoniche, per lo più strutturate su linee verticali e orizzontali. Sei Storie, concepita come installazione da inserire in un contesto architettonico, è quindi un'architettura nell'architettura: basti pensare alla cornice classicheggiante in cui, nella sezione relativa al Ventesimo secolo, è inserita l'immagine di Mussolini, o all'apparire di un fregio che riproduce l'effetto di un mosaico all'annuncio della caduta di Bisanzio. Vi è, quindi, il senso dell'architettura come teatro vivente, come luogo in cui si realizza il legame fra l'architettura del teatro e la forma d'arte drammatica che vi viene rappresentata, in questo caso la cronologia della storia di Bologna e la narrazione dei racconti sulle torri perdute: architettura come libro su cui scrivere, ma anche come corpo organico[8]. In uno dei suoi ultimi lungometraggi, I racconti del cuscino, Greenaway narrava della passione di una ragazza giapponese per la calligrafia scritta sul corpo: con Bologna Towers, Greenaway ha scritto sull'architettura come corpo della città, e con Sei Storie ne incide virtualmente le viscere, il cuore.

            Gli elementi architettonici non sono una semplice cornice, ma sono continuamente integrati nel testo e trattati, con gusto squisitamente barocco, come elementi figurativi e simbolici: così l'arco di un portone sotto la volta a destra del Voltone si trasforma in un cratere quando la bomba del filmato sulla battaglia di Waterloo scoppia proprio in corrispondenza della cavità formata dall'arco. Allo stesso modo, il rogo di una torre, sulla parete opposta, è rappresentato da una finestra avvolta dalle "fiamme" di un filmato. Greenaway ironizza persino sul suo stesso procedimento di aprire finestre e riquadri, creando uno "schermo nello schermo" per mezzo di una finestra vera: il disegno in blu di una torre è proiettato sopra la finestra illuminata da una luce arancione, che ne spezza l'unità. Un'altra finestra con inferriate oblique è poi utilizzata per distorcere i caratteri delle scritte e le immagini che vi vengono proiettate. Sulla stessa parete scorre un foglio nero con il disegno di una torre in giallo, che spunta dal margine destro e si muove verso sinistra finché non "rimbalza" contro l'arco della volta e torna indietro.

Questo continuo gioco dello spazio semiotico con lo spazio non-semiotico, quest'"oltrepassamento" della cornice architettonica si ricollega al rifiuto, da parte di Greenaway, del tradizionale schermo rettangolare e alla sua idea di "portare il cinema fuori dal cinema" e nella vita reale, di condurre alle estreme conseguenze quella che è una tendenza connaturata al mezzo cinematografico: "in nessuna delle arti visive [come nel cinema] le immagini che occupano lo spazio artistico tentano così attivamente di distruggerlo e di superarne i limiti" (Lotman: 1977, 128). Il senso dell'artificio in Greenaway è, infatti, anche quello di capovolgere il processo che Baudrillard definisce allegoria, cioè la sostituzione della realtà con i segni del reale: Greenaway inverte la marcia e sostituisce i segni del reale con la realtà stessa, un procedimento simile a quello del tableau vivant, impiegato nello Zoo di Venere, o ai libri animati di Prospero nell'Ultima tempesta, o ancora, nello stesso film, gli esseri umani che fungono da statue e da cornici di gusto barocco, o ancora legato al personaggio di Susanna, la moglie di Prospero, che letteralmente solleva la pelle del proprio ventre, scoprendone il contenuto come in un disegno o in un modellino anatomico.

Testo

Il testo, altro tema cardine del percorso artistico di Greenaway, è l'elemento visivamente predominante nell'installazione, la "voce" che guida e dirige il concerto, tenendo insieme la compagine visiva e sonora. Mentre la voce narrante scandisce la cronologia della storia di Bologna e legge gli aneddoti ironici sulle torri perdute, un pennino guidato dalla mano del calligrafo scrive i testi (le calligrafie sono state realizzate dal vivo davanti alla telecamera). Altre scritte già preparate scorrono orizzontalmente e verticalmente, sovrapponendosi e incrociandosi al testo in fieri. Sei Storie è, fra l'altro, un'esplorazione di 2000 anni di storia della scrittura: gli stili calligrafici seguono l'evoluzione della cronologia storica (romani, gotici, onciali, notarili, beaux-arts, art déco); il ritmo, le tonalità cromatiche calde o fredde, la consistenza e il tratto della scrittura, fluido o spezzato, sottile o grossolano, sicuro o tremante, rafforzano il significato del testo, arricchendolo di sfumature emotive. L'imboscata, l'agitazione della lotta e la successiva immobilità legate all'assassinio di un legato imperiale si traducono nella frenetica velocità e nel groviglio delle scritte bianche sullo sfondo nero: mentre le parole della voce narrante riecheggiano le scritte si moltiplicano e si sovrappongono a ritmo vertiginoso, per poi bloccarsi su una scritta dal tratto tremante, incerto. La proclamazione di Bologna come sede papale, al contrario, è accompagnata da una solenne, esultante musica corale e da una folla di scritte dai vivaci, festosi colori.

La scrittura in movimento prende qui il posto dell'immagine nell'illustrazione testuale. Un'estetica della scrittura, dunque, ma anche scrittura come immagine, come rappresentazione del mondo: la formazione pittorica stimola in Greenaway l'interesse per i presupposti teorici della calligrafia orientale, secondo cui testo e immagine sono espressi da un unico segno. "La parola stessa è immagine"[9] dichiara Greenaway, ponendo l'accento sulle origini pittografiche della scrittura. La scrittura calligrafica di Sei Storie tenta di avvicinarsi alla scrittura ideografica orientale che, a differenza di quella occidentale, conserva ancora qualche legame con il mondo della percezione sensoriale. Nella sua Grammatologia, Jacques Derrida illustra i molteplici significati della parola cinese wen (scrittura)[10], che non designa solo la scrittura senso stretto, ma si riferisce anche a segni e forme d'iscrizione non umani, come le venature delle pietre e del legno, le costellazioni, le impronte lasciate sul suolo da uccelli e quadrupedi, i tatuaggi e persino i disegni che ornano il guscio di una tartaruga. Tutto il mondo è testo, dunque. Per Derrida, a cui Greenaway espressamente si richiama, "il n'y a pas de hors-texte"[11]: il mondo è un labirinto di testi e il testo stesso, per Greenaway come per Derrida, è labirintico, ha mille significati[12]. La molteplicità di stili calligrafici e di colori in Sei Storie simboleggia, fra l'altro, l'infinita polisemia del testo.

Immagini

Le immagini, come le parole, si muovono e si trasformano continuamente (sfocamenti, modulazioni cromatiche, sovrapposizioni, ecc.), spesso in sincronia con la base sonora e musicale: allo scoppio di una bomba, le scritte lampeggiano e cambiano colore. Le immagini più ricorrenti, che appaiono con ritmo quasi ossessivo, sono vedute, mappe e piante della città (una costante nelle opere di Greenaway) e disegni e fotografie delle torri e dei portici di Bologna: ancora una volta architettura nell'architettura, l'idea di "testo nel testo", strategia che Lotman associa ai procedimenti retorici tipici dell'arte barocca.

Come la scrittura, l'immagine è molteplice: disegno, filmato, fotografia si sovrappongono, si moltiplicano, s'ingrandiscono e si fondono. Mentre la voce narrante parla dell'inizio della lotta per le investiture, appare un'immagine ibrida che ricrea una scenografia teatrale; lo sfondo è costituito da un disegno delle torri di Bologna e in primo piano è visibile un filmato (una cavalcata di guerrieri medievali). 

Fra tante opere grafiche, fotografie e filmati, la grande assente è la pittura, ma solo in apparenza: il suo posto è occupato dalle scritte, che vengono trattate come quadri in movimento (spesso il pennino si trasforma in pennello). Così Greenaway, amante del paradosso, dà vita e dinamismo a un mezzo tecnologico abitualmente associato alla morte e all'immobilità. E' da notare che le immagini, persino i filmati, pur scorrendo sullo "schermo" in verticale e in orizzontale, appaiono statici: il senso del movimento è, in realtà, espresso dalle scritte.

Suono e musica

Sono i rumori d'acqua, i richiami d'uccelli e i frulli d'ali (l'acqua e gli uccelli sono fra i motivi prediletti da Greenaway), insieme agli altri rumori d'ambiente, a dare un'immagine acustica, e quindi una dimensione "cinematografica" più concreta e spaziale ai racconti sulle torri perdute, anche se la loro funzione non è sempre legata all'illustrazione testuale. Persino nel caso di suono e musica non si può parlare di una vera e propria colonna sonora, ma di frammenti di musiche assemblati in un collage sonoro. Seguendo lo schema delle funzioni cinematografiche della musica proposto da Cristina Cano (2002), è possibile identificare nei brani musicali di Sei Storie alcune funzioni principali; i frammenti più brevi hanno di solito ruolo narrativo: stacchi orchestrali di due suoni o di un solo suono con funzione di demarcazione o di transizione (cambio di scena) da un episodio storico all'altro o dalla finzione alla storia; la funzione referenziale si ha invece, ad esempio, quando la voce pronuncia il nome Mozart e si ode una sezione dalla Sinfonia Concertante K364 dello stesso Mozart, oppure nel caso del Concilio di Trento, a cui fa da sfondo un brano vocale polifonico dell'epoca della Controriforma; un'altra funzione fondamentale è quella di commento: è il caso della musica orchestrale o corale, in cui l'agogica e il ritmo agitato si associano alla battaglia o alla violenza descritta dal testo. Greenaway gioca con gli stereotipi della musica di tono epico, "post-wagneriano", tipica dei film e dei documentari storici e di guerra, alternandola ironicamente a un frammento melodico danzante in falsetto, una sorta di understatement espresso con mezzi musicali.

Anche la colonna sonora segue il principio strutturale di sovrapposizione (a volte udiamo la voce del narratore, suoni e musiche simultaneamente) e di ripetizione variata: alcuni stacchi musicali ricorrono costantemente durante tutto lo spettacolo come altrettanti leit-motiv.

Molteplicità del segno, collage, assemblage e interazione fra linguaggi espressivi fanno di Sei Storie un testo sincretico, "in quanto combina [.] elementi tratti da sistemi semiotici diversi che interagiscono reciprocamente"[13]; in più, i continui cambi di struttura e il contrasto fra strutture diverse, anche all'interno di uno stesso sistema, azionano un meccanismo semantico potenzialmente infinito. Lotman sostiene che "il reale funzionamento di un testo artistico è legato a interazioni tra i livelli"[14] e prosegue:

Ma il discorso non verte soltanto sull'unione in un unico insieme compositivo di elementi appartenenti a livelli eterogenei. Anche all'interno di ogni livello le successioni saranno costituite in base al principio dell'unione di elementi eterogenei, in modo tale che da un lato si formino definite successioni strutturali, mentre dall'altro esse siano continuamente interrotte in conseguenza alla sovrapposizione[15] di altre strutture 'perturbatrici'. Si forma in tal modo un meccanismo di straordinaria elasticità e di incalcolabile attività semantica." (Lotman STP, 323-324)

Il potenziale semantico e quindi la quantità di informazioni veicolata dai segni e dei simboli è ulteriormente aumentato dalle infinite citazioni, allusioni e riferimenti ad altri testi, dall'intertestualità, l'"interrelazione che lega i testi in un grande reticolo"[16]. Greenaway ha una visione della cultura, e della sua propria opera, come rete di testi, in cui il valore di ogni elemento componente può essere colto solo se si tiene conto della sua relazione con altri all'interno della rete testuale complessiva.

Sei Storie per Bologna è esempio emblematico di ciò che Lotman definisce "testo retorico": "conflitto contrappuntistico di lingue semiotiche differenti all'interno di una struttura unitaria"[17] . Gli espedienti retorici abbondano, tanto che un approccio alternativo a quello musicale potrebbe essere l'interpretazione del testo attraverso le figure retoriche o retorico-musicali; eccone alcune:

Metafora (simbolo). Tutto si metaforizza: l'architettura come corpo, come libro e come immagine; le torri di Bologna nei racconti apocrifi come metafore dell'amore, della morte, dell'ambizione, della censura, ecc.; il testo come immagine; i colori come metafore degli stati d'animo, i portici come labirinti, la scrittura come violenza e morte (il pennino che si trasforma in coltello) ecc.

Anafora ed epifora. Continuo lavoro di anticipazione e ripresa di elementi dei racconti o dei fatti storici attraverso immagini e suoni: la scritta del 1390 (costruzione della Basilica di S. Petronio) continua a comparire fino al secolo successivo, e così molte altre scritte permangono dopo che la voce ha letto il testo; le ombre di rondini che volano sullo schermo anticipano l'aneddoto sulla Torre d'Inchiostro; richiami di piccioni e frulli d'ali anticipano la storia di Giovanni Ossi, che tentava di catturare gli uccelli stendendo una rete fra le cime delle sue due torri. Il filmato del cavallo che salta un ostacolo riprende invece il racconto che lo precede, in cui una torre viene demolita e i mattoni utilizzati per costruire una stalla.

Eco, analessi e simploce. Ripetizione e ripetizione variata, ovvero "loop con variazioni", come Eco ha definito il trattamento dell'immagine in un altro regista d'avanguardia intimamente legato all'arte visuale e alla musica, il polacco Zbig Rybczynski. Queste sono le figure centrali dell'opera: gli echi delle voci narranti; le scritte che riproducono il testo parlato e sono raddoppiate e moltiplicate; un pennino che si trasforma in penna d'oca, pennello, o addirittura in coltello; immagini (disegni e fotografie) di torri e portici; la stessa immagine che cambia colore o assume dimensioni diverse; l'utilizzo dello stesso filmato, ad esempio quello della processione religiosa, in scene diverse; la rapida e continua reiterazione di uno spezzone di filmato; ripetizione dei medesimi brani musicali; costanti sonore: acqua, rumori di uccelli, suono di campane.

Sinestesia e sincronismo percettivo. Nel brano su Teodorico, il pennino-coltello che scrive è ripreso con la tecnica del rallentatore, accompagnato da una musica altrettanto lenta in sottofondo. L'apparizione dell'effigie di Guglielmo Marconi è accompagnata da una musica dalle frequenze basse, il cui effetto è rafforzato dai colori cupi dello sfondo.

Citazione. L'immagine di Mussolini è moltiplicata per quattro e ogni riquadro ha un colore diverso (allusione ai ritratti pop di Andy Warhol); alcuni sfondi e il groviglio delle scritte sovrapposto ai filmati di guerra ricordano i quadri espressionisti astratti di Pollock e il tachisme; l'immagine dell'atleta che compie una capriola e il cavallo che salta un ostacolo sono un omaggio a Edweard Muybridge, pioniere degli studi fotografici sul movimento. La citazione è spesso autoreferenziale, anche se ben mascherata: i disegni d'anatomia che scorrono sulla partitura musicale mentre si ode la Sinfonia Concertante di Mozart, apparentemente senza senso, sono in realtà un rimando al cortometraggio M is for Man, Music, Mozart (1991), in cui ogni attore porta al collo un cartello recante il nome di una parte del corpo che, unita alle altre, darà infine vita al genio musicale Mozart; la stessa Sinfonia è anche un'allusione al film Giochi nell'acqua, in cui questa musica accompagna le scene degli omicidi; il racconto di Spacci il siciliano, che teneva delle bacinelle colme d'acqua sul tetto della sua torre per paura di un incendio, riecheggia un aneddoto raccontato nel film Il Mistero dei Giardini di Compton House.

Ironia. Le storie sulla costruzione delle torri sono quasi tutte aneddoti ironici, grotteschi o di un umorismo sottile; la musica pomposa ed epica che apre la storia di Bologna viene immediatamente ironizzata dal falsetto seguente; il filmato della rivoluzione francese, accompagnato dalla musica dell'inno nazionale francese, "si incanta" come un disco rotto.

Parodia. La storia di Bologna ha un taglio assai scolastico, quasi un riassunto in stile Bignami. Evidente è anche la continua parodia del documentario storico e del film storico, che Greenaway realizza attraverso l'inserimento di filmati di cronaca e il contrasto fra la fantasmagoria delle immagini e l'idea di verità documentaria implicita nel testo recitato (Greenaway ha iniziato la sua carriera come montatore e regista di documentari sulla vita in Gran Bretagna).

L'aspetto simbolico e metaforico è proprio ciò che fa di Sei Storie una creazione assolutamente originale: alcuni simboli sono perfettamente convenzionali e riconoscibili (il teschio, la croce, ecc.) ma la maggior parte è altamente idiosincratica, un vero e proprio idioletto, decifrabile solo alla luce della poetica dell'autore e delle altre sue opere, facendo cioè riferimento a tutti gli altri simboli della rete intertestuale. Tuttavia, Greenaway non chiede al suo pubblico un'operazione ermeneutica, un'interpretazione accurata che porti alla piena comprensione del suo linguaggio ermetico, delle sue icone enigmatiche; essi devono essere capiti solo in parte, per non esaurirne la carica semantica e le potenzialità espressive.[18] L'interpretazione logora il simbolo, lo opacizza; non a caso in linguistica si parla di "metafore fossili" per indicare le metafore di largo uso che quasi non vengono più percepite come tali (mentre Ricoeur, per contro, ha parlato di "metafora viva").

Sei Storie è concepito come un labirinto di simboli e di percezioni. Lo si può percorrere infinite volte senza comprenderlo mai (nel senso latino di cum-prehendere, cogliere pienamente, abbracciare tutti gli aspetti): non solo l'editing, il montaggio e gli elementi compositivi differiscono in ciascuna delle sei pareti, ma una stessa parete vista da angolazioni diverse rivela dettagli sempre nuovi. Per inciso, l'"affollamento" di dettagli nell'inquadratura è da sempre una caratteristica delle inquadrature di Greenaway, che la eredita dal Barocco, ma soprattutto da uno dei suoi pittori preferiti, Hieronimus Bosch. Con Sei Storie per Bologna Greenaway sembra essere giunto molto vicino al suo ideale di fare "un film rivedibile all'infinito"[19], ripercorribile e rivisitabile come un'opera d'arte visiva o una musica che garantisce esperienze fruitive sempre nuove.

Polifonia e contrappunto

1) Nella sua Semiotica del cinema, Lotman sostiene che "il parallelo tra composizione musicale e cinematografica sembra pertinente perché c'è [in alcuni film] una combinazione contrappuntistica di cinema e arte figurativa" (1977: 145), affermazione che appare tanto più valida per i film di Greenaway, ricchi di riferimenti e allusioni alla pittura e all'architettura (Vermeer in Lo Zoo di Venere, Rubens in L'ultima tempesta, Velazquez in Il Cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, Boullée in Il ventre dell'architetto).

Nella stessa opera, il semiologo definisce il film come testo di carattere "polifonico":

Abbiamo esaminato finora la struttura di significati contenuta nel 'racconto di storie per mezzo di immagini animate'; tuttavia, questo non è il solo linguaggio parlato dal cinema d'oggi: esso include i messaggi scritti, l'accompagnamento musicale e l'attivazione di associazioni extratestuali, che aggiungono diverse strutture di significato al film. I vari strati semiotici sono organicamente collegati tra loro e il loro rapporto crea effetti significativi. La capacità del cinema di 'assorbire' i tipi più svariati di semiosi e di organizzarli in un unico sistema è ciò che si definisce la natura sintetica o polifonica del cinema. [.]

Quando il materiale contrappuntistico viene inserito in questo modo, lo spettatore è libero di trovarvi ulteriori significati sintagmatici o di ritenerlo un elemento insignificante [.]. Lo spettatore che non è in grado di riconoscere la natura polifonica del soggetto cinematografico abbassa inevitabilmente il livello dei significati 'significanti' degli episodi e comprende il testo soltanto al livello più banale. Infine, il testo è polifonico in un altro senso: esso non include solo una serie dinamica di segni semiotici diversi all'interno dello stesso livello, ma presenta anche un movimento simultaneo nei vari livelli. Il pubblico riceve insieme al testo anche il codice, poiché il cinema non ci fornisce soltanto informazioni; insegnandoci il funzionamento del suo meccanismo, esso ci dà gli strumenti per ricavarle dal testo (Lotman: 1977, 147)[20]

Quest'ultima definizione di Lotman si attaglia mirabilmente al cinema di Greenaway, in special modo agli esperimenti di cinema multimediale e ambientale, come Bologna Towers e Sei Storie per Bologna, con il loro agglomerato di voci indipendenti e simultanee (voci narranti, codici testuali e visivi, suoni e immagini) in continuo dialogo. La definizione che Lotman dà di testo retorico, già ricordata in precedenza, è simile, ma evidenzia una prospettiva diversa, quella del contrappunto come conflitto, contrasto di voci che procedono insieme con diverso andamento:

Per differenziarlo dal testo non retorico, definiremo retorico un testo che può essere rappresentato come unità strutturale di due (o più) sottotesti, codificati per mezzo di codici diversi reciprocamente intraducibili. [.] Verranno visti come testi retorici tutti i casi di conflitto contrappuntistico di lingue semiotiche differenti nell'ambito di una struttura unitaria (Lotman: 1992, 102)

In Sei Storie, la finzione fa da contrappunto alla realtà storica, due piani autonomi e contrastanti che si intrecciano continuamente, a cui corrisponde anche una modalità testuale diversa: cronologica per la storia, narrativa per la fiction. Il contrappunto è evidente anche nel bilinguismo delle scritte, che alternano inglese e italiano. Anche le "voci" visive, filmati, disegni, fotografie, l'architettura stessa, procedono su linee indipendenti pur intersecandosi continuamente. Non mancano neppure gli esempi di "canone inverso", di scambio delle parti, capovolgimenti paradossali nel ruolo delle voci: Greenaway ci propone un cinema in cui le immagini sono statiche e ciò che si muove è la scrittura, un cinema in cui la parola scritta prende il posto dell'immagine nell'illustrazione del testo. In conclusione, Sei Storie è strutturato come un concerto polifonico, vale a dire come conflitto, dialogo, ma anche unione, collegamento fra diversi media all'interno di un sistema unitario e organico.

2) L'imprevedibilità è un altro fattore che avvicina Sei Storie a un testo musicale. La continua, imprevedibile trasformazione di una struttura nell'altra: bianco e nero-colore-monocromo nelle immagini; documentario/ filmato di cronaca-film; disegno-fotografia-filmato, con le relative connotazioni simboliche attribuite a ciascuna struttura (ad esempio, per Greenaway il bianco e nero è associato alla realtà documentaria e il colore alla fantasia) è fonte inesauribile di informatività e quindi di possibilità semantiche. L'incredibile flessibilità di questo meccanismo consente anche continue integrazioni, ri-compsizioni e rigenerazioni dell' opera d'arte, che diviene più che mai "opera aperta".

Sintesi e velocità

Si potrebbe ipotizzare che il motivo di un tale grado di densità e condensazione delle strutture e dei segni sia dettato dal principio della sintesi, intesa non solo come compressione di segni appartenenti di codici comunicativi eterogenei, ma come esigenza di dire il massimo nel minimo del tempo a disposizione (circa 20 minuti) e in uno spazio limitato.

L'idea di sintesi è qui legata a quella di velocità: lo stesso Greenaway dichiara che uno degli elementi costitutivi della sua installazione bolognese è la velocità con cui il testo, ma anche le immagini e la musica, devono scorrere sullo schermo per aumentare la spettacolarità dell'effetto. Insieme al principio di reiterazione seriale, la velocità e il dinamismo costituiscono le caratteristiche dominanti di gran parte delle poetiche artistiche e musicali contemporanee. Se il tema del "loop con variazioni" riflette la crescente automazione, meccanizzazione e ripetitività delle azioni che scandiscono l'esistenza contemporanea, la velocità e il dinamismo nell'arte sono, in gran parte, risposta estetica non solo al ritmo sempre più frenetico della vita quotidiana, ma anche all'aumentata velocità della comunicazione visuale e sonora nei mass media e nel cinema, come ha ben sottolineato David Carrier[21].

Proprio il principio della sintesi e dell'economia sono alla base delle moderne tecnologie di comunicazione massmediatica, in primis la televisione, ma anche il CD-rom e la rete telematica (Internet), per cui Greenaway nutre un profondo interesse, tanto da includerle nel suo nuovo, ambizioso progetto, The Tulse Luper Suitcases. Non è casuale che la continua, simultanea presenza, nello spazio della proiezione, di testo scritto e orale, immagine, suono e musica, lo "sfondamento" dello spazio oltre i confini della cornice e la conseguente apertura di più "finestre" all'interno dello schermo, la moltiplicazione stessa degli schermi e quindi dei punti di vista, richiamino molto da vicino la tecnica dell'ipertesto, modalità comunicativa ideale per raccogliere mezzi di comunicazione diversi in un unico "contenitore"; ma la differenza fondamentale fra l'opera di Greenaway e un ipertesto è che, mentre i "percorsi" ipertestuali sono, in realtà, fortemente gerarchizzati e predefiniti, il percorso dello spettatore di Sei Storie è del tutto libero e la sintesi ha luogo non sullo schermo ma nella mente di ciascun osservatore.

A prescindere dalla sua funzione pragmatica, in Greenaway la sintesi assume i tratti di un effetto estetico continuamente ricercato e inseguito: avvicinare l'immagine e il testo alla natura sintetica della musica significa avvicinarsi a quella compattezza e concentrazione semantica, a quella "icastica" pregnanza di senso che solo la musica può raggiungere, superando i confini del significato verbale. Questo è uno dei motivi che spingono l'artista a evidenziare i legami fra immagine e musica (in questo caso ad associare frammenti musicali e "graffiti" metropolitani), cercando di dare una struttura musicale alle immagini e, viceversa, di "spazializzare" il sonoro e la musica, sincronizzando la composizione delle scritte e delle immagini e l'illuminazione degli sfondi con il ritmo e il carattere della musica.

Un'opera d'arte totale

La fondamentale unità dell'arte al di là della diversità dei mezzi espressivi propri di ciascun linguaggio artistico è sottolineata, ancora un volta in riferimento ai rapporti tra cinema e pittura, da Lotman nella sua Struttura del testo poetico:

[.] sarebbe interessante seguire il conflitto tra i linguaggi della pittura e del cinema coi loro tentativi di sottomettersi reciprocamente in un'unica struttura della cultura artistica del XX secolo. L'influenza reciproca delle diverse arti è una manifestazione a livello superiore della legge generale di associazione dei diversi principi strutturali della creazione artistica. (Lotman: 1972: 328)

Il sincretismo di Peter Greenaway, come si è visto, lavora proprio sull'associazione di principi strutturali e sul loro trasferimento da un linguaggio artistico all'altro, nella convinzione che "lo spazio della realtà non possa essere abbracciato da nessuna lingua separatamente, ma soltanto dal loro insieme".

Sintesi delle arti, dunque, opera d'arte totale si potrebbe azzardare, richiamando un concetto che, originatosi in epoca romantica con le teorie di Schelling e di Richard Wagner, verrà ripreso e approfondito dalle avanguardie artistiche del Novecento: Kandinskij nell'arte e Scriabin in musica sono fra i primi a teorizzare l'abbattimento delle divisioni fra le singole arti e dell'arte in generale per "toccare e sollecitare ogni aspetto dell'esistenza e del pensiero" (Cano: 2002, 208). L'action painting di Pollock, a cui Greenaway allude più volte in Sei Storie, "mette in scena la pittura come movimento labirintico del vissuto" all'insegna delle tre parole "arena, azione, gesto" (Trimarco: 2000, 45). Evidente è l'analogia con il gesto della mano che conduce il pennino e lo slancio della scrittura nell'atto della sua creazione, mentre occupa le pareti del Voltone.

Fondendo sensazioni proprie sia dell'arte che della tecnologia, oltrepassando i limiti dello schermo cinematografico e della stessa cornice architettonica, Greenaway mira a creare molto di più di un evento multimediale: intende dar vita a un vero e proprio Gesamtkunstwerk:

Dal momento che l'opera, venuto meno il limite rappresentato dalla cornice, non è più un'isola ma un luogo di scorrimento, si inaugura quell'intrattenimento che fa, appunto, dell'opera un'opera d'arte totale, un Gesamtkunstwerk (Trimarco: 2000, 30)

Scorrimento: è proprio questa la parola-chiave nelle installazioni multimediali di Greenaway, in cui elementi compositivi tratti da diversi sistemi scorrono letteralmente sull'architettura della città, nel tentativo di comprendere tutto il mondo in un'unica rappresentazione. E questo è appunto il sogno dichiarato di Greenaway, la cui mania per la catalogazione e l'enciclopedismo (nomi, date, numeri, liste) non è che un riflesso di questa tendenza sintetica e globalizzante. Il regista britannico definisce i suoi film come frammenti della "grande enciclopedia del mondo", quella grande rete intertestuale che è la cultura, parlando precisamente dell'"opera d'arte totale" preconizzata da Wagner come del futuro approdo e traguardo del nuovo cinema[22]. Greenaway ha, peraltro, collaborato a diversi allestimenti di opere liriche, ed è egli stesso autore di opere multimediali che fanno ampio uso della proiezione cinematografica (Rosa: A Horse Drama, 1992; 100 Objects to Represent the World: A Prop-Opera, 1992).

Questa tensione "totalizzante" si traduce nella fusione di passato, presente e futuro, processo che solo nella musica si realizza in sommo grado. Se la tecnologia tematizzata da Greenaway (la scrittura) è vecchia di 2000 anni, la tecnologia utilizzata per rappresentarla è fra le più moderne e all'avanguardia. Il passato, scritto sugli antichi edifici di Bologna, si fonde con il futuro dell'installazione tecnologica, che potrà essere modificata e arricchita nel tempo. Per Greenaway, amante del paradosso, il futuro del cinema è da ricercare nel passato, addirittura nelle origini della scrittura:

Data la sua forma -il rotolo continuo di celluloide- il film potrebbe ben rimontare a un tipo di assetto testuale anteriore al libro: il rotolo appunto, inteso quale successione lineare di fatti e di eventi. Però il rotolo ha un superbo vantaggio rispetto al film. Nel film l'occhio può leggere non più di una immagine per volta e il cervello deve ricordarsi l'ordine di successione. Nel rotolo l'occhio non ha problemi ad assorbire il passato prossimo e il prossimo futuro pressoché contestualmente alla visualizzazione del presente. Forse dovremmo reinventare il cinema: come rotolo.[23]

Ancora il concetto di scorrimento: Sei Storie è precisamente un rotolo che scorre davanti ai nostri occhi, una pergamena in cui le scritte e le immagini degli eventi passati convivono con anticipazioni di eventi futuri (cfr. sopra il paragrafo su anafora ed epifora).

La sintesi (o polifonia) delle arti, insegna Lotman, è ciò che consente al cinema di abbracciare più efficacemente lo spazio della realtà, di ricreare il movimento del reale[24]. In Sei Storie per Bologna, la continua trasformazione delle immagini, le scenografie "effimere" che si disfano nell'istante stesso della loro fruizione, l'idea del movimento e della transitorietà espressa e resa tangibile grazie al cinema e alle più moderne tecniche video, tutto ciò contribuisce a riprodurre e ricreare, seppur artificialmente, l'esperienza di una vita in divenire. Se per Lotman la "ripresa senza stacchi, e il racconto senza improvvisi salti di montaggio creano un testo che imita quanto più possibile il flusso continuo e uniforme della vita" (Lotman: 1977, 128), Greenaway sostiene, per contro, l'uso del frammento e del montaggio, e quindi della "composizione" e del collage, per meglio ricreare la fondamentale frammentarietà e simultaneità percettiva che caratterizza l'esperienza contemporanea; per lo stesso motivo, Greenaway esce dall'inquadratura, rigettando il tradizionale rettangolo dello schermo cinematografico per portare il cinema nello spazio della realtà urbana.

Sei Storie per Bologna è poi un'opera interattiva, che si attiva al passaggio dei visitatori, accompagnandoli nel loro transito sotto il Voltone. E' un'opera-ambiente, che occupa, trasformandolo, l'intero spazio nel quale si svolge il suo mondo. Numerose sono le affinità fra le installazioni architettoniche di Greenaway e i generi dell'arte contemporanea che tendono al coinvolgimento di tutti i sensi e gli aspetti dell'esperienza, quali l'environment, la videoarte, l'arte interattiva-partecipativa e persino una forma d'arte meno accademica ma non meno ricercata come il videoclip. Per poter vedere tutte le immagini e le scenografie presenti nell'installazione, lo spettatore è costretto ad "attivarsi", a spostarsi da un angolo all'altro del voltone, a cambiare posizione per osservare una stessa parete da angolazioni diverse, in modo da cogliere tutti gli effetti speciali che vi vengono proiettati; situazione contraria a quella della sala cinematografica, in cui lo spettatore siede passivamente davanti al grande schermo per circa due ore, costretto al silenzio, e quindi ad abbandonare la propria identità per identificarsi totalmente con i personaggi del film. Nell'installazione architettonica, invece, ogni spettatore è libero di commentare ciò che vede, mantenendo così quel distacco critico auspicato dal regista: non bisogna dimenticare che Greenaway "crea arte utilizzando idee sull'arte" e che, insieme al contenuto di un film, intende trasmettere al pubblico idee sulla sua forma e sulla sua struttura.

Se è vero che l'ambiente e l'architettura, come si è visto, modellano l'opera, essa a sua volta è concepita per rimodellare l'ambiente, per interagire con il vissuto della città; il materiale dell'installazione è fatto per essere ri-editato, ri-composto e integrato in occasione di eventi di particolare rilievo per la città. Grazie allo spettacolo multimediale, che incoraggia i visitatori a transitare sotto il Voltone, un luogo solitamente poco frequentato e nascosto viene "rilanciato" come spazio culturale e come luogo di interazione sociale. L'installazione di Greenaway è un vero e proprio organismo vivente, che pulsa e cresce, sollecitato dalla partecipazione degli spettatori e dal mutare delle condizioni dell'ambiente che lo circonda, ma anche dal mutare delle proprie condizioni interne.

Scorrimento, sintesi, interattività, confusione fra autore e spettatore. Un'azione che non è opera finita ma "opera a flusso", nella definizione che ne dà Eco[25]: che fluisce, cioè, senza mai avere un inizio né una fine. Perché Sei Storie è concepita per essere vista non solo dall'inizio alla fine, ma anche come frammento, nel tempo del transito sotto il voltone. Opera d'arte totale, dunque, non solo come sintesi delle arti, ma come arte che chiede di essere vissuta, che trasforma la vita e cresce e muta in simbiosi con la vita.

L'IBRIDAZIONE DEL SEGNO

Finora, la metafora della musica è stata utilizzata come strumento di orientamento nel mare magnum dei segnali percettivi e degli stimoli trasmessi da Sei Storie per Bologna, al fine di illustrare con maggiore chiarezza alcuni principi di poetica che emergono dall'opera e che caratterizzano la produzione dell'ultimo Greenaway. Tuttavia, come abbiamo rilevato in apertura, la melodia, la polifonia e il ritmo musicale non sono una semplice metafora, bensì il vero e proprio principio che guida la composizione dell'opera. Per ottenere l'"effetto concerto" (o effetto corale) di cui si parlava in precedenza, Greenaway porta alle estreme conseguenze il principio della polifonia, come conduzione simultanea di linee indipendenti, ossia di linguaggi semiotici diversi, nonché il principio compositivo o del montaggio, il continuo cambio di struttura, anche all'interno di uno stesso sistema semiotico. Ma non è tutto: Greenaway sembra sfidare anche l'assunto della reciproca intraducibilità dei linguaggi artistici, trasformando il testo in immagine pittorica, e l'immagine e il testo in musica, in un continuo processo di ibridazione semiotica.

Il ruolo primario della musica in Greenaway è evidente già nei primi lungometraggi: nel brano di apertura de l'Ultima tempesta, le creature dell'isola danzano e si muovono in perfetta sincronia con la musica di Michael Nyman, il cui tono severo e maestoso rispecchia il contegno di Prospero mentre attraversa la sua biblioteca. Questi sincronismi tra l'andamento ritmico del fraseggio musicale e la successione ritmica delle immagini e delle inquadrature proseguono durante tutto il film. Nella scena finale de Il Cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, quando il corpo dell'Amante, cucinato dal Cuoco, è servito dalla Moglie come ultima portata a suo marito (il Ladro), tutto, dal movimento dei personaggi ai dialoghi, dal ritmo delle riprese ai tagli del montaggio sono costruiti su Memorial (anch'esso composto da Michael Nyman), una marcia funebre lenta e solenne, dalla rigida, cadenzata scansione ritmica. La sincronia fra musica e immagine è pure evidente in Lo Zoo di Venere. Greenaway dedica persino un intero cortometraggio, Making a Splash (1984), ai rapporti fra musica e immagine; nel filmato non ci sono parole, ma solo lo scorrere prima idilliaco, tranquillo e subito dopo frenetico e maestoso dell'acqua, nelle immagini come nella musica: dalle poche note di un temporale estivo alle coreografie sonore per un balletto di nuoto sincronizzato. Sinestesie e sincronismi percettivi si ritrovano, ovviamente, anche in Sei Storie (cfr. sopra il paragrafo sulla sinestesia), ad esempio le scritte e gli schermi che si illuminano di colori diversi ed appaiono e scompaiono a ritmo di musica.

Raccontando del suo lungo rapporto di collaborazione con Michael Nyman, Greenaway conferma la centralità della musica come principio strutturale delle sue opere:

Abbiamo cercato allora di fare dei film in cui la musica non fosse relegata in un ruolo secondario, cioè di evitare che il compositore arrivasse quando il film era già stato montato e girato, e che agisse in modo semplicemente illustrativo e per sottolineare le emozioni. Io ero convinto invece che la musica dovesse fornire al film una struttura.[26]

In Sei Storie, Greenaway si spinge ben oltre, tentando di trasporre meccanismi compositivi tipicamente musicali nella sfera del visivo e, più in generale, di porre questi meccanismi alla base dell'intera opera.

Tecniche compositive

-Un affascinante esempio di ibridazione parola-musica-immagine si ha in alcuni brani del testo (Lutero e Accademia Filarmonica), in cui i margini della parola scritta (o del pentagramma), o dell'immagine "si sfaldano" trasformandosi in qualcosa di molto simile a uno spettrogramma, alla visualizzazione della pura vibrazione di una frequenza sonora.

-La transitorietà e la continua trasformazione della propria struttura sono una delle caratteristiche peculiari della musica, che Greenaway tenta di riprodurre attraverso il continuo movimento e il mutare degli elementi della composizione (colori, testo, immagini, sfondo, tutto si muove e si trasforma come in una continua modulazione armonica). Un concetto collegato alla trasformazione è quello dell'imprevedibilità e degli effetti a sorpresa, di cui lo spettacolo è ricco.

-La musica è, più d'ogni altra arte, in grado di fondere passato, presente e futuro sull'onda della melodia ricorrente, del leit-motiv. In Sei Storie i leit-motiv musicali, frammenti che ricorrono durante tutto lo spettacolo, si combinano a motivi conduttori visivi e uditivi (l'acqua, gli uccelli, le campane, la processione religiosa, il filmato della capriola, e soprattutto le torri e i portici). Un altro modo in cui Greenaway fonde musicalmente passato, presente e futuro è la strategia del rotolo esposta sopra. Trattando lo spazio della proiezione come un rotolo, è possibile far comparire simultaneamente date, scritte e immagini appartenenti al passato e anticipazioni uditive o visive del futuro (il filmato del treno della strage del 2 Agosto 1980 compare, in un riquadro, già durante il filmato della liberazione di Bologna dall'occupazione nazista).

-Uno dei limiti della visione rispetto all'ascolto è, come fa notare Walter Ong (1986: 106), costituito dal fatto che si può vedere in una direzione sola, mentre chi ascolta è al centro del proprio mondo uditivo, che lo avvolge. Peter Greenaway sembra voler superare anche quest'ostacolo insito nella natura stessa dell'immagine: lo spettatore di Sei Storie per Bologna è sottoposto a una vera e propria aggressione di immagini e colori provenienti da tutti i lati del Voltone, nel tentativo di ricreare l'effetto del suono (in particolare del suono organizzato musicalmente) come fenomeno avvolgente, magico. In effetti, l'efficacia di questa strategia aumenta se si assiste alla proiezione al centro dello spazio fra i le due pareti. In Bologna Towers, quest'effetto "surround" risultava ancora più efficace che in Sei Storie, poiché la proiezione avveniva su tutte e quatto le facciate degli edifici che formano il quadrilatero di Piazza Maggiore.

-Come abbiamo osservato sopra, la reiterazione seriale di brevi frammenti è la norma strutturale più sfruttata dai generi musicali contemporanei, dal minimalismo alla musica elettronica. E la musica minimalista è senza dubbio il modello strutturale più chiaramente riconoscibile in Sei Storie. A proposito degli inizi della collaborazione con il compositore Michael Nyman, Greenaway ricorda che

Eravamo entrambi interessati allo stesso tipo di musica, quella che era stata prodotta a New York negli anni Cinquanta: Philip Glass, ecc. Il loro modo di costruire la partitura musicale partendo da un'idea di serializzazione era molto utile a me che facevo il montatore e a lui che era un compositore.[27]

La serializzazione di frammenti musicali e visivi (immagini moltiplicate e ripetizione continua di brevissimi spezzoni di filmati) è infatti uno dei principali meccanismi strutturali dell'opera, e la poetica del frammento ne è il principio-guida. Greenaway definisce le sue opere "mitologiche", anche se la sua mitologia, com'è noto, è fatta più di motivi e temi privati che non di archetipi collettivi. In ogni caso, la frammentarietà è precisamente uno dei tratti caratteristici della mitologia di Greenaway e del pensiero mitico in generale.[28] La serialità, la moltiplicazione degli schermi e la ripetizione variata di uno stesso tema, ad esempio quello dell'acqua o delle torri, non sono le uniche strategie musicali (e minimaliste) di cui Greenaway si appropria nella sua installazione: anche il senso di staticità armonica e la giustapposizione di sezioni melodiche senza transizione, tipica della musica minimalista, si riflette nell'ordine paratattico e non gerarchico delle immagini.

-Il Ritmo è un altro elemento strutturale della musica che Grenaway cerca di tradurre visivamente. Giova ricordare che, nelle intenzioni di Greenaway, uno dei tre elementi fondamentali dell'installazione, oltre al testo e all'architettura, è proprio la velocità. La rapidità o la lentezza del pennino che scrive e delle immagini che scorrono, mentre danno una scansione ritmica alla visione, trasmettono significati connotativi, come nell'assassinio del legato imperiale (cfr. sopra il paragrafo "Testo"). Il senso del ritmo è dato anche dalla ripetizione di una stessa immagine (l'ingrandimento ritmico dell'immagine di Federico II di Svevia) o di uno stesso suono o brano musicale. Vi è poi un ritmo che scolpisce tutta la durata di Sei Storie, ed è quello scandito dal catalogo e dalle date (divisione della cronologia in epoche storiche), dalle liste dei nomi di fantasia delle torri e di quelli bizzarri dei loro costruttori, dall'alternarsi dei colori e dei corrispondenti valori emotivi, dall'alternarsi di cronologia e narrazione, fiction e realtà, della dimensione storica e di quella mitica e atemporale del racconto. Tutti questi elementi formano, nei film di Greenaway, codici organizzati su cui è costruita la struttura dell'opera: in The Falls, il primo lungometraggio di Greenaway, il principio strutturale sono i cognomi del protagonisti (che iniziano tutti con la parola Fall-); Giochi nell'Acqua sfrutta i numeri da 1 a 100, Il Cuoco, il Ladro. i colori caldi e freddi, ecc.

Infine, il senso del ritmo in Sei Storie è legato alla continua anticipazione e ripresa tematica e alla sincronia dell'immagine con la musica.

-La circolarità o ciclicità della struttura musicale, la regolare ricorrenza di una struttura armonico- melodica o la riesposizione del tema iniziale al termine di un brano, hanno ispirato Greenaway nella concezione della sua storia di Bologna come cerchio che si chiude, movimento ciclico sottolineato dalla ripetizione in epoche diverse dei medesimi frammenti musicali o delle medesime immagini e filmati. Il filmato degli araldi trombettieri su una nave, accompagnato da una musica solenne e festosa, compare poco dopo l'inizio della cronologia di Bologna e di nuovo alla fine dell'ultimo racconto, che chiude lo spettacolo. Nelle costanti visuali e musicali ripetute varie volte è implicita non solo una nozione circolare della storia, ma anche una concezione "pointillistica" del tempo fisico non come durata ma come successione di attimi.

-La ripetizione (ridondanza) e la variazione su un tema (cfr. sopra il paragrafo "Eco") sono una delle tecniche predilette da Greenaway. In Sei Storie, il continuo riaffiorare di temi costanti lungo tutto lo spettacolo contribuisce in modo determinante all'effetto ritmico-musicale dello spettacolo. Le torri sono forse il tema più sfruttato: la cronologia e la narrazione sono intervallate da numerose fotografie e disegni antichi raffiguranti le torri di Bologna; inoltre, tutti i racconti apocrifi hanno per argomento una torre perduta di Bologna. Dei portici di Bologna, altro tema favorito, vengono proiettate diverse fotografie. Gli uccelli sono una costante nelle opere di Greenaway, compresa Sei Storie. Si odono richiami di piccioni, corvi, cornacchie, frulli d'ali. Ombre di rondini attraversano lo schermo mentre la voce narra dei mercanti bolognesi in Egitto. Il racconto di Giovanni Ossi e quello della Torre d'Inchiostro sono un altro riferimento agli uccelli, come pure il nome di uno dei protagonisti dei racconti, Uccellino Fortenassi. Anche l'acqua compare spesso: si ode il suono dell'acqua che scorre o di gocce d'acqua che cadono, mentre scorrono alcuni sfondi costituiti da filmati che mostrano specchi d'acqua; il brano sui mercanti bolognesi in Egitto nel III secolo d. C. è commentato da un filmato che mostra un'imbarcazione in mezzo al mare; il filmato dei trombettieri su una nave compare sia all'inizio sia in chiusura; anche i racconti di Strigo Ninodonna e di Emilio Grassolo hanno a che fare con l'acqua. Il suono delle campane è un'altra costante che riaffiora lungo tutto lo spettacolo. Infine, il testo e la scrittura sono l'esempio più ovvio di variazione sul tema: oltre alla doppia modalità scritto/orale in cui viene trasmesso lo stesso testo, pagine manoscritte in diversi stili calligrafici compaiono spesso sullo sfondo; la stessa scritta appare in stili calligrafici diversi, in corsivo, stampatello, in stile tipografico, ecc.

-L'applicazione del principio del contrappunto è evidente nel contrasto parola-immagine: l'illustrazione testuale è affidata alla parola scritta, mentre le immagini sono spesso apparentemente incoerenti o quantomeno autonome rispetto al testo; un simile effetto di contrasto si osserva anche nel rapporto fra testo e musica. Il continuo alternarsi e la simultaneità di due dimensioni opposte come la realtà storica e la finzione narrativa sono un'altra strategia che mira a creare un conflitto contrappuntistico.

-Infine, la polifonia, come si è detto, è un fenomeno legato alla compresenza di più livelli comunicativi (parola scritta e orale, arte, architettura, film, suono, musica, ecc.) che dialogano, si fondono o si scontrano costantemente. In particolare, l'idea di una fuga a più voci è suggerita con mezzi visivi tramite le scritte di diversi colori e stili, che iniziano a formarsi dopo che la voce narrante ha pronunciato le prime parole del testo e scorrono contemporaneamente sullo schermo, a tratti intrecciandosi e sovrapponendosi.

L'artificio rivelato

Lungi dal toccare o ancor meno esaurire ogni aspetto dell'opera, l'analisi di Sei Storie per Bologna in chiave musicale ha tuttavia messo in luce una fondamentale tendenza nell'arte dell'ultimo Greenaway: nelle sue installazioni architettoniche, in particolare, l'oltrepassamento dei confini fra le arti e del confine fra arte e tecnologia si configura come vera e propria traduzione intersemiotica, che sfrutta effetti sinestetici e sincronismi percettivi non del tutto dissimili da quelli dei film d'animazione disneyani come Fantasia. Tuttavia, le opere multimediali di Greenaway si spingono ben al di là delle semplici corrispondenze audiovisive: tecniche di composizione specificamente musicali, come il ritmo, la polifonia, il contrappunto, la ripetizione, la variazione, la circolarità e il motivo conduttore, costituiscono la vera e propria struttura portante dell'opera, il modello su cui sono letteralmente "costruite" le immagini e l'azione. Nel suo tentativo di fondare una nuova estetica del cinema come arte sincretica per eccellenza, Greenaway sembra tendere all'opera d'arte totale, come ri-creazione dell'esperienza del reale, come fenomeno che tocchi tutti i sensi. Il regista parte dal presupposto che, per fare del cinema un'opera d'arte totale, sia necessaria innanzitutto l'integrazione fra le arti e fra i media artistici e tecnologici; quest'ultima può realizzarsi al meglio tramite l'assimilazione del cinema al più avvolgente e totalizzante dei fenomeni: il suono organizzato musicalmente. Il terzo passo verso l'opera d'arte totale è poi "portare il cinema fuori dal cinema", abbandonare il tradizionale rettangolo della sala cinematografica e utilizzare lo spazio reale (in questo caso l'architettura urbana), in modo che l'opera dialoghi costantemente con lo spazio e con lo spettatore che lo abita.

            In Sei Storie, l'abitudine di Greenaway all'incorporazione di altri media nel cinema si radicalizza, rivelando tutta l'urgenza del suo interrogarsi sulla forma e sulla struttura dell'opera d'arte e, più in generale, della rappresentazione stessa, della capacità dell'arte di rappresentare il mondo, tema di fondo di tutta la sua produzione di artista e cineasta.

Per questo motivo, l'artificio e l'illusione sono l'elemento predominante nella sua arte (rappresentativo in tal senso è L'Ultima tempesta), che ha condotto la critica a definire la sua opera cinematografica come "neo-barocca" o postmoderna per l'eclettismo dei riferimenti e la fondamentale frammentarietà del procedimento compositivo. Greenaway è un mago, che tuttavia non tiene il pubblico sotto il suo incantesimo, ma lo rivela, come Prospero alla fine della Tempesta di Shakespeare e al termine del film di Greenaway. Non rinuncia all'illusione e all'artificio, ma li smaschera:

Rivendico un cinema che riconosce e integra i propri artifici. [.] Perché gli spettatori dei miei film si ricordino sempre di essere al cinema[29]

I want to regard my public as infinitely intelligent, as understanding notions of the suspension of disbelief and as realising all the time that this is not a slice of life, this is openly a film. I want you to keep your mind awake as well as your heart.[30]

Greenaway coinvolge lo spettatore nella sua riflessione sulla struttura e la forma dell'opera d'arte. Lotman osserva, parlando della polifonia nel cinema, che:

[.] il testo [cinematografico] è polifonico in un altro senso: esso non include solo una serie dinamica di segni semiotici diversi all'interno dello stesso livello, ma presenta anche un movimento simultaneo nei vari livelli. Il pubblico riceve insieme al testo anche il codice, poiché il cinema non ci fornisce soltanto informazioni; insegnandoci il funzionamento del suo meccanismo, esso ci dà gli strumenti per ricavarle dal testo. (1977: 147)[31]

La trasmissione del codice insieme al contenuto, dell'artificio insieme all'illusione, avverrà in modo tanto più efficace nella sintesi originale di cinema, architettura e arte ideata da Greenaway negli ultimi anni. Tuttavia, nonostante la sua costante preoccupazione per i presupposti teorici e per la struttura dell'arte, Greenaway conserva intatta la capacità di stupire gli spettatori, di suscitare in loro quella maraviglia (di nuovo ritorna la poetica barocca) che deriva dall'imprevedibilità e dalla continua trasformazione del materiale: in tal modo, il regista britannico riesce a rendere interessante e intenso ogni momento dello spettacolo, coinvolgendo lo spettatore in sempre nuovi giochi linguistici.

APPENDICE: I 21 RACCONTI DELLE TORRI PERDUTE

Segue la trascrizione dei 21 racconti sulle torri perdute di Bologna.

1) Nel 1193, Emilio Grassolo costruì a Bologna una torre di mattoni. Sulla sommità fece porre un gazebo per permettere a Gabrietta Assunto di osservare il suo amante mentre faceva il bagno nel suo giardino di Via Montegrappa.

2) Vittorio Ferrio costruì la sua Torre Bianca nello spazio tra due palazzi, in modo da impedire la vista della Cattedrale al fratello, di cui non approvava lo stravagante entusiasmo per la fede cristiana.

3) La Torre d'Inchiostro di erse come un serpente, quasi a voler divorare le rondini sopra Piazza San Martino.

4) Uccellino Fortenassi murò le finestre della sua Torre Cremisi al fine di celare la propria vergogna per essersi innamorato di un soldato si basso lignaggio di Pesaro.

5) Sassetto usò la torre del padre come biblioteca. Sistemò i libri di storia in basso, quelli di poesia al centro e quelli di teologia in alto.
I libri che egli riteneva fossero brutti, o volgari, o semplicemente ordinari, li gettava dalla cima della torre seguendo un cerimoniale: "Io ti scaccio, libro indesiderato, che tu possa cadere sul selciato di Bologna e scomparire."
I libri cadevano nel vuoto con le bianche pagine svolazzanti e finivano il loro volo in via dei Gessi, ottanta metri al di sotto della torre, per essere presto seppelliti tra i detriti e le macerie della città.

6) Pietro Fosca, vedovo, costruì tre torri come dote per le sue tre figlie. Due delle torri crollarono e la terza si inclinò fino a formare un angolo che corrispondeva, così si disse, alle aspettative della figlia più giovani sulle condizioni del membro del suo futuro marito.

7) La contessa Veracchi si murò viva all'interno della Torre Nera del fratello, terrorizzata dal suo amore per lui.

8) Orboldo Fassi vendette la sua anima agli usurai di Padova per far ricoprire la sua Torre del Corvo con marmo bianco di Carrara. Dopo la sua morte, i figli tolsero le lastre di marmo e le usarono per pavimentare Piazza Porta Nuova. Ciò che era stato innalzato, veniva ora calpestato dai pescivendoli.

9) Di notte Spacci, il siciliano, decorava interamente la sua torre con candele. Nonostante il piacere che traeva dallo spettacolo fosse più grande della sua paura del fuoco, il peso delle taniche e delle bacinelle piene d'acqua, che teneva sulla cima della torre in caso di incendio, ne causò il crollo il giorno della festa di S. Lorenzo, nell'anno 1189.

10) Lo straniero Balsassarre Vesca costruì con grande arroganza la sua Torre dei Sogni, molto alta, così da poter dormire tranquillamente la notte, lontano dal rumore delle strade sottostanti. Quando morì, il rumore della strada ignorò il suo cadavere per tre settimane, fino al momento in cui il fetore attirò un'attenzione tale che non fu più possibile trascurarlo.
I bolognesi seppellirono il corpo del Vesca in una profonda fossa, nel cimitero della Chiesa di Santa Maria dei Servi.

11) Pietro Carrutti costruì la sua Torre Corvina in tre mesi, perché il suo primogenito venisse concepito ad un'altezza appropriata alle sue ambizioni sociali.

12) Federico Maltessa si impiccò alle travi del soffitto del decimo piano della sua Torre delle Urla. Avrebbe preferito un piano ancora più alto, ma la gotta da cui era affetto lo persuase a non salire oltre.

13) Carlo Gottaro tentò di eclissare Pietro Ossellini costruendo la sua torre un metro più alta di quella del suo rivale. La differenza venne costruita nottetempo in legno, dipinta in modo da sembrare mattone.

14) Domenico Bambi comprò un lotto di terreno in via Fretennelli. Poiché il terreno non era abbastanza grande per costruirci una casa, egli costruì una torre. La cucina era al pian terreno e la sala da pranzo all'ultimo piano. Così egli dovette abituarsi a mangiare i tortellini freddi.

15) Paolo Vecchi costruì la torre di famiglia con materiali scadenti, così che potesse crollare sulla sua vanitosa moglie, distruggendo definitivamente lei e le sue ambizioni sociali.

16) Giovanni Ossi costruì due torri in via del Riccio e stese delle reti tra le due cime per poter catturare gli uccelli.

17) Strigo Ninodonna faceva innalzare diversi metri la sua torre ogni volta che le sue navi rientravano in porto.
I suoi nemici pregavano affinché le sue navi naufragassero per paura che, nella migliore delle ipotesi, la sua torre gettasse un'ombra permanente sulle loro case e, nella peggiore, che la torre, diventata troppo alta, crollasse sulle loro teste.

18) Ascanio teneva sua moglie in una villa e la sua amante in una torre. Quando sua moglie morì ed egli sposò la sua amante, fece distruggere la torre e ne usò i mattoni per costruire una stalla. I suoi vicini considerarono l'atto simbolico: fare della tua amante tua moglie voleva dire creare un posto vacante. L'avrebbe riempito con una cavalla?

19) Corpo il moro eresse la sua torre per tentare di mostrare ai suoi figli il deserto del Sahara, ma non salì mai sul tetto, perché era terrorizzato dalle altezze.

20) Cloda Benito venne tenuto prigioniero nella Torre Rotonda per quindici anni.
Quando fu rilasciato, non riuscì ad abituarsi a camminare sul suolo e vagò per le strade in uno stato di panico causato da una paura opposta alla vertigine, per la quale non esiste nome.

21) Stracchi costruì la sua torre usando il denaro che aveva risparmiato per il suo pellegrinaggio a Gerusalemme. Egli si giustificò dicendo che costruire in altezza era un modo migliore per essere vicino a Dio.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Basso A. (a cura di) (1983): Dizionario Universale della Musica e dei Musicisti (DEUMM). Torino, UTET

Bencivenni, A. e A. Samueli: Peter Greenaway. Il cinema delle idee. Genova, Le Mani.

British Council (a cura di): A Guide to Peter Greenaway.

www.britishcouncil.org/italy/english/arts/bologna/greenaway

Cano, C. (2002): La musica nel cinema. Roma, Gremese.

Hocke. G. R. (1989): Il mondo come labirinto. Napoli, Theoria.

Mortara Garavelli, B. (1988): Manuale di retorica. Milano, Bompiani.

Lawrence, A. (1997): The Films of Peter Greenaway. Cambridge, Cambridge University Press.

Lotman, J. (1972): La struttura del testo poetico. Milano, Mursia.

Lotman, J. (1977): Semiotica del Cinema. Catania, Edizioni del Prisma.

Lotman, J. (1992): La cultura e l'esplosione. Milano, Feltrinelli.

Lotman, J. (1998): Il girotondo delle muse. Bergamo, Moretti e Vitali.

Ong. W. (1986): Oralità e scrittura. Bologna, Il Mulino

Renaud, N. (1997): Le calligraphe numérique. http://users.skynet.be/chrisrenson-makemovies/greenaw2.htm

Schapiro, M. (2001): "Semiotica dell'arte" (Field and Vehicle in Image-Signs), in Letture di Semiotica, a cura di Peter Schulz. Perugia, Guerra, 347-364.

Smargiassi, M. (2000): "Le luci di Greenaway ridisegnano Bologna". La Repubblica, 26/6/2000

Trimarco, A. (2000): Opera d'arte totale. Roma, Sossella.

Volli. U. (2000): Manuale di semiotica. Bari, Laterza.

Webster, K. (2001): "Not Drowning, But Filming". Talkabout, Aprile 2001.

Willoquet, P. (1999): Fleshing the Text: Greenaway's Pillow Book and the Erasure of the Body. http://www.iath.virginia.edu/pmc/text-only/issue.199/9.2willoquet.txt 

[1] Cit. in Smargiassi: 2000

[2] Cfr. A Guide to Peter Greenaway, "Quotations", a cura del British Council.

[3] Ibid.

[4] Cit. in Webster: 2001

[5] Cit. in Renaud: 1997.

[6] Cfr. Dizionario Enciclopedico della Musica e dei Musicisti UTET (1983, voce Concerto)

[7] Cfr. Bencivenni e Samueli: 2000, 144

[8] "Come i contorni del corpo di un organismo, il cui patrimonio genetico include i limiti entro cui il suo sviluppo verrà contenuto, così negli elementi formanti la struttura della cultura sono inclusi i limiti della sua 'pienezza'. Qualsiasi struttura architettonica ha la tendenza a 'crescere' fino a diventare insieme" (Lotman: 1998, 47)

[9] Cfr. Bencivenni e Samueli: 2000, 135

[10] Cit. in Willoquet (1999)

[11] Cit. in Willoquet (1999)

[12] Sul tema del labirinto cfr. Hocke: 1989.

[13] Volli: 2000, 302

[14] Lotman: 1972, 323

[15] Mio grassetto

[16] Volli: 2000, 227

[17] Lotman: 1998, 102.

[18] "Come, d'altra parte, non sospettare una buona dose di ironia in un tale dedalo si significati? Sarebbe anzi un tentativo di scoraggiare ogni lettura eccessivamente interpretativa per riuscire a mantenere, come direbbe Jung, il simbolo in vita. Secondo il regista non è necessario verbalizzare il significato di un simbolo per apprezzarlo, dato che per lui l'immagine cinematografica risulta sempre e comunque più potente e autonoma della parola. Dunque, in Greenaway il simbolo vivo è immagine, mappa indecifrabile, dizionario perduto". (Bencivenni e Samueli: 2000, 95).

[19] Cfr. Lotman: "L'opera d'arte può essere usata un infinito numero di volte." (1992: 153)

[20] Mio grassetto e corsivo

[21]  "Se l'arte creata direttamente sul computer non ha ancora acquisito grande importanza, questo si deve forse al fatto che il computer in sé costituisce un'invenzione così straordinariamente originale. Tuttavia, senza dubbio siamo consapevoli che i videoclip di MTV, gli spot pubblicitari che entrano nelle nostre case e i film che guardiamo sembrano muoversi a una velocità molto più alta rispetto alle vecchie immagini. La maggior parte dei film e degli spettacoli televisivi degli anni Sessanta oggi ci appaiono estremamente statici. Quando visitiamo gallerie d'arte e musei andiamo in cerca di un'arte visiva che corrisponda alla nostra esperienza visiva contemporanea. Quando facciamo lo zapping attraverso i canali televisivi diventiamo fruitori di piani narrativi multipli: la pittura, la scultura e il video dovrebbero quindi, a quanto pare, essere tutti ugualmente "dinamici" (Fare arte oggi, in "Tema Celeste" 96) 

[22] Cfr. Bencivenni e Samueli: 2000, 141.

[23] Peter Greenaway cit. in Bencivenni e Samueli: 2000, 85)

[24] Illuminanti, a riguardo, sono le osservazioni di Vittorio Bodini sul cinema come arte barocca per eccellenza: "Se Góngora, se Borromini e gli altri avessero potuto vedere il tuo film [Don Giovanni di Carmelo Bene] non avrebbero mancato di accorgersi che il cinema è l'arte più barocca che ci sia perché in esso coi colori, con la materia, con la parola, spontaneamente si dà quel dinamismo che essi perseguirono in forma mediata nella metafora, nei contrasti di elementi, nei chiaroscuri e con mille altri accorgimenti propri dei loro strumenti, con quella totale labilità e momentaneità delle immagini che corrono rapidamente incontro alla loro distruzione". Cit. in Bencivenni e Samueli: 2000, 95

[25] Cfr. U. Eco: "Opere e flussi", in La bustina di Minerva, Milano, Bompiani, 1999/2001, pp. 275-276.

[26] Bencivenni e Samueli 2000: 138-139.

[27] Bencivenni e Samueli 2000: 138.

[28] "Il livello strategico della magia o pensiero mitico è [.] quello del bricoleur: la sua caratteristica è di 'elaborare insiemi strutturati, non direttamente per mezzo di altri insiemi strutturati, ma utilizzando residui e frammenti di eventi [.]; testimoni fossili della storia di un individuo o di una società'." (Trimarco: 2000, 166)

[29] Bencivenni e Samueli: 2000, 76.

[30] A Guide to Peter Greenaway, "Hallmarks".

[31] Mio corsivo

 

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