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Sull'utilità e il danno del pensiero di M. Heidegger (Per la "filosofia" del prossimo secolo)

(Parol on-line, ottobre 1998)

di Antonello Giugliano

L'anno passato e quello in corso possono senz'altro dirsi, per quanto riguarda la scena filosofica internazionale, anni heideggeriani per eccellenza. Se infatti nel 1996 è caduto il ventesimo anniversario della morte di Martin Heidegger, il 1997 segna il cinquantenario della prima apparizione della sua opera principale, Sein und Zeit (1927), vale a dire dello scritto filosofico più eminente - nel bene come nel male -, più problematico e più influente dell'ultimo secolo e con ciò della fine del secondo millennio europeo.

Questa forse non casuale collocazione transepocale della sua opera complessiva e del suo pensiero fa di Heidegger un momento privilegiato di riflessione filosofica sui caratteri di fondo dell'oggi del mondo nella sua dimensione planetaria e nella sua storia vicina e lontana.

In effetti, si può dire che proprio ad una metafisica del presente in quanto presente della vita dell'uomo e del mondo, nella intima interconnessione delle loro dimensioni storiche e futurative originarie, è fin dall'inizio dedicata la meditazione heideggeriana nel suo complesso, la sua riformulazione peculiare dell'antichissimo meleta to pan.

E ciò sia che si trattasse di determinare, attraverso la filosofia in quanto scienza primordiale della vita, la struttura 'logico-esistenziale' dell'individualità dell'esserci umano e la intima storicità della sua preminenza ontica e perciò della sua comprensione ontologica; sia che - una volta fallito il tentativo, sotto un certo aspetto ancora 'umano, troppo umano', di una filosofia in quanto 'visione-del-mondo' scientifica e rigorosamente capace di far 'vedere' le 'cose stesse' (e ciò accanto e contemporaneamente al progressivo svelarsi a Heidegger, che aveva creduto di poterla reggere e fondare filosoficamente, della 'Weltanschauung' nazionalsocialista come solo più di un camuffamento ed una distorsione ideologico-speculativi operati dal destino della filosofia stessa ed ormai ad essa stessa consustanziali) - il confronto filosofico si concentrasse necessariamente su Nietzsche quale massimo tematizzatore contemporaneo di una antimetafisica della 'apparenza', dell'apparenza cioè in quanto estremo autosvelamento della 'verità' dell'essere in forma di 'sostanza' vieppiù insostanziale del mondo attuale e della sua possente evanescenza in una infinita fuga prospettica di visioni del mondo e manipolazioni di esso e di esse in un panopticum di materie immaginali; sia che, infine, questo lungo ed arduo confronto con il radicalmente antiumanistico ed anticristiano pensiero di Nietzsche costringesse Heidegger a tentare di imbrigliare ed urbanizzare la tragica veemenza speculativa nietzscheana per ripensarla nei termini di un 'momentaneo' (anche se bimillenario) oscuramento intrinseco alla storia propria della verità dell'essere la cui necessità, pur comprendendo il massimo di perdizione nel suo vortice di insensato ottenebramento abissale (la metafisica occidentale nel compimento della sua fase finale), nondimeno sembrerebbe poter racchiudere ancora una promessa di salvezza, e precisamente per un pensiero che sappia e voglia porsi all'ascolto ed in attesa di un ulteriore inviarsi e rivolgersi dell'essere all'uomo: cosa quest'ultima solo eventuale, in quanto 'evento' propriamente ed autenticamente attuale nella fase odierna della storia dell'essere è lo 'spossessamento' di sé da parte dell'essere stesso, il suo enigmatico 'dis-evenire', il suo simultaneo essere epperò darsi nella forma del suo proprio non, dunque nella forma dell'autoannichilimento e perciò anche del possibile annichilimento dell'uomo stesso, al quale esso si è finora elettivamente rivolto ed affidato.

Questa fase finale del pensiero di Heidegger, intenta a meditare sull'essenza e sul senso della tecnica odierna quale forma suprema della metafisica occidentale e del suo dominio planetario, così come - attraverso un 'passo indietro' rispetto alle forme tradizionali dell'argomentare filosofico occidentale e perciò anche attraverso una interrogazione di quelle forme (prevalentemente 'poetiche') in sé potenzialmente dissipative della tradizione 'ontoteologica' occidentale, apparse ai primordi e al compiersi di questa tradizione stessa, nonché conseguentemente anche attraverso un confronto con alcune esperienze e forme di pensiero 'aurorali' della tradizione asiatica estremo-orientale - a predisporre il pensiero all'ascolto del linguaggio originario in quanto parola dell'essere che si rivolge all'uomo, questa fase finale, dicevo, è l'aspetto del pensiero heideggeriano che negli ultimi anni è stato maggiormente d'attualità.

Tuttavia, con risultati spesso anche grotteschi, in quanto sulla scia del tono criptico ed oracolare degli stessi testi del filosofo di Friburgo si è prodotta tutta una scolastica heideggeriana di incerta qualità, di tonalità per lo più orante, ed esprimentesi in uno stretto dialetto tardo-heideggerese misticheggiante e soprattutto mistificante ed alla fin fine oscurante gli stessi autentici termini della precisa benché ardua problematica del pensiero di Heidegger sin dai suoi inizi fenomenologici eterodossi.

Non trascurabile parte in questo generale gradimento e revival religiosi della più tarda meditazione heideggeriana ha avuto tutto quel pensiero di impronta teologica o comunque teologizzante (penso qui non solo a tutto quel genere semiserio di cosiddetta teologia dell'ascolto e della ricerca dell''altro' - in cui il teologo-manager heideggerianeggiante, ora esperto anche di marketing cultural-televisivo, strizza l'occhio e stringe infine la mano allo scienziato diventato ormai credente - ma anche e soprattutto a quegli apparentemente insospettabili interpreti laici del pensiero heideggeriano che riscoprono vieppiù il loro proprio irresistibile non poter non dirsi cristiani: un fenomeno questo, americano ed europeo, che ha di volta in volta le proprie peculiari coloriture storico-culturali e dimensioni geografico-religiose, come nella sempre più 'cattolicissima' intellettualità filosofica italiana).

A questa variegata costellazione di pensiero anche insospettabilmente teologizzante non è parso vero di poter disporre - dopo Nietzsche e nonostante Nietzsche - per i propri specifici scopi costruttivi ed edificanti (ideologico-weltanschaulich) di una concettualità filosofica come quella del tardo Heidegger, così rigorosa e sofisticata (anche grazie al diretto confronto e scontro col pensiero nietzscheano) ed insieme così intimamente (e pericolosamente) contigua al terreno teologico. E' questo un ulteriore aspetto dell'attualità del pensiero di Heidegger, un aspetto che tuttavia andrebbe analizzato spregiudicatamente nel suo pieno significato e nelle sue implicazioni per poter approfondire il pensiero heideggeriano anche contro i propri limiti e dunque anche oltre Heidegger stesso.

Al di là di quest'ultimo aspetto, sulla cui importanza e paradigmaticità tornerò fra poco, ad esso comunque connessa resta la non meno attuale necessità per il pensiero contemporaneo di trovare il modo di continuare sulla strada heideggeriana di una critica filosofica che si interroghi circa il senso del presente storico-epocale, dell'oggi, in cui, per esempio, accanto al trasformarsi del tradizionale commercio mondiale di esseri umani in quello avanguardistico di organi e pezzi di ricambio umani (ivi compresi spezzoni di impalpabili sequenze di matrici genetiche), le polimorfie di una cibernetica planetaria - ingegneria genetica, biotecnologie, informatica, prossemica etc. - predelineano con crescente accelerazione l'anamorfosi di un mondo-nuovo senza più 'terra', né più 'spirito', né più 'corpo', né più 'linguaggio' etc., per la loro 'rarefazione' in una reale-virtualità propria di un 'abitare' senza più il 'mondo' e forse senza più l''uomo' così come esso è stato nella tradizione degli ultimi millenni. Com'è noto sono questi i temi, riassumili sotto la generale formula metafisica di "devastazione della terra"[Cfr. M. HEIDEGGER, Oltrepassamento della metafisica, in ID., Saggi e discorsi (1954), a cura di G. Vattimo, Milano 1976, pp. 45-65.], cui il pensiero heideggeriano, ben prima di qualsiasi moda filosofico-ecologistica, ha dedicato nella sua lunga fase finale tutto se stesso.

Non è un caso, perciò, che oggi, alle soglie di questo immane e forse ancora inimmaginabile rivolgimento del fondamento stesso di tutto il nostro modo di 'esistere', i due maggiori poli di attenzione e di studio del pensiero di Heidegger siano proprio i due massimi siti planetari di concentrazione e produzione tecnologica ed informatica, vale a dire gli Stati Uniti d'America ed il Giappone, che, senza implicare qui alcun giudizio di valore, è possibile definire descrittivamente come i due luoghi storico-universali del massimo sradicamento tecnico-planetario, il massimo dell'Occidente ed il massimo dell'Oriente, uniti nel nome del supremo filosofo della nazione metafisica per eccellenza, ossia di quella nazione che per prima ha sperimentato la forma scientifica della devastazione: l'inabissarsi dello spirito nella sua suprema bestialità, così come l'innalzarsi dell'istinto bestiale alla sua propria più sublime spiritualità.

Se qui da noi in Italia sono abbastanza noti gli studi e gli sviluppi del pensiero heideggeriano in ambito americano, [Una buona panoramica sullo stato di questi studi è offerta dai numerosi contributi contenuti nel recente volume di B. E. BABICH (ed.), From Phenomenology to Thought, Errancy, and Desire: Essays in Honor of William J. Richardson, Dordrecht/Boston/London 1995.] anche perché per impostazione generale non molto dissimili da quelli continentali europei, purtroppo ancora quasi del tutto sconosciuta è invece la vicenda della notevole e peculiare recezione contemporanea del pensiero di Heidegger in Giappone [ Su questo tema cfr. Y. YUASA, The Encounter of Modern Japanese Philosophy with Heidegger, in G. PARKES (Ed.), Heidegger and Asian Thought, Honolulu 1987, pp. 155-174, e soprattutto gli importanti e numerosi materiali raccolti nel volume di H. BUCHNER (Hrsg.), Japan und Heidegger, Sigmaringen 1989. ] (contemporanea anche nel senso di coeva al primo sorgere del pensiero heideggeriano stesso) [ Cfr. su ciò R. ÔHASHI, Die frühe Heidegger-Rezeption in Japan, in H. BUCHNER (Hrsg.), op. cit., pp. 23-37; nonché, ibid., pp. 89-108, la trad. tedesca (di J. Laube) del notevole saggio di H. TANABE, Die neue Wende in der Phänomenologie - Heideggers Phänomenologie des Lebens (apparso, nell'ottobre 1924, nella rivista filosofica "Shisô").].

Anche questi aspetti sono rappresentativi dell'attenzione che da diversi angoli del pianeta viene rivolta attualmente al pensiero heideggeriano, aspetti che per una valutazione globale del suo pensiero non sono affatto secondari, ma che a ben vedere per importanza intrinseca stanno alla pari con la spinosa, mai sopita e sempre ricorrente questione del significato dell'adesione di Heidegger al nazionalsocialismo, del rapporto del suo pensiero con l'ideologia propria di quest'ultimo movimento ed infine dell'impenetrabile ed ostinato silenzio di Heidegger sull'Olocausto negli anni successivi alla guerra e fino alla sua morte [Su questo tema tanto controverso quanto ricorrente cfr. almeno la più recente raccolta di contributi offerta da A. MILCHMANN & A. ROSENBERG (Eds.), Martin Heidegger and the Holocaust, Atlantic Highlands (NJ) 1996.].

In effetti, lungi dall'essere aspetti solo particolari e settoriali della fortuna e/o della sfortuna dell'opera complessiva di Heidegger, ciascuna di queste connessioni problematiche, se colta in profondità, costituisce invero di volta in volta a suo modo una delle molteplici possibilità di accedere, attraverso un sentiero, al cuore della problematica fondamentale del pensiero di Heidegger, dei suoi percorsi e dei suoi sviamenti.

Per esempio, la stessa questione, apparentemente di importanza solo più storico-culturale e geografico-culturale, della precoce recezione giapponese del pensiero heideggeriano implica di per se stessa il problema del significato, per la comprensione stessa di quest'ultimo, della percepita vicinanza e affinità elettiva del pensiero filosofico nipponico ed innanzitutto del suo retaggio buddhistico zen, dunque di un retaggio concettuale extracristiano, con la più radicale riflessione heideggeriana sull'essere in quanto 'Nulla'.

Ciò a sua volta rinvia alla connessa questione circa il perché coloro che all'inizio degli anni venti scoprivano il pensiero di Heidegger con gli occhi sottili della polìtropa cultura del paese del sol levante provenissero in un modo o nell'altro proprio dal neokantismo sudoccidentale e segnatamente da quello rickertiano alla scuola heidelberghese del quale anche essi (Sh. Kuki, K. Miki etc.) [ Sulla presenza nipponica nella cerchia rickertiana di Heidelberg cfr. quanto scrive H. GLOCKNER nel suo Heidelberger Bilderbuch. Erinnerungen, Bonn 1969, p. 229: "Die japanischen Philosophiestudenten, welche in der Folgezeit in immer größerer Anzahl in Rickerts Vorlesungen auftauchten, wählten jedoch in der Tat Heidelberg als Studienort, weil Windelband und Rickert in ihrer Heimat bekannt waren und - besonders unter den Schülern Inouyes - Anhänger besaßen"; in particolare, su Sh. KUKI, cfr. ibid., p. 232. Com'è noto, Heidegger fa riferimento a Kuki nel suo saggio Da un colloquio nell'ascolto del linguaggio, contenuto in M. HEIDEGGER, In cammino verso il Linguaggio (1959), trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1973, pp. 83-125. Su Kuki, cfr. l'introduzione di G. BACCINI a Sh. KUKI, La struttura dell'iki (1930), a cura di G. Baccini, Milano 1992, pp. 9-38; nonché la voce dedicatagli da J. HAMADA in H. HAMMITZSCH (Hrsg.), Japan-Handbuch, Stuttgart 1990, pp. 1261-1264. Su K. MIKI (del quale si veda l'articolo Rickerts Bedeutung für die japanische Philosophie, nella "Frankfurter Zeitung" del 25. 5. 1923), cfr. in particolare Y. YUASA, Kiyoshi Miki und Tetsurô Watsuji in der Begegnung mit der Philosophie Martin Heideggers, in H. BUCHNER (Hrsg.), op. cit., pp. 63-78, e inoltre la voce dedicatagli da J. HAMADA in H. HAMMITZSCH (Hrsg.), Japan-Handbuch, cit., pp. 1306-1310. ]- come oltre un decennio prima a Freiburg lo stesso giovanissimo Heidegger (il loro attuale punto di riferimento filosofico) - avevano potuto apprendere l'arduo intersecarsi delle movenze della logica pura con quelle della metafisica del valore, della trascendentalità ed 'irrealtà' di quest'ultimo con quella del giudizio, della teoria logica del giudizio con quella della filosofia in quanto scienza della totalità ovvero in quanto esposizione dell'intero (in cui la parte è inclusa) da parte di una sua parte privilegiata: l'uomo; in altre parole, la questione della teoria filosofica della visione-del-mondo configurantesi ora ancora in quanto filosofia trascendentale del valore e della sua vita 'irreale' e del senso del suo elettivo rapporto con la vita umana che ne è il supporto espositivo.

Proprio la questione del significato della filosofia in quanto 'visione-del-mondo', della sua possibilità ed impossibilità, è infatti il filo rosso che ricongiunge gli inizi del pensiero heideggeriano alla sua fase matura e a quella ultima, ed è ciò che gli permetterà di oltrepassare il secondo millennio dell'era cristiana e di sopravvivere ancora a se stesso.

Alla questione della 'visione-del-mondo', se rettamente intesa, (cioè come tematizzazione dell'autentico rapporto tra 'essere-nel-mondo' e sua propria 'visione', della loro originaria unità ed articolazione esistenziale, e della loro possibile scissione e scadimento deiettivo a mera cosalità e a mera contemplatività) sono collegati - come sue variazioni - quasi tutti gli altri temi e momenti del pensiero di Heidegger nonché la possibilità di una ricostruzione congruente di esso [ Su questo argomento si veda anche quanto scrive J. HABERMAS, Heidegger - Werk und Weltanschauung, prefazione a V. FARÍAS, Heidegger und der Nationalsozialismus, Frankfurt a./M. 1989, pp. 11-37, cfr. in particolare pp. 14-15 e n. 15: "nicht das Verhältnis von Person und Werk, sondern die Verquickung von Philosophie und Weltanschauung [ist] das Problem". ].

Attraverso tale questione è possibile leggere, per esempio, l'avviarsi del pensiero del giovane Heidegger, sotto la simultanea influenza di Rickert, di Lask, e di Husserl, dapprima verso il tentativo di una autonoma costruzione della "vera Weltanschauung" filosofica dello "spirito vivente" e poi verso una decostruzione del rapporto tra filosofia e Weltanschauung, e, quindi, sotto l'influenza di Dilthey e attraverso la critica a Jaspers, verso una riformulazione di questo rapporto nei termini di una filosofia quale scienza originaria della vita nella sua individualità e storicità, una filosofia capace di intendere 'mondo' e 'visione' quali categoriali-esistenziali dell'uomo in quanto esserci storico e, solo in quanto tali, elementi del suo proprio e originario sapere di sé in quanto 'visione-del-mondo'[ Ho cercato di dar conto di alcuni di questi passaggi e sviluppi in A. GIUGLIANO, Intorno al concetto di 'Weltanschauung' nel primo Heidegger, in "Atti dell'Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli", CVII (1996), pp. 351-368, e ID., Note sulla critica filosofica di Rickert e Heidegger alla psicologia delle 'visioni-del-mondo' di Jaspers, in "Atti dell'Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli", CVI (1995), pp. 165-222.].

Sarà appunto questo il tema che, senza mai apparire terminologicamente come tale, starà sullo sfondo anche di ogni passaggio fondamentale di Sein und Zeit; come interrogazione intorno al senso ed alla possibilità dell'essere-nel-mondo e della sua propria peculiare visione, e quindi come interrogazione intorno a ciò che di volta in volta apre simultaneamente il mondo alla visione e la visione al mondo nell'esserci, intorno a ciò che apre la strutturale (categoriale-esistenziale) 'visione-del-mondo' che l'esserci è: il tempo quale orizzonte dell'essere e della sua comprensione; l'interrogazione intorno al tempo quale autentica 'soggettività' (di cui l'esserci umano è solo una 'possibilità') ed intorno alla temporalità in quanto essere del tempo.

La improponibilità del termine 'visione-del-mondo' al fine di una autentica comprensione della cosa stessa della vita era per lo Heidegger della fine degli anni venti non solo direttamente proporzionale al suo utilizzo inflattivo (accanto ai termini intimamente connessi ed altrettanto filosoficamente usurati di 'valore', 'filosofia' e 'vita') nella industria culturale contemporanea; essa invero nascondeva una premessa che doveva mettere in crisi la stessa cautela del pensiero rigoroso e così vanificare ogni pretesa veritativa di una filosofia quale scienza arcontica originaria della vita, al punto da farle venire meno lo stesso linguaggio appropriato: e cioè la sempre più insinuantesi consapevolezza che lo strutturale rapporto categoriale-esistenziale di 'mondo' e 'visione' era solo più un rapporto apparenziale ovvero che la visione era ormai diventata in se stessa irreversibilmente una mera contemplatività rappresentativa, esteticistica e teoreticistica, una mera ocularità, e che dunque il mondo è solo più la visione prodotta da una volontà di visione ovvero che la 'verità' del mondo è la apparenza della sua visione e la visione della sua apparenza. Insomma la terribile consapevolezza che la deiettività, la semplice-presenza, la mera rappresentabilità, la 'inautenticità' fossero sempre più l'unica e 'vera' autenticità dell'essere-nel-mondo. Di qui, però, anche l'ostinata illusione di credere, almeno per un momento, all'inizio dei fatidici anni trenta, di poter ristabilire la 'verità' del mondo, dell'essere-nel-mondo e della sua propria visione, attraverso una 'visione-del-mondo' politico-originaria [Forse le pagine più lucide su questa tanto illusoria quanto disperata ricerca della 'autenticità' le ha scritte in diretta, con riferimento proprio anche a Heidegger, e non senza immediata consapevolezza dei suoi tragici effetti, E. LÉVINAS, Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo (1934), trad. it. di A. Cavalletti, Macerata 1996.], la 'Weltanschauung' nazionalsocialista appunto ("die nationalsozialistische Revolution ist [...] die völlige Umwälzung unseres deutschen Daseins")[ Così si esprimeva Heidegger l'11 novembre 1933 a Lipsia in un proclama a favore della politica di Hitler, cfr. H. OTT, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie (1989), durchgesehene und mit einem Nachwort versehene Neuausgabe, Frankfurt a./M.-New York 1992, pp. 196-197 (qui Ott riprende il documento nr. 132 pubblicato a suo tempo nel volume di G. SCHNEEBERGER, Nachlese zu Heidegger. Dokumente zu seinem Leben und Denken, Bern 1962). ], salvo poi a capire poco dopo che proprio una 'Weltanschauung' - sia pure quella ritenuta suprema perché capace di riunire religiosamente insieme tecnica, scienza, milizia e obbedienza - nella sua operatività di produzione e manipolazione del mondo a propria immagine e somiglianza non può dare conto del problema della 'autentica' essenza di se stessa in quanto tale, cioè della dissolvente riduzione del mondo ad 'immagine' [ Cfr. M.HEIDEGGER, L'epoca dell'immagine del mondo (1938), in ID., Sentieri interrotti (1950), trad. it. di P. Chiodi, Firenze 1968, pp. 71-101. Ma già in tal senso, seppur ancora ambiguamente, si muoveva il precedente corso del semestre estivo 1935, cfr. ID., Introduzione alla metafisica, trad. it. di G. Masi, Milano 1968.].

Di qui però in pari tempo, per Heidegger, l'ineluttabilità di un radicale confronto con la massima scaturigine metafisica della teorizzazione (e non solo teorizzazione) della apparenzialità della 'verita', della vertiginosa insensatezza della totalità, della sua infinita immaginalità e prospetticità, della sua ocularità ed 'animalità', della sua riduzione metafisica a valore e a 'vita' che vuole volere se stessa, del congedo da ogni divinità umanistica, e della necessaria ostensione di una 'scienza' proteiforme di un 'oggetto' altrettanto proteiforme: il tempo 'teriomorfo' e circolare, in altre parole con il pensiero di Nietzsche e con il suo voler essere sigillo del tempo e fonte inaugurale dei tempi della 'in-autenticità' [ Com'è noto l'ultradecennale serrato confronto di Heidegger con il pensiero di Nietzsche, che avrà la prima cospicua ed organica presentazione nei suoi due volumi su Nietzsche, Pfullingen 1961 (trad. it. a cura di F. Volpi, Milano 1994), ha inizio con il corso universitario del semestre invernale 1936/37, cfr. M. HEIDEGGER, Nietzsche: Der Wille zur Macht als Kunst, in ID., Gesamtausgabe, Bd. 43, hrsg. von B. Heimbüchel, Frankfurt a./M. 1985. ].

Ritornerò tra breve sul delicato problema di questo arduo confronto che forse non ha eguali nella storia più che bimillenaria della nostra tradizione filosofica, e solo sul filo del quale è possibile, a mio avviso, propriamente tentare di decidere - in ciò anche per restare in qualche modo fedeli alla traccia di studio propostaci dal nostro convegno - dell'attualità filosofica del pensiero di Heidegger oggi.

Prima vorrei sottolineare come alcune delle problematiche sopra richiamate, connesse al periodo della prima formazione e maturazione filosofica del pensiero di Heidegger, ed innanzitutto quella fondamentale della 'visione-del-mondo', siano abbastanza chiaramente visibili oggi grazie alla pubblicazione, avvenuta negli ultimi anni, nel quadro della edizione delle opere complete edite dall'editore Klostermann di Francoforte, di numerosi corsi inediti del primo periodo di insegnamento di Heidegger a Friburgo. E' questo un periodo che rimanda alla problematica - attualissima e fondamentale per la più avvisata Heidegger-Forschung mondiale [ Tra i lavori più significativi in tal senso ricordo almeno quelli di J. A. BARASH, Martin Heidegger and the Problem of historical Meaning, Dordrecht 1988; M. GROßHEIM, Von Georg Simmel zu Martin Heidegger. Philosophie zwischen Leben und Existenz, Bonn 1991; C. STRUBE, Zur Vorgeschichte der hermeneutischen Phänomenologie, Würzburg 1993; Th. KISIEL, The Genesis of Heidegger's Being and Time, Berkeley-Los Angeles-London 1993; E. MAZZARELLA, Ermeneutica dell'effettività. Prospettive ontiche dell'ontologia heideggeriana, Napoli 1993; J.-F. COURTINE (éd.), Heidegger 1919-1929. De l'herméneutique de la facticité à la métaphysique du Dasein, Paris 1996.]- dei presupposti teoretici della formazione del primo pensiero heideggeriano tra filosofia trascendentale dei valori, filosofia della vita e fenomenologia, vale a dire di quel crogiuolo filosofico (da Rickert a Lask, da Simmel a Dilthey e a Jaspers, da Husserl a Scheler) da cui risulterà la nuova ed originale fenomenologia ermeneutico-esistenziale di Heidegger [Cfr. al riguardo le istruttive considerazioni svolte da Th. KISIEL, Why students of Heidegger will have to read Emil Lask, in "Man and World", 28 (1995), pp. 197-240.], così come il senso dell'ulteriore cammino del suo frastagliato itinerario di pensiero. L'importanza di questi corsi giovanili [ Per un elenco dettagliato di questi corsi, apparsi nel quadro della Gesamtausgabe heideggeriana, e delle loro eventuali traduzioni italiane, rinvio alla esauriente bibliografia posta in appendice a F. VOLPI (a cura di), Guida a Heidegger, Roma-Bari 1997, cfr. in particolare pp. 327-328 e 331-332. ]- dei quali Sein und Zeit sarà solo un precipitato - va forse ben oltre la stessa pubblicazione, nel quadro della medesima edizione complessiva delle opere, di un importante testo inedito della seconda metà degli anni '30 come quello sull'Ereignis, cioè i Beiträge zur Philosophie [ Cfr. M. HEIDEGGER, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), in ID., Gesamtausgabe, Bd. 65, hrsg. von Fr.-W. von Herrmann, Frankfurt a./M. 1989.].

Qui, in connessione con l'incontrovertibile dato di fatto della meritoria e sollecita pubblicazione di tanti importanti inediti heideggeriani in questi ultimi anni - la Gesamtausgabe delle opere di Heidegger, che appare dal 1985 a Francoforte s./M. per i tipi di Klostermann, ha fatto sì che lo stato degli studi sul pensiero heideggeriano mutasse radicalmente e per capacità di approfondimento rendesse in buona parte obsoleto quanto era stato scritto in precedenza -, non sfioro nemmeno la questione di quello che per gli studiosi sarà tuttavia uno dei grandi problemi filologico-filosofici del prossimo secolo, vale a dire la possibilità e necessità di un'edizione critica dei testi heideggeriani. Purtroppo l'ecdotica dei testi heideggeriani, in particolare di alcuni scritti fondamentali, è per motivi disparati ancora solo più un desideratum [ Cfr. su ciò quanto scrive Th. KISIEL, Edition und Übersetzung. Unterwegs von Tatsachen zu Gedanken, von Werken zu Wegen, in D. PAPENFUSS/O. PÖGGELER (Hrsg.), Zur philosophischen Aktualität Heideggers, Frankfurt a./M. 1992, Bd. 3, pp. 89-107, ed i riferimenti bibliografici ivi contenuti. ].

Riprendo ora la questione del confronto di Heidegger con il pensiero di Nietzsche, quale metro di misura dell'attualità dell'uno (e dell'altro). Anche in quanto segue procederò necessariamente in forma concisa e impressionistica, rinviando ad altra sede e ad altra occasione la trattazione più approfondita dei singoli specifici argomenti.

Come ho in parte già accennato, è la problematica stessa della 'visione-del-mondo' nella sua universalità (universalità intensiva ed estensiva, ovvero, nei termini del giovane Heidegger: nella sua 'cattolicità'), quale problematica originaria del pensiero di Heidegger, quella che lo condurrà all'incontro/scontro con la massima negazione di quella accezione categoriale-esistenziale della 'visione-del-mondo' e simultaneamente massima affermazione della visione del mondo, del mondo ridotto a visione, a cosmo-visione: vale a dire con Nietzsche, ovvero il potente annichilatore del Crocifisso attraverso il riconducimento anche di quest'ultimo alla sua primordiale 'materia' generatrice: a Dioniso, l'invisibile dio-animale, il proteiforme proiettatore di superfici e visioni apollinee.

E' solo a partire dal pensiero di Nietzsche intimamente compreso che l'attualità o inattualità del pensiero di Heidegger sarà pienamente misurabile in tutta la sua portata filosofica nel secolo prossimo; se non altro in quanto è solo a partire dal pensiero di Nietzsche che sarà possibile intendere pienamente ciò che resta della filosofia nel prossimo secolo.

Per Nietzsche, ed innanzitutto per Nietzsche, per il quale sin dall'inizio il termine di riferimento, il criterio di 'valore', era stato la vita, la filosofia - la verità - era diventata favola; all'apparenzialità di quest'ultima era necessariamente connessa quella dell'essere stesso e della sua 'soggettità' estrema: il tempo; la fine dell'evo cristiano e della sua cronologia, un radicalmente nuovo ritmo del tempo, a partire dall'apparizione del 'teriomorfo' tempo dei tempi ('il serpente vita': giacché solo un animale astuto poteva simbolizzare l'abissalità del sinolo di ferinità e scienza) [ Su questo punto cfr. M. HEIDEGGER, Oltrepassamento della metafisica, cit., p. 62: "L'incondizionata presa del potere da parte della sovrumanità comporta anche la completa liberazione della subumanità. L'impulso dell'animalità e la ratio dell'uomo divengono identici".], stava a significare per Nietzsche tutto ciò; e tutto ciò significava anche l'apparenzialità del senso del tempo e della vita, della storia, dell'uomo, in un senso la cui distruttività andava ben oltre ogni civetteria filosofica. La fine della filosofia era la stessa fine dell'evo cristiano e del suo modo di far essere il tempo: la fine stessa del tempo.

Ciò sta a significare che laddove vi sia ancora filosofia vi sarà un secolo (un millennio etc.) futuro e viceversa; per cui il 'valore' del pensiero di Heidegger dovrà essere misurato in base alla sua capacità di sostenere e penetrare questa impossibilità della filosofia e del tempo dell'evo cristiano.

Certo se da un lato a Nietzsche si deve la liberazione di questa problematica della 'apparenzialità' della vita e del tempo - problematica che come un'onda lunga insegue, raggiunge e infine sommerge ed oltrepassa il pensiero di Heidegger -, dall'altro, si deve però proprio a Heidegger il ciclopico tentativo di contenere quell'onda, che il pensiero di Nietzsche è, dalla sua forza di distruzione ed autodistruzione filosofica: almeno per il tempo necessario a fissarne una volta per tutte la epocale rilevanza metafisica quale concettualità allo stato 'inaugurale'. E tuttavia, proprio attraverso questa ancora insuperata gigantomachia con Nietzsche, il pensiero di quest'ultimo viene ridotto da Heidegger a 'filosofia', sia pure nella forma estrema della sua autodissoluzione, epperò con ciò ricollocando il pensiero di Nietzsche - cioè il pensiero di colui che aveva anticipatamente dichiarato l'impossibilità di Sein und Zeit in quel fallimento e dissolvenza della propria frammentaria opera metafisica che avrebbe ben potuto portare il complessivo ed autentico titolo di 'Schein und Zeit' - appunto nella tradizione della filosofia stessa [ Per quanto riguarda questo punto mi permetto di rinviare ad A. GIUGLIANO, Tra Nietzsche e la filosofia, in: AA.VV., Verum et Factum. Beiträge zur Geistesgeschichte und Philosophie der Renaissance, hrsg. von T. Albertini, Frankfurt a./M.-Berlin-Bern-New York-Paris-Wien 1993, pp. 209-224. - Un'acuta lettura di questa problematica, anche se partendo da altri presupposti finisce per approdare a conclusioni in buona parte diverse dalle mie, ha dato recentemente F. C. PAPPARO, La passione senza nome. Materiali sul tema dell'anima in Nietzsche, Napoli 1997, cfr. pp. 21, 125-126. ].

Si può dire che anche e innanzitutto questa sagace strategia interpretativa nei confronti di Nietzsche (e soprattutto nei suoi confronti) riveli l'irriducibile ed inaggirabile tratto cristiano del pensiero di Heidegger, che trapela qui forse in misura ancora maggiore che non quando, per es., esso assume uno stile oracolare ed una posa orante e ieratica o laddove si ammanta di una curiosità interconfessionale per il sapere non-cristiano come nell'accenno di dialogo col buddhismo zen giapponese.

Quest'ultima cosa, il persistente tratto cristiano di Heidegger come uomo e come pensatore non è affatto una questione apparentemente solo più polemica ed esteriore; invero, la questione del rapporto del pensiero di Heidegger con il cristianesimo e la teologia ha ed avrà sempre più implicazioni profonde per quanto riguarda l'adeguata valutazione critica del contenuto del pensiero heideggeriano, delle sue origini, dei suoi sviluppi, della sua recezione e diffusione. Fatte le debite distinzioni, anche per il tardo Heidegger può forse valere quanto, in un aforisma (nr. 335, "Lode alla fisica") della Gaia scienza, Nietzsche scriveva a proposito di Kant: "mi vien fatto di pensare al vecchio Kant che a titolo di punizione per essersi sgraffignato la 'cosa in sé' - ridicolissima cosa anche questa! - fu accalappiato dall'imperativo categorico, e con quello in cuore rifece il cammino all'indietro smarrendosi in 'Dio', 'anima', 'libertà', 'immortalità', come una volpe che, smarritasi, ritorna nella sua gabbia; ed era stata la sua forza e accortezza a forzare questa gabbia!" [ Cfr. Fr. NIETZSCHE, La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, in ID., Opere, edizione italiana a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. V/2, Milano 1965, pp. 194-195.].

Anche ciò rimanda al filo conduttore della 'visione-del-mondo' e ai limiti intrinseci del confronto heideggeriano con Nietzsche. La cristianità e cattolicità di Heidegger costituiscono il limite di fondo del suo confronto filosofico con Nietzsche. Di qui anche tutta la opinabilità e relatività del cosiddetto secondo capolavoro di Heidegger, cioè di quell'insieme di note di taccuino e postille più o meno lunghe raccolte ed articolate sotto il titolo di Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) [ Nei quali per altro uno dei temi dominanti, accanto all'affiorare del riconoscimento della centralità metafisica del problema-Nietzsche, è costituito proprio dalla critica del concetto di 'visione-del-mondo', cfr. M. HEIDEGGER, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), cit., per es., rispettivamente, pp. 182, 224, 361-365, e pp. 36-41, 98-99, 211, 479 e passim.]. Proprio qui, malgrado ogni apparente sforzo da parte di Heidegger per pensare in senso contrario, ancora intrinsecamente cristiano è infatti, per esempio, tutto il discorso sullo "Übergang zum anderen Anfang" [ Cfr. ibid., pp. 176-177.] o quello sul "der letzte Gott" [Cfr. ibid., pp. 403-417. Qui "der letzte Gott" è addirittura detto "der ganz Andere gegen die Gewesenen, zumal gegen den christlichen", ibid., p. 403. ]. In effetti, però, il vero e proprio secondo capolavoro di Heidegger sono i due volumi del suo Nietzsche; cioè l'unica opera filosofica nel cui titolo pensiero e persona - persona e pensiero - coincidono completamente in uno. E' necessario domandare allora donde proviene e quale significato ha questa esigenza di scalzare l'importanza ed inaggirabilità del Nietzsche (che probabilmente era tale anche per lo stesso Heidegger, vista la precedenza che egli diede alla pubblicazione di quest'ultimo testo).

Quanto questo problema, intendo dire il problema del suo rapporto con il cristianesimo, intacchi nel complesso la pretesa originalità di Heidegger come pensatore di levatura universale (facendolo non di rado scadere a pensatore per chierici eruditi e d'avanguardia) - e ciò innanzitutto per quanto riguarda il livello del suo grande confronto con Nietzsche - è percepibile altresì dalla reazione che un recente articolo controcorrente, dall'emblematico titolo Wie katholisch war Martin Heidegger? [ Cfr. H. OTT, Wie katholisch war Martin Heidegger?, in "Forum", Juli 1996, pp. 11-15. ], dello storico e biografo heideggeriano H. Ott ha suscitato nel generale entourage scientifico e accademico che assiste la famiglia Heidegger nella edizione della Gesamtausgabe e nelle attività culturali connesse alla promozione e allo studio dell'opera e dell'immagine del filosofo di Meßkirch.

Sono noti i limiti e soprattutto le lacune filosofiche dell'opera biografica di Ott, il quale per altro non ha mai preteso di fornire un resoconto biografico che andasse oltre la storia di una mentalità, quella di Heidegger appunto. Tuttavia qui in questo articolo - che verte intorno ai tentativi della famiglia Heidegger di accreditare una immagine il più possibile conformista e confessionale del filosofo loro congiunto [Esemplari in tal senso sono i tre titoletti presenti nel corpo dell'intervista a Hermann Heidegger, "Auch mein Vater hat geistigen Widerstand geleistet", apparsa nella "Badische Zeitung" del 30 maggio 1996 - e dalla quale lo stesso articolo di H. OTT, cit., prende spunto - che così sintetizzano: "Die öffentliche Aktion war ihm unangenehm", "Er glaubte immer an die Existenz eines Gottes" e "Er schwärmte sehr für Beckenbauer". (Ricordo che questa intervista, rilasciata ad A. Gnoli e F. Volpi, era originariamente apparsa su "la Repubblica" del 12 aprile 1996 col titolo "Mio padre un genio normale", ma che nella traduzione tedesca essa veniva pubblicata "in einer von Hermann Heidegger leicht überarbeiteten und ergänzten Fassung", come riporta lo strillo della "Badische Zeitung"). - Ora sia l'intervista a H. Heidegger che l'articolo di H. Ott sono raccolti e commentati, assieme ad altri materiali (tra cui un altro articolo di Ott sul rapporto di Heidegger con Husserl), da C. OCHWADT (Hrsg.), Verirrungen eines Heidegger-Biographen. Bedauerliche Auslassungen des Professors Hugo Ott in den Jahren 1996/97. Eine Dokumentation, Hannover 1997.], tentativi legittimati anche da ambigue dichiarazioni private da parte di Heidegger stesso (come per es., nel 1954, in occasione della prima messa officiata da un suo nipote sacerdote novello, allorché il filosofo tenendo un breve discorso esprimeva il proprio intimo riconoscimento della dignità del sacerdozio cattolico che a lui stesso in gioventù era stato negato) [ Cfr. H. OTT, Wie katholisch war Martin Heidegger?, cit., p. 13.], epperò allo stesso tempo apparentemente contraddetti da tutta quella parte del pensiero di Heidegger che a partire dalla metà degli anni trenta e almeno fino al 1961 lo vede in serrato confronto metafisico col problema-Nietzsche - viene consapevolmente o inconsapevolmente toccata da Ott una questione il cui spessore problematico rischia davvero di screditare filosoficamente il pensiero di Heidegger una volta per tutte.

Ovviamente a ben poco serve il tentativo di salvare l'ambiguità filosofica di Heidegger nei confronti del cristianesimo con l'inscriverla nel bilancio del suo confronto stesso con Nietzsche. Piuttosto, anche ciò rinvia ai difetti della sua strategia di urbanizzazione del pensiero di Nietzsche. Soprattutto, però, da ciò deriva tutta una serie di conseguenze in merito, per es., alla reale capacità da parte di Heidegger di formulare un pensiero adeguato alla nuova 'barbarie' tecnico-scientifica e dunque un pensiero non più ambiguo di fronte alla realtà antiumanistica ed anticristiana del mondo; in merito quindi, e forse soprattutto, alla possibilità da parte di Heidegger di avocare al proprio pensiero la legittima eredità e continuazione del pensiero di Nietzsche; da questo punto di vista, quello heideggeriano, malgrado la sua grandezza strategica, sarebbe - in quanto pensiero cristiano - la negazione di se stesso in quanto pensiero filosofico. La sua grandiosa interpretazione di Nietzsche - che ha tentato di strappare ed in parte ha strappato il pensiero di quest'ultimo dal gorgo dell'insensatezza non solo filosofica - si rivelerebbe come solo più una sublime contraffazione, la pia fraus di un pensatore cristiano che alla fin fine ha anteposto la fede in un dio alla filosofia, contravvenendo con ciò all'autocraticità totalitaria della autentica filosofia che - sola come un sole - non può giammai tollerare alcunché al di fuori di se stessa, e meno che mai un dio (di qui l'ossimoro costituito dall'espressione 'filosofia cristiana'). Una comprensione dell'essenza tragica della filosofia, questa, che a Heidegger, nella misura in cui il suo pensiero non è avanzato mascherato, non è mai mancata. In tal caso, nel caso cioè che quella radicalità critica del pensiero filosofico di Martin Heidegger, quale la conosciamo nella sua fase giovanile e in quella della grandiosa Auseinandersetzung con Nietzsche, si rivelasse posticcia ovvero solo più finalizzata ad un tendenziale ribadimento del dio cristiano (sotto le mutate spoglie di un dio salvatore avvenire, di un ignoto dio divino etc., etc.), si dovrebbe parlare di una piena legittimità da parte dell'interpretariato filosofico-teologico di ispirazione cristiana di annettersi Heidegger come pensatore cristiano appartenente alla tradizione culturale cristiana. Non vi sarebbe così soluzione di continuità tra "servire Dio" e "servire l'Essere" (l'essere, appunto così come, anche nella scia di molti silenzi di Heidegger, esso viene inteso e frainteso dalla scolastica heideggeriana cristiana).

Qualora però il cavernoso pensiero di Heidegger non sia così semplicemente riconducibile alla propria origine ambientale e culturale tradizionale (già solo in quanto il pensiero una volta avviatosi nel suo procedere non è più un affare privato), qualora esso abbia penetrato tutto l'orrore della 'verità' dell'essere nella sua 'apparenzialità' e nella sua 'animalitas' - così come appunto stanno ad indicare molti luoghi della sua più che trentennale meditazione su Nietzsche, nonché il suo esplicito silenzio sulle vittime dell'Olocausto quali vittime inaugurali del minotauro tecnico-scientifico e della sua applicazione industrial-militare - la sua finale tematizzazione della tecnica si rivelerebbe appunto al suo fondo filosoficamente insincera e, pur con tutta la sua insuperata maestria fenomenologico-descrittiva, ancora di gran lunga inferiore alla diagnosi formulata da Nietzsche nella predizione della vita che sa senza più pensare.

Quella di Nietzsche è l'evocazione di un 'dio' animalizzante, 'teriomorfo', che come il minotauro è solo più apparentemente ancora in parte uomo; un 'dio' che sta alle spalle della storia stessa, e che dunque non è più un dio avvenire, il dio divino dell'altro inizio. Esso è la perfetta 'animalizzazione' dell'uomo. La sua costruttiva dissoluzione. La sua 'apparenzialità'. Più propriamente: l'annuncio della vita pensante senza pensiero. Di qui, anche, la 'distruzione' e l'inanità di ogni antropologia filosofica. Non semplicemente la disumanizzazione. Bensì, 'deominazione' e 'astralizzazione'.

Quale 'atteggiamento' sarà adeguato allora a questo 'evento'? Ben di più che un'ambigua Gelassenheit, che vorrebbe ma non ha alla fine l'audacia di percorrere il corridoio dell'eterno tormento della tecnica planetaria, adeguata sarà una 'scienza' che non si abbandona agli abbandoni, ma che li abbandona e passa oltre. E' quella scienza che non oppone l'etica alla vita, né si camuffa da 'bio-etica' laddove il principio stesso della natalità della vita è dalla vita stessa - che sa senza più pensare - sovranamente spodestato. La gaia scienza è quel sapere in grado di essere all'altezza della verticale brutalitas e bestialitas tecnologico-scientifica e della conseguente 'deominazione' e 'astralizzazione'.

Non posso fornire qui in dettaglio una adeguata precisazione concettuale di questi due ultimi termini. Con una certa approssimazione, è possibile affermare che la 'deominazione' (che non è la disumanizzazione, in quanto quest'ultima presuppone ancora l'umanità dell'umano) è da intendersi come l'intensificazione dell'assenza del bisogno di pensare: pura visione di immagini, pura 'eidetica' del mondo; la 'astralizzazione' è invece da intendersi in quanto estensione nello spazio cosmico del sentirsi a casa propria (un vero e proprio dis-abitare) nella desolazione della terra devastata. L'una cosa rinvia costantemente all'altra. E ad esse pertiene quel sapere adeguato che si chiama 'gaia scienza' (ma un altro nome non meno adeguato sarebbe quello di 'biologia dell'ombra').

Essa - la 'gaia scienza' - non è però semplicemente la Gelassenheit heideggeriana, che è ancora umana, troppo umana, ancora troppo cristiana, bensì è una piena ed assoluta compenetrazione con il cammino dell'evo, dell'eone, che inizia ad andare verso il perfetto dissolvimento della natura e del corpo, verso il congedo dalla e della terra, della e dalla umanità tradizionale degli ultimi ventimila anni, verso una colonizzazione delle sterminate desolazioni dello spazio cosmico da parte di qualcosa che ricorda vagamente l'uomo. Forse per conoscere ed insieme perdere definitivamente se stesso e la propria origine.

Ci sarà allora un 'essere' senza più l'uomo? E' possibile che l''essere' si rivolga ad un altro 'ente'? Questo significherebbe violare i fondamenti stessi e i quasi invisibili presupposti del pensiero heideggeriano, quale estrema filosofia umanistica. Ma non è proprio ciò che il pensiero di Nietzsche come una sfida ancora oggi, con Heidegger contro Heidegger e oltre Heidegger, più che mai richiede?

E' in tal senso che in un testo del 1873, anche questo abbastanza trascurato da Heidegger, il giovane Nietzsche - nominando insieme 'apparenza' e 'tempo' - poteva audacemente scrivere: "In un angolo remoto dell'universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c'era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della 'storia del mondo': ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire" [ Cfr. Fr. NIETZSCHE, Su verità e menzogna in senso extramorale, trad. It. Di G. Colli, in ID., Opere, cit., vol. III/2, Milano 1973, p. 355.].

 

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