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Scienza e/o filosofia: che fare ?
(lettera aperta a A. Massarenti del "Sole 24 Ore").

Seguendo lo svolgersi del dibattito tra "analitici" e "continentali", svoltosi su il supplemento domenicale di "Il Sole 24 Ore" nell'estate scorsa, mi sono ritrovato a commentarlo tra me e me con una serie di osservazioni che vorrei, qui e ora, provarmi a rendere note per vagliarne insieme, se possibile, l'utilità.

Si tratta di considerazioni sui rapporti filosofia-scienza e cioè sull'asse attorno a cui il confronto ha inevitabilmente finito per assestarsi. Inevitabilmente, vista la problematica rapportabilità logica tra "continentali" e "analitici", definizione geografica, la prima, e teoretica, la seconda. Tanto più che, come ha ben ricordato F. Barone ( Il Sole 24 Ore del 24/8/97 n.230 ), fior d'analitici sono proprio continentali. Ma andiamo con ordine.

Osservazione prima. Ma che cosa intendiamo quando diciamo "scienza" ? Mi sia concesso procedere nella riflessione con un aneddoto, intuitivamente avrebbe detto Kant. Un aneddoto riguardante Abdus Salam, premio Nobel per la fisica alcuni anni or sono. A un giornalista, che gli chiedeva perché mai egli si accanisse tanto a voler trovare un luogo dove tutte le forze della natura avessero a presentarsi unite, egli rispondeva, lasciando il giornalista di stucco, " Perché Allàh è uno !". Risposta paradossale, per il giornalista, quella di Abdus. "Come è possibile" si sarà chiesto tacitamente il nostro giornalista " che un uomo, che si fa guidare da questa motivazione così rigorosamente religiosa e dogmatica, possa vincere il Nobel nella scienza nostra, occidentale, critica e laica?". In realtà Abdus Salam sapeva, e con lui la nostra scienza stessa al suo livello più epistemologicamente consapevole sa, che le teorie possono venire da qualsiasi luogo, dalla religione, dai sogni, dalle mele che cadono ( anche questo pare proprio sia accaduto ), dall'estetica pure ( si dice di Einstein che, posto al bivio tra formule egualmente probabili, si lasciasse guidare da quella per lui più bella ) e così via, semplicemente perché, in questo loro luogo genetico, esse non sono ancora scienza, ma semplici, diciamo così, pensamenti in limbo, ancora aperti a qualsiasi identità. Sarà l'uso a decidere: il modello d'uso secondo cui, queste pensate, verranno adoperate.

Quale, allora, il modello d'uso del pensiero proprio della scienza ? Vado ovviamente alla grossa, ma qui che si può fare? Perché non quello, ad esempio, suggeritoci da Popper ? Hai una teoria in testa? Non stare a morirci sopra per verificarla da solo. Proponila invece alla comunità scientifica perché ti aiuti a toglierla di mezzo e se resisterà tanto meglio per tutti. Preoccupati soltanto di formularla in modo tale che sia controllabile e cioè senza contraddizioni interne, intensionali ( da una contraddizione si può dedurre tutto e il contrario di tutto ) e indicando precisamente il livello di realtà ( estensione ), per cui intende valere: l'orizzonte dei fatti con cui essa, avrebbe detto Galileo, intende cimentarsi. Questo, all'osso, il modello d'uso scientifico del pensiero. Ciò che nelle varie scienze resta costante e fa sì che siano "scienza". Non altro. Fisica, chimica, biologia, linguistica, antropologia, scienze dell'uomo, allora, e della natura differiscono tra di loro per il contenuto, per il livello di realtà "guardato", non per il modello d'uso di questo sguardo, che resta uno e immutato in tutte. Da questo punto di vista il bel libro di Kuhn sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche può risultare, per un lettore che non sia Kuhn stesso, che non abbia insomma la sua consapevolezza epistemologica - così voglio sperare -, pericolosamente fuorviante. Può lasciare infatti credere che l'identità della scienza abbia a che fare con la mobilità dei suoi paradigmi, come ormai a destra e a manca si sente sempre più proclamare, ma così non mi pare proprio che sia. Le regole con cui possiamo "controllare" il dire di Newton, quello di Einstein ecc. rimangono al fondo le stesse. Il loro modello d'uso in senso scientifico rimane immutato e con esso la scienza in quanto tale. I paradigmi sono solo la materia che la storia della ricerca fa in esso entrare o uscire. Pensarla diversamente sarebbe un po' come fare tutt'uno della struttura di una casa con i corpi dei suoi visitatori o, che so, fare tutt'uno dell'ellisse con i corpi dei pianeti, sciogliendone di fatto l'autonomia concettuale. La scienza non verrebbe mossa e problematizzata, ma semplicemente cancellata.

Considerazione seconda. Fisica, chimica, biologia ecc. ecc., s'è detto, e perché allora non anche filosofia? Diversi i campi indagati, ma sempre scienza per il modo di studiarli. Avremmo per la filosofia già pronto anche il livello di realtà di sua pertinenza. Per esempio, in Kant, le condizioni stesse del nostro conoscere. Per altri altro, a queste a volte affine a volte diverso, ma sempre di pari importanza. Filosofia allora non come un sapere opposto alla scienza, ma come nome della scienza stessa in una sua particolare regione, la più nobile e difficile forse e lontana. Indagabile forse solo indirettamente, a partire dai suoi segni, ma che cos'è che la scienza non indaga tramite i suoi segni, tramite le tracce che le cose lasciano nella nostra esperienza? Del resto già Aristotele, dopo aver acutamente racchiuso il possibile uso pubblico del nostro pensiero in due grandi campi, quello teoretico contemplativo e quello etico-produttivo in senso lato ( pratico in senso stretto e poietico ) non metteva forse la filosofia ( la filosofia prima o teologia ) insieme alla fisica ( ancora filosofia anche se non prima ) nel campo teoretico? Accezione scientifica, questa, della filosofia, che parrebbe addirittura confondersi con la sua stessa origine, se è vero che la si può far risalire a Pitagora e che Pitagora, interrogato su che cosa fosse la filosofia, pare abbia risposto con l'esempio del mercato. Sia la vita come una fiera: alcuni vi vanno per far compere e questi sono gli uomini pratici, altri vi vanno per perdere tempo e non ci interessano, altri ancora per osservare disinteressatamente cosa succede e questi sono i filosofi. Sguardo disinteressato che è anche, guarda caso, quello a cui, a millenni di distanza, F. de Saussure àncora la possibilità della linguistica di divenire finalmente scienza o che, ad esempio, Rubbia, elegge a guida e motivazione prima della sua ricerca. E poi la storia ha già usato i due termini come intercambiabili, se è vero come è vero che la scienza s'è chiamata fino a poco tempo fa tranquillamente filosofia della natura e che la filosofia, nei suoi momenti di maggior rigore, ha ripetutamente chiesto di essere riconosciuta come scienza, come scienza rigorosa appunto.

Considerazione terza. Il termine filosofia più che una parola appare sempre più come una meta-parola, una parola-valigia si potrebbe dire con un noto poeta del Novecento o anche una parola-cartella per i patiti del computer. Una parola insomma il cui significato si confonde tra le diverse pratiche a cui rinvia e che andrebbe ormai rigorosamente decostruita o, se si vuole, decostruita sempre meglio. E' vero che le parole significano ciò che gli uomini fanno loro significare, ma è pur vero che, in presenza di più termini per indicare la stessa cosa, rigore scientifico esige che quello più equivoco e polisemico lasci il passo a quello più monosemicamente proprio e circoscritto. E' cosa che meritoriamente constata Francesco Barone alla fine del suo intervento, quando invita a prendere atto che la filosofia viene attualmente intesa e praticata tanto come analisi del linguaggio che come visione del mondo. Visione del mondo in senso pregnante, arguisco, e quindi anche etico-politica. Concordo con Barone. Bisogna cominciare a sapere meglio di che cosa si sta parlando quando si parla di filosofia e, soprattutto, precisare sempre in che senso se ne parla. Senza questa avvertenza ogni confronto tra scienza e filosofia non può che essere viziato in partenza. Se il linguaggio è inevitabilmente cultura ( che altro, se no ?), nella distinzione indicata da Barone mi pare riaffiori la citata distinzione Aristotelica tra uso teoretico e uso pratico del nostro pensiero. E può essere un punto ( concordo con chi già l'ha pensato ) da cui ripartire.

Francesco Adorno ha introdotto nel dibattito ( ancora Il sole 24 Ore del 24/8/97 n. 230 ) una sana decostruzione critica della rigidità delle categorie storiografiche in esso implicate, ma sinceramente l'operazione non mi pare completa se non viene affrontata anche a livello di quelle teoretiche qui indicate. Tra le quali non secondaria mi pare l'inevitabile intercambiabilità di "analisi" e "teoretica!". Non presuppongono entrambe, infatti, un occhio vuoto e qualcosa di già dato che in esso appunto si faccia vedere ? Che poi tale dato non possa più essere ingenuamente pensato come la cosa in sé, bensì un costrutto cognitivo frutto del nostro primario rapporto col ( del nostro vivere nel ) mondo ( apertura previa direbbe Vattimo e con lui gli ermeneutici in generale ) è convinzione più che ribadita nel nostro Novecento, tanto nelle scienze dell'uomo ( la linguistica, ad esempio, non studia il suono in sé, ma il fonema, vale a dire il suono già interpretato dalla lingua ) quanto in quelle naturali ( la fisica come scienza in senso stretto non studia l'elettrone in sé, ma l'elettrone interpretato dagli strumenti della fisica stessa in quanto "etica", all'etimo, in quanto pratica pratica ). Non è però convinzione nuova e più che a Kant, che pur andrebbe bene, penso a Galileo stesso e alla sua esemplare, al riguardo, corrispondeza con Welser sulle "nugole". Un occhio, ribadisco, che Rubbia dice curioso, che de Sassure dice disinteressato, che Aristotele, sulla linea di Socrate e di Platone, come ci ricorda in un recente e prezioso libretto Silvano Petrosino ( Lo stupore, Novara, Interlinea Edizioni, 1997) aveva detto disposto alla meraviglia e che Pitagora portava tranquillamente a descrizione della vita, a descrizione ovviamente tetragona ( se no che descrizione sarebbe ? ) ad ogni interesse travalicante lo stupore e la meraviglia e quindi disinteressata, appunto, per ciò che non coincide con il suo proprio e puro motore, con tanti saluti all'incociliabilità di scienza e filsofia.

Luciano Nanni
Marzo 1998

 

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