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Da che cosa dipende l'artisticità di un'opera?: tre voci per un confronto

di Lorenza Mazzei

Più teorie intorno a uno dei temi più dibattuti dell'estetica contemporanea: il problema dell'identità artistica di un'opera. Come rispondere? Uno dopo l'altro Arhtur Danto, Stanley Fish, Nelson Goodman vengono posti, in un incontro ideale, a confronto con il pensiero di Luciano Nanni.

E' la "scuola americana" nelle persone di suoi tre eccellenti rappresentanti che accetta un dibattito in realtà mai avvenuto. Per ogni autore punto di riferimento sono pubblicazioni in cui sono stati rilevati interessanti spunti di riflessione comuni a quelli evinti dai libri di Luciano Nanni.

Danto - Nanni

Fish - Nanni

Goodman - Nanni

Danto - Nanni

Il confronto con Danto ha come punto di riferimento il libro: "La destituzione filosofica dell'arte", con particolare riferimento alla parte riguardante la trattazione degli " indiscernibili", opere d'arte in tutto e per tutto uguali a oggetti d'uso comune. La questione è in che cosa sia la differenza tra un oggetto di uso comune e un'opera d'arte tra loro non distinguibili materialmente. Un problema, a parere di Danto squisitamente filosofico

Per una curiosa evoluzione interna dell'arte del nostro secolo è accaduto che la filosofia ha ricevuto un certificato di autenticità dalle mani della sua antica avversaria, nel senso che la definizione di arte si è rivelata un problema filosofico, da ciò consegue che per tutto il tempo in cui esisterà l'arte vi dovrà essere un posto per la filosofia. Con questo voglio dire che l'arte ha dimostrato che la classe delle opere d'arte non costituisce una specie naturale, per cui alla fin fine la distinzione fra opere d'arte e altre cose non pertiene alla scienza. Ciò è stato dimostrato dalla comparsa d'opere d'arte non distinguibili da veri e propri oggetti che non sono opere d'arte, quantunque le une assomiglino agli altri in ogni dettaglio visibile. Ciò fu eccellentemente attuato da Duchamp e genialmente sviluppato e sfruttato negli anni '60 da Warhol, Lichtenstein, Oldenburg e altri. Si prenda uno qualsiasi dei ready-mades di Duchamp, per esempio lo scolabottiglie, del quale era ancora possibile acquistare esemplari identici non molti anni fa nelle quincailleries di Francia, forse ne esistono anche oggi. Ora, gli scolabottiglie costituiscono una specie naturale in quanto essi possiedono quell'insieme di proprietà che s'accompagnano al fatto di essere scolabottiglie e che sono verificabili sulla base  dei criteri generali. Ma ecco che ora, in nulla diverso dai suoi simili, vi è uno scolabottiglie che è tale secondo quei criteri eppure è anche un'opera d'arte con un titolo, un pedigree, una data di esecuzione e un prezzo elevato quanto quello dei tartufi. Duchamp realizzò un certo numero di ready-mades, ma avrebbe potuto farne quanti ne avesse voluti ed è facile immaginare che li avrebbe ricavati da apriscatole, spazzaneve, pompe per palloncini invece che da ruote di bicicletta, pettini per striatura e orinatoi. In tal modo qualsiasi specie naturale può fornire un'opera d'arte altrettanto indistinguibile da oggetti suoi simili quanto lo è lo scolabottiglie dai propri. Ma tutti questi oggetti eterogenei non possono avere in comune proprietà molto interessanti, in comune possono avere infatti quello che i membri di ogni specie naturale hanno in comune e ciò non è gran cosa. Ma tutti sono opere d'arte o possono esserlo.

Pensiamo a ciò che gli scienziati chiamano isomeri, molecole composte dai medesimi elementi uniti nella stessa proporzione dal peso e dunque indistinguibili dal punto della composizione e della dimensione. Essi, tuttavia, hanno proprietà differenti, dunque vi deve essere una qualche diversità interna che spieghi tale fatto, e si scopre che si tratta d'una diversità nella struttura, ovvero nel modo in cui tali elementi sono collegati. Pertanto l'urea e il cianato d'ammonio sono rappresentati dalla medesima formula, con CON2h4, dal punto di vista chimico essi sono tuttavia diversi e ciò è spiegato dalle loro strutture. Ora, è impossibile pensare che lo scolabottiglie di Duchamp differisca dal tradizionale scolabottiglie in qualcosa di simile a ciò che distingue una coppia di isomeri, oppure che un'accurata analisi scientifica di esso sia in grado di dimostrare dove sta la differenza. Poiché la classe delle opere d'arte non costituisce una specie naturale, è difficile ritenere che l'analisi dell'arte vada risolta con mezzi scientifici. Ma il problema presentato dai ready-mades ha esattamente le caratteristiche di tutti i problemi filosofici.[1]

L'opera d'arte non può essere considerata una specie naturale. Certo che no! Su questo punto vi è accordo tra i due autori. Afferma Luciano Nanni:

Non ci sono opere d'arte per natura, che tali restino in ogni luogo e per tutti. Ma non c'è da stupirsi. Su questo principio si basa la costituzione di ogni cosa: di ogni cosa umana, s'intende, come pure dobbiamo pensare che l'arte sia.[2]

Non altrettanto accordo, invece, su quanto afferma Danto a proposito dell'impostazione da dare al problema e cioè che "è difficile ritenere che l'analisi dell'arte vada risolta con mezzi scientifici, ma il problema presentato dai ready-mades ha esattamente le caratteristiche di tutti i problemi filosofici"[3] . Presupposto di Nanni è al contrario che "tutto può essere oggetto di scienza", essendo la scienza questione di metodo e non di oggetti. Ma per il momento terrei da parte l'impostazione scientifica dell'estetica di Nanni, lasciandomi la libertà di riprendere il discorso in un secondo momento, per dare, idealmente, a Danto la possibilità di esplicitare meglio il suo pensiero. 

I problemi filosofici sorgono ogni volta che ci si trova dinanzi a indistinguibilità appartenenti a specie filosofiche differenti, la cui differenza non è tuttavia di tipo naturale. Il paradigma di una differenza filosofica è basato sulla diversità intercorrente fra due mondi, uno dei quali è pure illusione - e questa era la visione che gli indiani avevano del nostro mondo - mentre l'altro è reale nel modo in cui noi riteniamo che questo stesso mondo lo sia. Il problema di Cartesio di distinguere l'esperienza della veglia dall'esperienza del sogno è una variazione limitata del medesimo problema, laddove è chiaro che non sarà qualcosa di interno all'esperienza a produrre la differenziazione. Possiamo subito fornire altri esempi. Un mondo di puro determinismo potrebbe essere ritenuto indistinguibile da uno in cui tutto succedesse in virtù del caso. Un mondo in cui Dio esiste non potrebbe essere mai riconosciuto diverso da uno in cui Dio non esistesse, in quanto Dio non è una delle cose del mondo, come si sarebbe potuto supporre in una religione primitiva quale fu quella del Vecchio Testamento.

(...) Comunque sia, è chiaro che le differenze filosofiche sono esterne ai mondi da esse discriminati e questo, in modo minore e più abbordabile, è il caso delle opere d'arte che non sono distinguibili dagli oggetti reali i quali, altrimenti, assomigliano ad esse in tutto e per tutto.[4]

Un altro punto di intesa fra i due studiosi: il fatto che ciò che differenzia un oggetto comune da un'opera d'arte da esso indiscernibile non può essere colto a partire dall'opera stessa ma deve essere cercato al di fuori dell'opera. I fatti dell'arte falsificherebbero una teoria che volesse dire il contrario. L'opera di per sé non può imporre la propria artisticità altrimenti tutti gli scolabottiglie diventerebbero opere d'arte o non lo sarebbe nessuno. E' proprio a partire da questo presupposto che, per Danto, può trovare fondamento l'idea che si tratti di un problema filosofico da affrontarsi non con un'analisi scientifica ma con un'analisi filosofica.

E' questo il problema che è stato messo in particolare rilievo nel nostro secolo, poiché precedentemente si era ritenuto che le opere d'arte costituissero una specie naturale, identificabile sulla base di criteri percettivi. L'arte rivelò la sua natura filosofica quando ci rese conto che quantunque le differenze tra la Brillo Box di Warhol e il reale contenitore per spugnette insaponate fossero enormi, esse non erano riconoscibili né spiegabili mediante una qualche sorta di analisi scientifica. Sarebbe stata invece necessaria un'analisi filosofica ed è mio il merito d'aver predisposto le fasi preliminari d'un tal genere di analisi in The trasfiguration of the Commonplace. Non intendo ripercorrere qui l'itinerario di quel libro ma semplicemente sottolineare il metodo in esso indicato, che consiste nel cercare di ideare, ovunque si reputi opportuno attuare una distinzione filosofica, una coppia di indiscernibilia appartenenti a quelle che si ritiene siano specie filosofiche distinte, precisando poi in che cosa consiste la differenza e applicando infine tal metodo al caso in questione.[5]

A seguire una esemplificazione del metodo esposto, confrontando fra loro una coppia di testi "indiscernibili".

Prendiamo, dunque, in considerazione una coppia di testi isomerici, testi caratterizzati dai medesimi elementi uniti nella stessa proporzione dal peso, ma diversi in quanto a proprietà (uno è letteratura, l'altro non lo è). Noi seguendo gli imperativi della chimica organica, cerchiamo una differenza esplicativa nella loro struttura e, giusto per imprimere la massima pressione, supponiamo che i due testi siano identici in così tanti dettagli che le differenze residue eventualmente esistenti non possono essere prese in seria considerazione per spiegare la presenza o l'assenza di una certa proprietà. (...) Immaginiamo dunque che un tempo sia realmente esistito un villaggio in cui un tessitore abbia condotto una vita solitaria, sia divenuto avaro a causa di questa solitudine e sia stato derubato da un signorotto locale, lo scapestrato fratello del vero padre della trovatella che per un caso fortunato entra carponi nella casa del tessitore. Quella stessa trovatella, nonostante i suoi geni aristocratici - o, come si sarebbe detto a quel tempo, sangue aristocratico - sposa un giovane del luogo che nella realtà si chiama Ronnie, ma è Aaron nel romanzo di George Eliot. Tutto ciò lo apprendiamo da un testo che non manca di una certa dose di merito letterario, ma che di fatto è semplicemente un divagante esempio di storia parrocchiale, compilato da un obliato archivista di Raveloe il quale non sapeva resistere al fascino delle riflessioni morali. L'altro testo è un'opera di letteratura[6], una di quelle opere per mezzo delle quali si insegna il significato del termine "letteratura" agli angosciati e ricalcitranti studenti dei licei nazionali. Non mi seccherebbe se Silas Marner fosse "basato sulla" cronaca (...), né mi seccherebbe che i testi fossero tanto vicini da far sorgere spontaneamente il sospetto di plagio. Il cambiamento del nome "Ronnie" in "Aaron" non basterebbe a levar George Eliot dai guai (non sorprende che essa non abbia voluto scrivere con il suo vero nome![7]) né a giustificare l'asserzione che la sua è letteratura mentre il testo scritto da un uomo il cui vero nome è George Elliott - con due l e due t - non lo è. Dove sta la giustizia, ma ancora più importante dove sta il punto della questione?[8]

 Ma prima di formulare la soluzione del problema, Danto introduce alcuni termini "filosofici" che saranno fondamentali per una corretta comprensione della sua teoria.

Il termine "idea" è tratto, naturalmente, dal linguaggio interno della metafisica (...). Le idee fecero il loro primo fatidico ingresso nella teorizzazione occidentale in alcuni brani di Platone il quale criticava le opere d'arte per la specifica ragione che esse non incarnano le idee, bensì danno semplicemente l'impressione di farlo. Nella sua  filosofia le idee erano le forme che gli oggetti reali del nostro mondo possiedono e, possedendole, acquisiscono quel grado di intelligibilità presente, per quanto imperfetto, in tali oggetti. Gli oggetti, visti come lievemente traslucidi, ci consentono di percepire vagamente la forma o Idea da cui sono irradiati, come se ciò avvenisse attraverso un vetro nell'oscurità. San Paolo, come Platone, contemplava la possibilità di un diretto incontro cognitivo, con tali forme nel momento in cui abbandonassimo gli impedimenti dei sensi come esseri di puro intelletto. Ma così come stanno le cose, noi abitiamo un mondo che è la fusione dell'eterno e del temporale, letteralmente tale in quel ibrido di teorie greche ed ebraiche che è il cristianesimo, secondo il quale Dio assume forma umana ed entra nella storia come Verbo fattosi carne sofferente.[9] 

Finalmente la soluzione. Ecco cosa fa di Silas Marner un'opera di letteraura e per traslato cosa fa di un'oggetto di uso comune  un'opera d'arte.

Silas Marner è idea fattasi carne nella metafisica letteraria di George Eliot (...). Ciò che rende Brillo Box opera d'arte è il fatto di incarnare, di esprimere, qualsiasi idea essa esprima e dunque è idea e semplice oggetto allo stesso tempo, una scatola trasfigurata, ma soltanto nell'idea di scatola. Le scatole di Brillo normalmente utilizzate per il confezionamento e la spedizione delle spugnette insaponate non incarnano una tale idea ...[10]

E ancora,

Silas Marner incarna un'idea la cui intelligibilità è diversa da qualsiasi altro tipo di capire impiegato nella comprensione delle parole, caratteristica che Silas Marner ha in comune con il suo equivalente o isomero della storia del villaggio. Mi ritrovo a voler credere che Brillo Box possieda una specie di anima, sia pure impercettibile, giacché, i suoi equivalenti, che sono privi di anima, hanno il medesimo aspetto.[11]

Le affermazioni di Danto non possono non sconcertare. Se nei presupposti della sua teoria c'è la sacrosanta presa di distanza dall'oggetto, nelle conclusioni è proprio all'oggetto che si ritorna, anche se per via metafisica (e questo mi sembra un'aggravante), postulando nell'opera d'arte un'anima, di cui sono privi i suoi equivalenti nell'aspetto, la cui supposta esistenza non permette nessuna controllabilità. Popper definisce una teoria che non è passibile di controllo empirico una teoria non falsificabile. E proprio il criterio di falsificabilità costituisce una linea di demarcazione fra scienza empirica e pseudo-scienza o metafisica. In base a questi presupposti quanto ha affermato Danto non può essere considerato una teoria, in senso scientifico ovviamente. Teorie come quella proposta da Danto sono definite da Nanni pseudo-teorie per tautologia, cioè non-teorie in cui il problema invece di venire risolto è semplicemente spostato di livello.

Se i problemi sono paradossi compito primo e unico della teoria scientifica è quello di toglierli dal "para" per farne semplicemente delle "doxa", di far sì insomma che ciò che a un certo punto passa a fianco, turbandoci, del nostro sapere, si armonizzi quietamente con questo nostro sapere passando dal suo esterno al suo interno. (...) Compito della scienza, ..., sarà (è) quello di proporre una qualche teoria capace di fare rientrare il fenomeno nella normalità, di addomesticamento, insomma, di tale estraneità. Ora perché ciò accada, occorre che la teoria non si presenti a sua volta come paradossale, che anch'essa, in conclusione, non passi a fianco delle nostre attese circa una teoria scientifica corretta: non si spiegano i paradossi con altri paradossi. Una teoria che avesse a pretendere di darci (come dire?) ragione scientifica di un qualche paradosso d'esperienza (e di che altro, se no?)  presentandosi a sua volta come paradossale e quindi secondo modalità d'autocostruzione che nulla hanno a che fare con quanto ci aspetteremmo da un corretto discorso scientifico, non farebbero che spostare, appunto tautologicamente, il paradosso stesso dal piano dell'esperienza al piano (meta-piano) della riflessione sull'esperienza, raddoppiando semplicemente il nostro bisogno di chiarezza: prima avevamo un problema, ora ne avremmo due; il problema (il paradosso) di partenza e quello che (indebitamente, si capisce) si pretende funga da sua spiegazione.[12]

Esattamente quanto sembra emergere dalla soluzione proposta da Danto che postula per l'opera d'arte un'anima, un'idea incarnata, in sé del tutto inacquisibile e inconoscibile.

Danto stesso sembra rendersi conto che quanto ha proposto come soluzione non soddisfa completamente. Lo si evince dalla necessità che sente di chiarire ulteriormente la sua posizione.

Cercherò di chiarire che cosa possano significare questi accenni piuttosto oscuri, e conseguentemente, come mai l'espressione "incarnare un'idea" risulti tanto attraente. (...) Silas Marner è Silas Marner in base al percorso diretto del riferimento, ma Silas Marner è anche Silas Marner in base al diverso percorso dell'identificazione metaforica. Ma in quel modo Silas Marner è anche chiunque noi. Il romanzo dà un insegnamento estetico in quanto assegna alla vita del lettore il significato incarnato dal libro; è questa, a mio avviso, la meta a cui George Eliot (una sola l, una sola t) pervenne e a cui George Elliott (due l, due t) non perviene, anche se i loro due testi possono essere isomeri perfetti.[13]

 Per Danto il romanzo Silas Marner, come opera d'arte, diventa metafora applicabile alla vita di ogni lettore assumendo caratteri di universalità sconosciuti al racconto parrocchiale.

L'universalità del riferimento letterario sta solo nel fatto che esso è incentrato su ogni individuo che legge il testo nel momento in cui lo legge e che esso contiene un implicito elemento d'indice; ogni opera è incentrata sull' "Io" che legge il testo il quale identifica se stesso non con l'implicito lettore per cui l'implicito narratore scrive, bensì con l'effettivo soggetto di quel testo, cosicché ogni opera diviene metafora di ogni lettore, forse la medesima metafora valida per ognuno.[14]

Da dove Danto tragga tali conclusioni è egli stesso a dirlo. E se, come  aveva anticipato,  la soluzione è filosofica allora anche la paternità di tali idee non può che essere filosofica. E così è.

La famosa tesi di Aristotele dice, naturalmente, che la "poesia è qualcosa di più filosofico e di più importante della storia, in quanto le sue asserzioni condividono la natura degli universali, mentre quelle della storia sono singolari"[15]

Ciò che intendo dire è che la letteratura è universale (...) perché tratta di ogni lettore che di essa fa esperienza.[16]

Questa, dunque, la differenza che Danto vede tra un testo di letteratura e un racconto parrocchiale il che equivale a dire fra un'opera d'arte e un oggetto di uso comune tra loro indiscernibili. Danto opta alla fine per un aristotelismo di maniera lasciando di fatto il problema irrisolto: la supposta universalità non è altro che una vera e propria illusione trascendentale, effetto del gesto ideologico che lo porta a pensare gli effetti come cause. Nè può essere ritenuta una giustificazione il fatto che Danto a più riprese nel libro ribadisca che la sua soluzione non vuole essere scientifica ma filosofica (ma sarebbe meglio dire metafisica), intanto perché egli si propone di fare una riflessione di estetica e non di poetica e in secondo luogo perché la possibilità di un discorso scientifico esiste eccome anche se egli sembra escluderla a priori. Anzi è l'unica strada possibile da percorrere altrimenti ci muoviamo nel campo delle interpretazioni personali, spazio destinato alla critica, ma non è quanto ci attenderemmo da una seria e corretta riflessione estetica. Confondere i due livelli di riflessione, l'estetica con una poetica, porta solo a una complicazione maggiore del problema iniziale. E' Nanni che adesso interviene chiarendo la sua posizione al riguardo:

Nella più corretta, a mio parere, riflessione sulla vita dell'arte nel Novecento circolano ormai in coppia due termini "poetica" ed "estetica", il primo per indicare il punto di vista produttivo dell'arte e l'altro per indicarne invece il punto di vista di chi se la prende cognitivamente (scientificamente) in carico. Ecco, se si vuol fare scienza corretta dell'arte non bisogna confonderli.[17]

Ora c'è una pronuncia novecentesca dell'estetica che questa confusione l'ha rifutata da tempo. (...) Mi riferisco all'identità che all'estetica viene data nella nuova fenomenologia critica. Prendiamo il pensiero di Luciano Anceschi in emblema: non solo la distinzione egli la persegue ma ne fa perno per decenni di lavoro. Sappiamo. Un conto sono le poetiche, pratiche legittimamente definitorie in modo dogmatico, sintetiche e produttive: pensiero etico, pratiche etiche insomma nei miei termini. E un conto è l'estetica. Orizzonte puramente teso a comprendere quanto il campo delle poetiche attiva e variamente mette in campo (le opere d'arte) e divide tra loro relaziona secondo moti, continui e discontinui insieme, che sono quelli della vita. Arte (poetiche) uguale vita. Estetica uguale a riflessione sulla vita. Guai, anche per Anceschi, ad un'estetica che si facesse contaminare dai modi delle poetiche e dell'arte. Morirebbe come estetica e vivrebbe semplicemente come una poetica tra le altre (tante) senza più alcuna legittimazione a comprenderle. Anzi, naturalmente, loro antagonista e con esse in guerra di sopravvivenza. Morirebbe insomma - e non vedo come, dopo quanto s'è detto non si possa non essere d'accordo - come scienza.[18]

La supposta "universalità" si rivelerebbe

(...) un indebito trasferimento di valori  storicamente costituiti (frutti allora di poetiche) a valori dell'arte in sé e la sua ovvietà poi come un indebito consolidamento a natura (ideologizzazione) di questo stesso trasferimento. Come dire: in base ad una ben determinata e parziale situazione storica si decide che cosa, in quella situazione, debba valere come arte, poi si decide che non si è definito un modo d'arte tra i tanti possibili, ma proprio l'essenza dell'arte in sé.[19]

E' per questa via che, ciò che Danto ha fatto diventare "universale", appare "universale". Ma evitare di scivolare in una dimensione normativa o etica è uno dei principi fondamentali di un estetica in chiave scientifica. L'unica che può portare all'elaborazione di teorie intersoggetivamente controllabili. E' con questa impostazione che Luciano Nanni affronta il problema posto in campo da Danto.

Dopo Duchamp e i suoi ready made casi simili sono oramai all'ordine del giorno nella nostra cultura, con equivoci a non finire. (...) Bene, se l'artisticità non è funzione della struttura degli oggetti e delle loro qualità sensibili, di che cosa sarà funzione? Beh! Non c'è tanto da scegliere. Se l'artisticità non è riconducibile alle cose in sé e se in qualche modo con le cose ha a che fare (l'opera è pur sempre un qualche oggetto, fosse pure, esso, la scritta che lo nega), essa non potrà che risultare legata a un qualche loro modello d'uso. O dentro le cose o fuori: non c'è scampo. Ma che si può dare fuori se non il loro uso? Modello d'uso che può addirittura fungere (e di fatto funge) da ragione della loro nascita. Ho bisogno del tavolino e me lo faccio, e nella forma che proprio mi serve; ho bisogno di esperire la presenza di una certa opera d'arte e me la faccio e così via. Modello d'uso, delega di artisticità (coltivazione del mondo secondo una certa idea dell'arte), una poetica insomma, che potrà anche, poi, date le sue necessità, pretendere (sì) l'attenzione alle qualità sensibili delle cose, ma appunto come sua volontà e non proprio di altri né di altro, in seconda battuta, quindi, e mai obbligatoriamente.

(...)

Principio, questo, tanto più valido in quanto non solo pensabile alla base della costituzione dell'arte, ma dell'identità delle nostre cose in generale. Lo scolabottiglie ( e siamo agli indiscernibili) non è scolabottiglie in sé, ma solo dentro la pratica, la relazione dello scolare-bottiglie. Fuori di questa pratica tale oggetto perde il suo nome e regredisce a cosa. Perché meravigliarsi allora se, entrando in relazione con la galleria d'arte anziché con la cantina, acquisterà l'identità di opera d'arte e sarà apprezzato per la sua forma, il suo colore, ecc? Solo un cieco signore dell'ideologia, un ottuso e cocciuto assolutizzatore di fenomeni ad essenze extra-fenomeniche potrebbe avere a ridire.[20]

Non c'è scelta: non restano che le modalità, le convenzioni d'uso. E' arte ciò che viene usato come arte; non lo è ciò che non viene usato come tale. I soggetti di tali usi, che hanno anche un nome (si chiamano poetiche) possono avere estensione diversa: singoli, gruppi a soggetto diffuso, epocale. In quest'ultimo caso la poetica costituisce la guida di fondo dell'uso artistico delle cose, la delega di artisticità data a determinate cose, propria di intere culture (che so, del Medioevo, della Modernità, ecc.) spesso tra loro in opposizione. E se la cultura è pluralista, poetiche (queste, a soggetto diffuso) con cui quelle dei singoli e dei gruppi determinati devono fare i conti.[21]

E' la nostra poetica che ci fa coltivare oggetti di uso comune come opere d'arte. Poetica che non è completa in nessuno dei suoi utenti ma nella coscienza collettiva dove vive come competenza profonda, congetturabile a partire dai comportamenti della cultura che costituisce. Il XX secolo ci ha mostrato che nessun contenuto può in linea di principio essere legato all'arte: tutto può diventare arte, persino il prodotto di scarto del processo di assorbimento intestinale (Piero Manzoni, Merda d'artista). Un'opera non è capace di imporre autonomamente la propria artisticità ma può assumerla su di sé grazie alla delega di artisticità che una cultura le fornisce dotandola di tale identità. Solo allora comincia la sua vita di opera d'arte con tutti gli effetti che ne conseguono. Cultura, allora, come vuole il suo etimo (cultura da colo,colis,colui,cultum,colere,coltivare) intesa come coltivazione nel senso che coltiva le cose portandole all'identità desiderata.

E' la cultura che funge da fascio di formanti primario (...)  di cui i luoghi sono i significanti, che con i luoghi formano allora i segni contenenti le istruzioni d'uso dei testi (delle opere)[22].

E diverse sono le istruzioni d'uso per un'opera d'arte e per un oggetto d'uso comune anche se queste entità sono tra loro indiscernibili sulla base dell' aspetto esteriore. Quanto Danto pare non riuscire a vedere è che nella nostra cultura sono attive due logiche diverse una di tipo strumentale e pratico, la langue referenziale, l'altra specifica per l'arte, la langue dell'arte. Nanni con un aneddoto esemplifica l'esistenza di queste due logiche e il loro potere formante nei confronti di due oggetti indiscernibili.

Immaginiamo di entrare in un bar, di fissare attentamente il barista in volto, dicendogli "Poesia" e poi dopo una brevissima pausa "per favore, mi dà un caffè?". Non è difficile immaginare per il barista un suo momento di perplessità, di immobilità, quasi si trovasse inchiodato tra due lame rotanti, tipo quelle, poniamo, dei cartoni animati giapponesi. E siccome nulla accade a caso, qualcosa di simile alle due lame rotanti, nel suo cervello (nella sua mente), deve essersi veramente attivato. Siamo infatti tutti d'accordo, credo, che soltanto depotenziando il termine "poesia", riducendolo insomma a uno scherzo, egli sarà in grado di uscire dalla immobilità di partenza dandoci il caffè richiesto e, viceversa, soltanto credendo veramente che, così dicendo, noi abbiamo voluto offrirgli una poesia egli si sentirà rassicurato nel non darci il caffè, passando magari a considerazioni sulla bellezza o meno, sulla provocatorietà o meno di una simile poesia. Il termine "poesia" qui non fa parte del testo, ma del metatesto (contesto) non omogeneo, ma eterogeneo: il termine "poesia" sta qui per i luoghi dell'arte (luoghi che, come tutti gli altri, possono sempre essere vicariati da una parola) e orizzontalmente si oppone, contesto eterogeneo contro contesto eterogeneo, al "bar". La frase da significare è la stessa: "Per favore, mi dà un caffè?" ma "poesia" e "bar" impongono di farlo secondo fasci di istruzioni diverse, secondo langues diverse, addirittura opposte ( da ciò, come in un ideale tiro alla fune, l'immobilità di partenza del nostro barista); monosemia (uso monosemico dei segni) per il "bar" e polisemia (uso secondo pluralità della loro realtà, fisica o mentale che sia) per il luogo "poesia" o arte che sia, in generale. Intuitivamente il nostro barista sente che il "bar" così gli detta: l'unico livello di significato cui devi dare attenzione, in questa frase, è quello che intenzionalmente vi ha inscritto il suo autore; gli devi dare un caffè non altro. Non puoi permetterti di fare attenzione ad altri suoi livelli di significato, pur in essa presenti. Non devi fare attenzione al modo in cui viene pronunciata, al fatto che il caffè possa avere valori simbolici, per esempio evidenziare sacche contrastive di oscura ritualità anche in una società che si vuole così critica come la nostra. E ciò gli vieta esattamente quelle cose che, in opposizione, il luogo "poesia" gli imporrebbe di fare.[23]

Non è qualcosa di intrinseco alla frase indicata (mi dà un caffe?) che può spiegare le due opposte identità culturali appena ipotizzate. La frase rimane materialmente la stessa. La causa del suo mutare di identità non può che essere funzione di quanto nell'esperimento simulato cambia e cioè della logica d'uso di cui la parola "poesia" diventa un esplicito indicatore.

La frase "mi dà un caffè?" assume due identità diverse a seconda della logica d'uso in cui entra. E a seconda della logica diverse saranno gli effetti che ne seguiranno.

La stessa situazione che si realizza nell'esempio proposto da Danto: il romanzo Silas Marner indiscernibile dal racconto parrocchiale è un'opera d'arte perché è in questa logica, logica dell'arte, che viene "coltivato" e il fatto che sia stato pubblicato come "romanzo" è un forte fattore di specificità artistica. Quello che è possibile dedurne, l'anima invisibile o l'universalità della metafora individuale, non può che essere una conseguenza, uno dei possibili significati attribuibili all'opera a livello di interpretazione, di un gesto che è già stato compiuto. Danto ha in mano la soluzione del problema ma non se ne accorge: come succede alla polizia nel racconto di Edgar Allan Poe "La lettera rubata": la lettera è lì in bella evidenza ma la polizia non la vede. Arriva ad affermare (cfr. nota 10, pag.8) che

Ciò che rende Brillo Box opera d'arte è il fatto di incarnare, di esprimere, qualsiasi idea essa esprima e dunque è idea e semplice oggetto allo stesso tempo, una scatola trasfigurata, ma soltanto nell'idea di scatola. Le scatole di Brillo normalmente utilizzate per il confezionamento e la spedizione delle spugnette insaponate non incarnano una tale idea ...[24]

"Normalmente utilizzate ..."! Ecco la vera causa ! E' il modo d'uso che decide l'identità di Brillo Box. Se usata normalmente come contenitore è una semplice scatola; se usata come si usa l'arte diviene arte. Non c'è altra causa. Ma, a differenza di Nanni, Goodman, pur avendo la soluzione in mano, non se ne accorge e non ne trae alcuna conseguenza teorica per rispondere alla domanda di partenza, finendo per ritornare a un aristotelismo di maniera e alla indebita confusione dell'effetto con la causa. E' solo perché s'è deciso di considerarla arte che Brillo Box può anche, volendo - e dico volendo a seguito della legittimata oggi libertà di interpretazione critica - , essere criticamente letta come emblema di un'idea sulla linea di Aristotele, ma non è vero il contrario, non è vero che diventi arte perché incarni una tale idea.

Fish - Nanni

La questione posta da Stanley Fish nel libro C'è un testo in questa classe? è  "Come riconoscere una poesia quando ne vedete una".

Assunto di base del pensiero di Fish è che

i significati non sono proprietà di testi stabili e fissati una volta per tutte, né di lettori liberi e indipendenti, bensì di comunità interpretative responsabili sia della forma assunta dalle attività del lettore, sia dei testi prodotti da tali attività.[25]

A partire da queste premesse Fish intende

"estendere la portata di questa tesi per dar conto non solo dei significati che possiamo attribuire a una poesia ma in primo luogo del fatto che essa possa venire riconosciuta come una poesia"[26].

Lo fa partendo da un anedotto (trascritto per intero come esempio della ricchezza che può assumere l'attività interpretativa del lettore)

Nell'estate del 1971 tenevo due corsi sotto l'auspicio congiunto del Linguistic Institute of America e del Dipartimento d'Inglese della State University of New York, a Buffalo. Le mie lezioni si svolgevano al mattino nella stessa aula. Alle 9,30 incontravo un gruppo di studenti interessati alle relazioni tra linguistica e critica letteraria: ufficialmente, il nostro tema era la stilistica ma in realtà i nostri interessi erano di indole teoretica e si estendevano alle presupposizioni e alle assunzioni che sono sottese sia alla pratica che a quella letteraria. Alle 11 questi studenti lasciavano il posto a un altro gruppo, i cui interessi erano esclusivamente di ordine letterario e di fatto si limitavano alla poesia religiosa inglese del XVII secolo. Questi studenti venivano imparando come identificare i simboli cristiani, come riconoscere le strutture tipologiche e come, muovendo dall'osservazione di tali simboli e strutture, giungere a specificare un'intenzione poetica (per lo più didattica o omiletica). Quel giorno l'unica connessione tra le due lezioni consiteva in un elenco di nomi assegnato al primo gruppo e che ancora stava scritto sulla lavagna all'ingresso del secondo. Esso diceva:

Jacobs-Rosenbaum

Levin

Thorne

Hayes

Ohman (?)

Senza dubbio molti di voi avranno già riconosciuto i nomi di tale lista, ma consentitemi per la cronaca di identificarli. Roderick Jacobs e Peter Rosenbaum sono due linguisti coautori di un buon numero di manuali e coeditori di diverse antologie. Samuel Levin è stato uno dei primi linguisti ad applicare ai testi letterari i procedimenti della grammatica trasformazionale. J. P. Thorne è un linguista di Edimburgo che, come Levin, tentava di estendere le regole della grammatica trasformazionale alle ben note irregolarità del linguaggio poetico. Curtis Hayes è un linguista che faceva allora uso della grammatica trasformazionale allo scopo di fornire una base oggettiva alla sua impressione che il linguaggio di Gibbon in Rise and Fall of the Roman Empire è più complesso del linguaggio adoperato da Hemingway nei suoi romanzi. Richard Ohman era scritto come vedete qui sopra perché non riuscivo a ricordare se terminasse con una o due n. In altre parole, l'interrogativo posto tra parentesi non stava a significare altro se non un vuoto di memoria nonché il desiderio, da parte mia, di mostrarmi scrupoloso. Il fatto che quei nomi comparissero in una lista ordinata verticalmente, e che Levin, Thorne e Hayes formassero una colonna più o meno centrata rispetto ai due nomi appaiati di Jacobs e Rosenbaum, non era accidentale e tutt'al più testimoniava, se mai testimoniava qualcosa, una qualche tendenza istintiva.

Durante l'intervallo tra le due lezioni avevo operato un solo cambiamento. Avevo tracciato una riga che incorniciava il compito scrivendoci sopra "p. 43". Quando gli studenti del secondo gruppo furono sfilati ai loro posti, dissi loro che ciò che vedevano era una poesia religiosa del genere che stavano studiando, e chiesi loro di darne un'interpretazione. Il loro comportamento rispose subito a un modello che, per ragioni destinate a chiarirsi tra poco, era più o meno prevedibile. Il primo studente a prendere la parola fece osservare che la poesia era con ogni probabilità un geroglifico, per quanto non fosse certo se a forma di croce o di altare. Questo interrogativo non fu raccolto dagli altri studenti, che seguendo la sua traccia cominciarono a concentrarsi sulle singole parole, interrompendosi l'un l'altro con suggerimenti tanto pronti da sembrare spontanei. Il primo rigo della poesia (l'ordine stesso degli eventi assumeva lo statuto precostituito dell'oggetto) ricevette la maggior attenzione: Jacobs fu spiegato come un riferimento alla scala di Giacobbe, tradizionalmente interpretata come figura allegorica dell'ascesa cristiana al cielo. In questa poesia peraltro, o così mi dissero i miei studenti, lo strumento dell'ascesa non è una scala bensì una pianta di rose o rosenbaum. In questa si vedeva un ovvio riferimento alla Vergine Maria, spesso caratterizzata come una rosa senza spine, essa stessa un emblema dell'immacolata concezione. A questo punto, appariva chiaro agli studenti che la poesia operava secondo il modo familiare di un enigma iconografico. Essa poneva al tempo stesso una domanda: "Come può accadere che un uomo si arrampichi al cielo per mezzo di una pianta di rose?" ; e indirizzava il lettore verso l'inevitabile risposta: attraverso il frutto di quella pianta, frutto del grembo di Maria, Gesù. Questa interpretazione, una volta stabilita, trovava sostegno e insieme conferiva significato alla parola thorne, che poteva essere solo un'allusione alla corona di spine (thornes), un simbolo della prova patita da Gesù e del prezzo da lui sofferto per salvare tutti noi. Da questa intuizione il passo era breve (in realtà inesistente) per riconoscere in Levin un doppio riferimento, in primo luogo alla tribù di Levi, della cui funzione sacerdotale Cristo era il compimento, e in secondo luogo al pane azzimo portato con sé da i figli d'Israele nel loro esodo dall'Egitto, terra del peccato, in risposta all'appello di Mosè, forse il più familiare tra i veterotestamentari di Cristo. All'ultima parola della poesia furono date almeno tre letture complementari: poteva essere omen,tanto più che buona parte della poesia aveva a che fare con la profezia e la preveggenza; poteva essere Oh Man, poiché il soggetto della poesia è appunto la storia dell'uomo (man) nel suo incontro con il piano divino; e poteva, beninteso, essere semplicemente amen, conclusione appropriata a una poesia volta a celebrare l'amore e la misericordia mostrati da un Dio che ha offerto il suo figlio unigenito perché noi possiamo aver vita.

Oltre a specificare i significati per le parole della poesia e a correlarli tra loro, gli studenti cominciarono a discernere un più vasto disegno strutturale. Dei sei nomi contenuti nella poesia, tre (Jacobs, Rosenbaum e Levin) sono ebraici, due (Thorne e Hayes) sono cristiani, e uno (Ohman) è ambiguo, ambiguità segnalata (come si suol dire) nella poesia stessa dall'interrogativo posto tra parentesi. Questa suddivisione fu vista come un riflesso della fondamentale distinzione tra l'antico e il nuovo patto, la legge del peccato e la legge dell'amore. Tale distinzione è tuttavia oscurata e infine dissolta dalla prospettiva tipologica attraverso cui gli eventi e gli eroi dell'Antico Testamento sono investiti dai significati del Nuovo Testamento. La struttura della poesia, concludevano i miei studenti, è dunque una struttura duplice, che instaura e al contempo cancella la sua struttura fondamentale (ebrei versus cristiani). In un contesto siffatto, nulla alla fine ci impone di sciogliere l'ambiguità di Ohman, giacché le due letture possibili (il nome ebraico e il nome cristiano) sono entrambe autorizzate dalla presenza conciliatrice di Gesù Cristo nella poesia.

Come qualcuno di voi non avrà mancato di notare, non ho ancora detto nulla a proposito di Hayes. Ciò perché, fra tutte le parole della poesia, questa si dimostrò la più recalcitrante ad essere interpretata, cosa non priva di conseguenze, ma di cui per il momento non mi occuperò: non mi interessano infatti tanto gli aspetti particolari dell'esercizio, quanto l'abilità che consentiva ai miei studenti di eseguirlo. Qual è l'origine di tale abilità? Come accade che essi fossero in grado di fare ciò che facevano? In che cosa consisteva ciò che facevano? Queste domande sono importanti perché conducono direttamente a una domanda spesso sollevata in sede di teoria della letteratura: quali sono i tratti distintivi del linguaggio letterario? O anche, per dirla in modo più colloquiale: come fate a riconoscere una poesia quando ne vedete una? La risposta del senso comune, a cui si affidano molti linguisti e critici letterari, è che l'atto del riconoscimento sarebbe fatto scattare dalla presenza di tratti distintivi. Vale a dire, voi riconoscete una poesia quando ne vedete una perché il suo linguaggio esibisce le caratteristiche che voi sapete proprie delle poesie. E' questo, tuttavia, un modello che ovviamente non calza al nostro esempio. I miei studenti non sono passati dall'individuazione di tratti distintivi al riconoscimento che quanto avevano di fronte era una poesia: è stato semmai l'atto di riconoscimento a venire per primo (essi sapevano in anticipo di avere a che fare con una poesia) e poi sono seguiti i tratti distintivi. 

In altre parole, gli atti di riconoscimento, anziché essere fatti scattare dalle caratteristiche formali, ne sono essi l'origine. Non è la presenza di qualità poetiche a provocare un certo tipo di attenzione, bensì il fatto di prestare un certo tipo di attenzione che determina l'emergenza di qualità poetiche. Non appena si resero conto che era una poesia quella che vedevano, i miei studenti cominciarono a guardarla con occhi-che-vedono-poesia, ossia con occhi che vedevano ogni cosa in rapporto con le proprietà che, come sapevano, le poesie possiedono.(...) Così i significati delle parole e l'interpretazione in cui tali parole apparivano radicate emergevano di pari passo, come una conseguenza delle operazioni che i miei studenti avevano cominciato ad eseguire una volta che gli era stato detto che si trattava di una poesia.

Era pressappoco come se stessero seguendo una ricetta (se è una poesia fai questo, se è una poesia guardala così), e in effetti le definizioni della poesia sono ricette, perché indicando ai lettori che cosa debbano cercare in una poesia insegnano loro i modi di guardare che produrranno quanto essi si aspettano di vedere.[27]

Questo anedotto, secondo Fish dimostra che

L'interpretazione non è l'arte di analizzare i significati bensì l'arte di costruirli. Gli interpreti non decodificano le poesie: le fanno. (...) Data una ferma convinzione di avere di fronte una poesia religiosa, i miei studenti sarebbero stati in grado di trasformare qualunque lista di nomi in una poesia del tipo che ora ci sta davanti, perché avrebbero letto tali nomi all'interno dell'assunzione che essi fossero informati a significati cristiani.[28]

Il problema è ben impostato ma la conclusione insoddisfacente. Fish sembra non rendersi conto della differenza fra attribuire significati attraverso l'interpretazione e il riconoscimento dell'identità di opera d'arte, nel caso di poesia, a un testo. E' una distinzione che, al contrario, Luciano Nanni ha ben presente:

Intendiamoci, non è che anche l'identità non sia un significato, non sia insomma un segno dotato di un concetto. Diciamo anche che qui c'è concetto e concetto. Ci sono concetti puramente generici e indicativi e altri che vi entrano dentro e analiticamente li specificano a un livello o a un altro. Propongo di chiamare "identità" i primi e "significati" i secondi. I secondi lavorano cognitivamente qualcosa che è già dentro alla cultura, qualcosa (ecco) che i primi vi hanno portato dentro, qualcosa che i primi hanno prelevato dall'indifferenziato della natura facendone cultura. (...) Se così si conviene non solo il significato segue l'identità, ma ne è una conseguenza. Spesso i due momenti possono non essere praticamente distinti, ma logicamente non sono confondibili. Possiamo produrre in primis significato, ma l'identità non è che non ci sia: è solo data per scontata e l' in primis, diciamo così, è solo tale in apparenza.[29]

Gli studenti di Fish non "costruiscono" una poesia ma si limitano a interpretare, a dare significati a, un testo che viene presentato loro  già con l'identità di poesia. Sarebbe più giusto dire che è Fish a creare una poesia in quanto è egli stesso che attribuisce alla lista di nomi tale identità e anch'egli non lo fa in base ai significati che ne evince ma con un atto di autorità autoinvestendosi di un ruolo che nella realtà è della cultura. Cultura, che Nanni intende, nel suo significato etimologico, come coltivazione e quindi  uso, in questo caso, uso in senso artistico. L'artisticità non è funzione diretta dell'opera, ma di una sua coltivazione come arte, fosse pure ad opera di chi la produce e basta. Un'opera, da sola, non è in grado di imporsi come artistica. Qualsiasi cosa può diventare arte e qualsiasi opera d'arte può perdere questa sua identità. Nessuna materia è artistica in sé e, come tale, già arte prima che una qualche cultura la deleghi ad esserlo. Un'opera d'arte nasce come ogni altro umano artefatto: è la cultura, che in base all'uso, ne decide l'identità. L'abbiamo visto nell'aneddoto del bar raccontatoci da Nanni. La stessa frase " mi dà un caffe" assume significati diversi a seconda della logica in cui entra. "Costrutti che diverranno poesia (arte) se  praticati secondo la convenzione, la langue (la struttura d'uso, appunto) dell'arte e semplice comunicazione strumentale, invece se praticati secondo quella dei comuni luoghi discorsivi: bar, aula scolastica, ecc."[30].

E' la cultura stessa che ancora ogni sua entità a una sua identità d'uso. Che significa "scola-bottiglie"? Alla lettera: scolare bottiglie, appunto un suo uso. Togliete questo oggetto dalla pratica ed esso non avrà più nome, sarà tornato "cosa" in attesa di un altro nome e così via.[31]

Pensiamo al linguaggio. Che cosa nomina il nostro linguaggio? Gli enti e le cose? Nemmeno per sogno. Il nostro linguaggio nomina le relazioni che noi intratteniamo con gli enti, con le cose e quindi il nostro modo di usarle, di prendercele in carico, appunto di coltivarle. Un esempio? Bene. Prendiamo la parola "scolabottiglie". Se diciamo "scolabottiglie" e ci auto-invitiamo a pensare a che cosa significhi, credo non ci siano dubbi: ci accadrà spontaneamente di associare a questa parola l'immagine di un oggetto, in particolare un oggetto da cantiniere. Bene. Ma "scolabottiglie" alla lettera non significa questo. Alla lettera "scolabottiglie" ci rinvia ad una pratica "scolare bottiglie", cioè a una relazione che esso (l'oggetto in questione) arriva ad intrattenere con una nostra usanza. Tolto da questa relazione, allora, cosa diventa? Tolto da questa relazione esso oggetto esce dal linguaggio anche se in virtù del linguaggio stesso. Non c'è scampo. Come nell'uscire dall'atmosfera. Anche dall'atmosfera si esce in grazia dell'atmosfera stessa, grazie a quelle bombole che gli astronauti si portano dietro. Lo sapeva bene, per esempio, un nostro uomo politico, Occhetto, che, avendo deciso di cambiare nome al proprio partito e non sapendo ancora come chiamarlo, lo lasciò fuori dal linguaggio chiamandolo "cosa". Ma pure "cosa" è una parola, però una parola speciale, una di quelle, come "aggeggio" e altre simili, il cui significato è l'oscuramento di ogni significato determinato, appunto una pura direzione indicativa verso l'esterno del linguaggio stesso in attesa del rientro. Bene. Anche il nostro "scolabottiglie" tolto dal linguaggio, diviene una pura "cosa" e se vogliamo continuare a chiamarlo "scolabottiglie" lo possiamo fare in memoria di ciò che fu, in ricordo di un'identità sua passata e ora scomparsa. Nulla di strano, allora, che entrando in relazione con la galleria d'arte - penso ovviamente a Duchamp -  diventi opera d'arte. La parola "arte" non  nomina l'oggetto, ma il tipo di relazione (e siamo ancora al fuori) in cui l'oggetto entra, non altro. Perché allora questa proposta, come quella della "merda", del resto e tante altre simili, ha suscitato scandalo? Ha suscitato scandalo, perché in noi il linguaggio vive in occultamento di questa sua verità. Il linguaggio nomina sempre delle relazioni e mai delle cose in sé. In principio cognitivamente parlando ci sono le relazioni, non le cose e il linguaggio le relazioni nomina. (...) Verità, questa, che è stata occultata in noi dai nostri bisogni di metafisica e di solidità, nonché dalla tradizione culturale in cui siamo cresciuti. Bisogni che hanno prodotto l'indebita ipostatizzazione del nome della relazione a nome dell'oggetto. Il bisogno di solidità ha portato a spostare il nome dalla relazione all'oggetto (l'oggetto dura al di là di tutte le relazioni in cui può entrare); il bisogno di metafisica a estendere una di queste sue identità mobili a sua essenza, a sua anima; La tradizione culturale da cui proveniamo a pensare poi che dove c'è un'anima non ce ne può entrare un'altra (se l'anima dell'oggetto in questione è quella dello scolabottiglie, come può diventare opera d'arte?). Tutta roba, questa, alla fin fine da realismo ingenuo e da smantellare da decostruire  pena l'incomprensione di tutto quanto ci accade, arte compresa[32]

Originariamente non siamo gettati di fronte alle nude cose, afferma Nanni, ma sempre nelle loro pratiche (cognitivamente parlando, nell'universo della loro interpretazione). Ogni pratica, costituendosi, costituisce anche il proprio modello di interpretazione delle entità che pratica. Opere d'arte e oggetti di uso comune possono condividere lo stesso livello materiale e assumere identità diverse entrando in logiche d'uso diverse. Logiche necessariamente esterne all'oggetto.

Fish ha colto pienamente il fatto che una poesia, o un'opera d'arte, non può in nessun caso imporre, per caratteriste intrinseche, la propria identità di opera d'arte e che, non solo, questa affermazione è valida per qualsiasi entità compreso il compito che ha sottoposto agli studenti come poesia. Lo dice chiaramente anche se poi le conclusioni vanno in ben altra direzione.

 (...) il compito che noi vediamo è il prodotto di un'interpretazione non meno della poesia in cui è stato trasformato. Vederlo come un compito, vale a dire, richiede esattamente la stessa quantità e lo stesso tipo di lavoro che richiede il vederlo come una poesia.[33]

In un certo senso tutto ciò equivale a dire quello che ognuno sa già: poesie e compiti sono cose differenti; ma il punto cruciale della mia tesi è che le differenze sono un risultato delle differenti operazioni interpretative che eseguiamo, e non di qualcosa che sia intrinseco alle une o agli altri. Un compito non provoca il suo riconoscimento più di quanto non faccia una poesia; come nel caso di una poesia, la forma di un compito emerge semmai quando qualcuno guarda a qualcosa identificato come compito con occhi-che-vedono-compiti, ossia con occhi capaci di vedere le parole come radicate in una struttura istituzionale che sola può consentire ai compiti di avere un senso. La capacità di vedere e quindi di fare un compito è acquisita per apprendimento non meno della capacità di vedere e quindi fare una poesia. Entrambi sono degli artefatti che noi costruiamo: i prodotti e non i produttori dell'interpretazione; e per quanto le differenze che li distinguono siano reali non per questo cessano di essere differenze di interpretazione: né scaturiscono dal fondo roccioso dell'oggettività.

(...) una lista non è un oggetto naturale più di quanto non lo sia un compito o una poesia.

La conclusione, pertanto, è che tutti gli oggetti sono fatti e non trovati, e che sono fatti dalle strategie interpretative che noi mettiamo all'opera.[34]

Fish sembra dimenticarsi di quanto ha presupposto nell'aneddoto raccontato e cioè che gli studenti avevano ricevuto prima di interpretare il testo l'informazione che quanto era stato posto loro davanti era una poesia. Era già poesia per loro prima che cominciassero ad elaborare interpretazioni e non il contrario. Non sono state le interpretazioni degli studenti a creare la poesia semplicemente perché per loro era già una poesia. D'altra parte Fish non chiede loro di dare un'identità ad un testo che ancora non ne ha una, bensì di interpretare una poesia (un testo che ha già l'identità di poesia).

Individuare negli interpreti, i fruitori dell'opera, il principio costitutivo dell'artisticità dell'opera significa non vedere il problema in tutta la sua interezza. Ugualmente sbagliato sarebbe riferirlo all'autore o all'opera stessa. Perimetrare il campo secondo le tre intenzioni - dell'autore, dell'opera e del lettore - significa non rendersi conto, non vedere, che esiste un'intenzione superiore che tutte le contiene e ne è sostrato.

Proporre le tre intenzioni[35] indicate come perimetro sufficiente a dare ragione del costituirsi dell'artisticità di una qualche entità e dei suoi movimenti, sarebbe come pensare di poter dare ragione dell'identità di "barca" di una barca, ricorrendo unicamente all'intenzione del suo costruttore, della barca stessa (se così si può dire) e a quella del barcaiolo che la usa , dimenticandone un'altra ben più importante e profonda, non quarta rispetto ad esse, ma prima, perché loro matrice appunto profonda. Intenzione di cui quelle tre sono semplicemente la fenomenologia di superficie, pronte a svanire alla sua scomparsa, come scompare la neve al sole. Intendo l'intenzione (la logica) del mare. Solo il mare, solo il luogo-mare e la sua logica possono darci esaurientemente ragione dell'essere "barca", del suo costruttore, del barcaiolo oltre che dei loro rapporti. Non altro. Pensate a una terra senz'acqua: barca, costruttore di barche e barcaiolo svanirebbero nel nulla. Intenzione questa del mare, che in ambito culturale ho proposto di chiamare intentio culturae e che ha nei luoghi collettivi i suoi fisici significanti.[36]

E quali sono i luoghi dell'arte?

IL museo, la galleria d'arte, il teatro, la collana di poesia, di narrativa, ecc., vicariabili, si capisce, da una loro semplice indicazione semiosica, magari sotto forma di titolo apposto all'opera stessa. Per esempio quello di "poesia" scritto su qualcosa che si vorrebbe venisse fatto vivere come poesia e così via.[37]

Questa la risposta di Nanni alla questione posta da Fish: è l'indicazione semiosica "poesia" apposta al testo che funzionando come fattore di artisticità permette di riconoscere una poesia quando ne vediamo una. Non altro!

Goodman - Nanni

Goodman nel libro "Vedere e costruire il mondo" affronta la questione dell'identità dell'opera d'arte reimpostando la domanda: non più "che cosa è arte" ma "Quando è arte?".

Se i tentativi di rispondere alla domanda "Che cos'è arte" mettono sistematicamente capo a un senso di frustrazione e di confusione, forse - come accade così spesso in filosofia - vuol dire che è sbagliata la domanda.[38]

La letteratura sull'estetica è tutta un proliferare di tentativi disperati di rispondere alla domanda "Che cosa è arte?". Questa domanda, spesso disgraziatamente confusa con la domanda "Che cosa è arte valida?", è difficile quando si tratta di "arte trovata" - una pietra del lastricato di un viale esposta in un museo - ed è resa ancora più complessa dalla diffusione di quelle tendenze che vengono chiamate arte environmental e arte concettuale. Un paraurti sfasciato d'automobile esposto in una galleria d'arte è un'opera d'arte? Che accade allora se si prende qualcosa che non è neppure un oggetto, e non è esposto in una galleria o in un museo - ad esempio, scavare e ricoprire una buca in Central Park come prescrive Oldenburg? Se queste sono opere d'arte, allora lo sono tutte le pietre di quel lastricato, lo sono tutti gli oggetti e tutto ciò che accade? Se non è così, che cosa distingue ciò che è opera d'arte da quel che non lo è? Il fatto che un artista la chiami così? Che è esposta in un museo o in una galleria?

Come osservavo all'inizio, parte della difficoltà dipende dal voler rispondere alla domanda sbagliata - non riconoscere, in sostanza che qualcosa può funzionare come opera d'arte in un certo periodo e non in altri. Nei casi cruciali, la vera domanda non è "Quali oggetti sono (permanentemente) opere d'arte? ", ma "Quando un oggetto è un'opera d'arte ? " - o in breve, ... , "Quando è arte?".[39]

L'identità dell'opera d'arte non può che essere un'identità storica. Nanni lo dice esplicitamente:

Qualsiasi opera può diventare arte e qualsiasi opera d'arte può perdere questa identità.[40]

Viene da pensare a un curioso episodio di cronaca successo alcuni anni fa a Livorno, città natale del famoso artista Modigliani. Alcuni giovani decisi a resuscitare i fasti della goliardia si unirono nel progetto di dare un fondamento alla leggenda che racconta che Modigliani in un momento di disperazione avesse gettato nei canali della città alcune sue opere di scultura. Lavorarono piuttosto grossolanamente alcuni blocchi di pietra e nottetempo li gettarono proprio là dove si narra fosse accaduto il fatto. Abilmente riuscirono ad attirare l'attenzione della stampa e delle autorità locali millantando competenze storico artistiche che davano fondata l'ipotesi che effettivamente nei canali ci fossero delle opere del maestro livornese. In breve, i canali furono dragati e le opere furono trovate. Il mondo dell'arte aggiunse le pregevoli opere alla produzione del maestro e le espose nel museo cittadino che divenne meta di pellegrinaggi di storici e critici d'arte da tutto il mondo. Opere d'arte a tutti gli effetti. I giovanotti, scappato loro di mano il gioco che aveva assunto dimensioni che andavano ben oltre l'innocente scherzo iniziale, decisero di confessare il malfatto. Dopo le resistenze iniziali la verità fu accettata, anche perché i ragazzi portarono dettagliata documentazione dei retroscena che avevano portato alla realizzazione del "fattaccio". Le "teste scolpite" persero il loro carattere operale ritornando all'anonimato di semplici sassi mal sbozzati.  Questo episodio è l'esemplificazione del fatto che un'opera può entrare ed uscire dai circuiti artistici senza che alcuna modifica sia intervenuta sul suo aspetto esteriore. D'altra parte simile sorte hanno avuto affreschi più volte scoperti e poi ricoperti. L'artisticità di un'opera non è una qualità stabile e dopo tutto Goodman non imposta male la questione riformulando la domanda in senso temporale: se l'oggetto rimane materialmente lo stesso e cambia solo la sua funzione non è nell'oggetto che va cercata la causa di quanto succede ma al di fuori, nella dimensione temporale lungo la quale avvengono i cambiamenti di identità dell'opera. Ecco la risposta. 

La mia risposta è che un oggetto proprio come può essere un simbolo - un campione , ad esempio - in certi periodi e a certe condizioni, e non in altri periodi e ad altre condizioni, così può essere un'opera d'arte in certi momenti e non in altri. E, allora, è proprio in virtù del fatto che funziona come un simbolo in un certo modo che un oggetto diventa, nel momento in cui funziona così, un'opera d'arte. Una pietra non è normalmente un'opera d'arte fin che sta in quel viale, ma lo può essere quando è messa in bella vista in un museo d'arte. Nel viale, essa non realizza normalmente una funzione simbolica. Nel museo d'arte, esemplifica qualcuna delle sue proprietà - che so, di colore , di forma, di struttura. Scavar buche, e ricoprirle, funziona come un'opera in tanto in quanto la nostra attenzione è a ciò diretta come a un simbolo che esemplifica qualcosa. D'altra parte, un dipinto di Rembrandt può cessare la propria funzione d'opera d'arte quando viene usato al posto di una finestra rotta o per coprire qualcosa.[41]

"E' proprio in virtù del fatto che funziona come un simbolo in un certo modo che un oggetto diventa, nel momento in cui funziona così, un'opera d'arte" ci dice Goodman con il piglio di chi ha in mano il bandolo della matassa imbrogliata e si prepara a dipanarla come si conviene. "Scavar buche, e ricoprirle, funziona come un'opera in tanto in quanto la nostra attenzione è a ciò diretta come a un simbolo che esemplifica qualcosa." E' innegabile che questo possa accadere quando ci relazioniamo con opere d'arte. L'attenzione che questi oggetti intenzionano nei fruitori è diversa da quella attivata da un oggetto di uso comune. E' un'esperienza che fa parte del vissuto di tutti coloro che sono entrati in una galleria di arte contemporanea. Scolabottiglie, orinatoi e la loro infinita progenie finiti sotto i riflettori dei circuiti artistici hanno mostrato aspetti insospettati offrendosi ai nostri occhi come oscuri oggetti del desiderio di un gioco indefinito di interpretazioni. Ma un dubbio sembra insinuarsi nelle nostre menti insicure per poco acquietate dalla risposta goodmaniana: " ma cos'è che ci istiga un tale tipo di attenzione, che fa sì che ci rivolgiamo a tali oggetti, indiscernibili dagli oggetti comuni, come ad un simbolo?" O, per stare alla sua domanda, "quando un oggetto si mette a funzionare così?" L'attenzione particolare di tipo simbolico sembrerebbe mettere in evidenza che qualcosa è già avvenuto presentandosi più come un effetto, uno dei tanti possibili, mi si conceda, che non la causa. Tale tipo di attenzione è attiva su oggetti la cui identità artistica ci è già nota. Lo scolabottiglie nel negozio del cantiniere probabilmente non è capace di intenzionare una significazione simbolica ma ammesso che qualcuno avesse con questo oggetto un tipo di relazione estetica tale esperienza non sarebbe sufficiente a convertirne l'identità da oggetto comune a opera d'arte. Non vedo alcun altro luogo oltre quelli codificati dalla cultura, in maniera permanente come i musei o occasionalmente approntati per una performance, ove tale attenzione sia legittimata anche su oggetti indiscernibili da oggetti comuni - indiscernibili perché materialmente identici, esemplari della medesima serie. Goodman stesso lo dice identificando nel museo d'arte un luogo dove l'opera realizza una funzione simbolica (" una pietra non è normalmente un'opera d'arte fin che sta nel viale, ma lo può essere quando è messa in bella vista in un museo d'arte") e per di più ammette che "d'altra parte, un dipinto di Rembrandt può cessare la propria funzione d'opera d'arte quando viene usato al posto di una finestra rotta o per coprire qualcosa." Goodman sembrerebbe riconoscere che l'identità di un'opera si muove, non solo in una dimensione temporale, ma secondo i due assi cartesiani del tempo e dello spazio. Ecco che il "luogo" si impone come garante dell'identità e quindi dell'uso degli oggetti perché il luogo presuppone le circostanze d'uso degli oggetti di cui si fa contenitore. Noi, partecipi della stessa cultura che vuole il museo luogo di fruizione artistica, accettiamo le istruzioni per l'uso degli oggetti ivi contenuti. Lo scolabottiglie cambia identità passando dal negozio di cantiniere alla galleria d'arte. Una volta che è arte possiamo rivolgere all'oggetto in questione un'attenzione di tipo simbolico, ma anche di tipo psicanalitico, o che altro, persino possiamo tornare a mani vuote dall'incontro con l'opera ammettendo di non averla capita. In ogni caso tutto quello che succede là o in luoghi simili è completamente diverso da quanto vediamo accadere altrove. Luciano Nanni conosce l'importanza del luogo:

Così per lo Scolabottiglie di Duchamp e per gli infiniti ready-made dell'arte contemporanea. Non è qualcosa di strutturalmente intrinseco a spiegarci la loro differenza da un normale oggetto d'uso. Duchamp non ha fatto nessun intervento sulla struttura materiale dello scolabottiglie, sulla sua forma. Il suo Scolabottiglie è rimasto materialmente indiscernibile da ogni altro. Cos'è che è cambiato nell'operazione di Duchamp. Soltanto il luogo dove lo scolabottiglie è stato posto: la galleria d'arte al posto di un normale negozio da cantiniere o cantina che sia. E qui, nel luogo, sta la sua raison d'être arte. Non in altro. Del resto che cosa può permettere, per esempio ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni e alla Merda d'artista di Piero Manzoni di stare insieme nel campo dell'arte? Che poi stiano insieme in questo campo non ci sono dubbi: vive nelle biblioteche di letteratura, la prima opera, e nei musei, la seconda. Non certo qualche tratto materialmente in comune. E se non è qualche tratto materiale ad esse intrinseco, non potrà che essere un qualche tratto funzionale ad esse esterno. Ed è questa struttura funzionale esterna agli oggetti e alle cose che bisogna cercare per capire il principio costitutivo della loro culturale identità, nel caso quella propria dell'arte.[42]

Goodman individua il museo come il luogo in cui l'opera realizza una funzione simbolica, ma...  E comincia una lunga serie di aggiustamenti che un po' alla volta tolgono sicurezza alle affermazioni iniziali.

Ora, naturalmente, funzionare come un simbolo in un modo o nell'altro non vuol dire di per sé funzionare come un'opera d'arte. ... Le cose funzionano come opere d'arte solo se la funzione simbolica ha certe caratteristiche. La nostra pietra in un museo di geologia assume funzioni simboliche legate al fatto che è un campione delle pietre di un certo periodo, con una certa origine e composizione, ma non per questo la sua funzione è quella di un'opera d'arte[43].

Ovviamente. Un museo di geologia non è un museo d'arte! Luoghi diversi, diverse circostanze d'uso. Ma Goodman sembra non accorgersi di avere in mano la soluzione e per non rinunciare alla sua teoria che vuole l'opera funzionare come un simbolo aggiusta i fatti con il risultato di elaborare una spiegazione paradossale e tautologica rispetto alla paradossalità del problema in esame.

La questione di quali siano le caratteristiche che precisamente sono distintive, o indicative, della simbolizzazione che costituisce il funzionare come opera d'arte richiede un'analisi molto approfondita alla luce di una teoria generale dei simboli. E' più di quanto io possa qui intraprendere, ma mi arrischio a proporre che vi sono cinque sintomi dell'"estetico": (1) densità sintattica, dove le differenze di grana più sottile costituiscono per certi aspetti differenze tra simboli ... ; (2) densità semantica, dove sono prodotti simboli per cose distinte sotto certi aspetti da differenze di grana più sottile ... ; (3) pienezza relativa, dove relativamente molti aspetti di un simbolo sono significanti ... ; (4) esemplificazione, dove un simbolo, non importa se denota o meno, simboleggia per il fatto di servire da campione di proprietà che esso possiede letteralmente o metaforicamente; e infine (5) riferimento multiplo e complesso, dove un simbolo realizza funzioni referenziali integrate e interagenti, alcune dirette altre mediate da altri simboli.[44]

 Goodman - non è chiaro il perché non possa impegnarsi in un'analisi più approfondita - non arriva a definire le caratteristiche del funzionamento simbolico di un'opera d'arte. La sicurezza iniziale fa posto ad un procedere cauto  che lo porta ad "arrischiare" cinque sintomi dell'estetico che comunque, a loro volta, vanno subito ridimensionati nella loro effettiva capacità di stabilire l'artisticità dell'opera:

Questi sintomi non ci consegnano certo una definizione e ancor meno una piena descrizione in tutta la sua solennità. La presenza o l'assenza di uno o più di questi elementi non qualifica né squalifica qualcosa in senso estetico; né un oggetto o un'esperienza saranno estetici nell'esatta misura in cui questi tratti o aspetti saranno presenti. I sintomi, dopo tutto non sono che indizi: un paziente può accusare dei sintomi senza essere malato, o essere malato senza accusarne i sintomi.

Ancora, si osservi che queste proprietà tendono a focalizzare l'attenzione sul simbolo più che su, o almeno insieme a, ciò cui si riferisce.

Questa insistenza sul carattere non trasparente di un'opera d'arte, sul primato dell'opera rispetto a ciò a cui essa si riferisce, ben lungi dal comportare la negazione o la sottovalutazione di funzioni simboliche, proviene proprio da certe caratteristiche che sono tipiche dell'opera in quanto simbolo.[45]

Sintomi, e allora manifestazioni visibili, ma non certe (è il caso del paziente sano che accusa sintomi di una malattia che non ha), di un fenomeno la cui causa non è stata ancora da Goodman riconosciuta e isolata per essere descritta.

Nell'affermazione di Goodman sul "carattere non trasparente di un'opera d'arte e del primato dell'opera rispetto a ciò cui essa si riferisce" non possiamo non sentire echi di altri pensatori che pongono la causa della artisticità nell'opera d'arte stessa fra cui Jakobson, che definisce appunto l'opera d'arte ambigua e autoriflessiva, è forse la voce più autorevole. Non a caso la teoria di Jakobson finisce per essere un'efficace spiegazione per la poesia simbolista, ma certo sarebbe estremamente riduttivo pensare che tutta l'arte possa essere ricondotta ad un'unica poetica. Riduttiva e ideologica, ché l'ideologia è sempre in agguato in queste teorie, o meglio pseudo-teorie che, pur mantenendo fisso l'obiettivo del discorso scientifico sulla causa della polisemia dell'arte, finiscono per tradire il proprio scopo slittando nell'etica con il risultato di proporre come spiegazione dei fatti una poetica, nel caso quella simbolista. 

L'impressione è che Goodman invece di stringere il discorso arrivando a delle conclusioni chiare, costretto a continui aggiustamenti nella speranza di salvare la teoria, alla fine finisca per ammettere nell'opera un funzionamento opposto a quello inizialmente postulato:

(...) la risposta alla domanda "Quando è arte" mi sembra chiaramente connessa alla funzione simbolica. Forse dire che un oggetto è arte quando, e solo quando, funziona così, vuol dire esagerare il punto o è un modo di esprimersi ellittico. Un quadro di Rembrandt rimane un'opera d'arte, fino a che rimane un quadro, anche se funziona solo per coprire qualcosa; e la pietra presa dal viale non diventa forse arte in senso stretto anche se funziona come arte. Analogamente, una sedia rimane una sedia anche se nessuno ci si siede, e una cassa da imballaggio rimane una cassa da imballaggio anche se viene usata per sedervisi.[46]

L'affermazione "Un quadro di Rembrandt rimane un'opera d'arte, fino a che rimane un quadro, anche se funziona solo per coprire qualcosa e analogamente, una sedia rimane una sedia anche se nessuno ci si siede, e una cassa da imballaggio rimane una cassa da imballaggio anche se viene usata per sedervisi" sembrerebbe voler dire che al di là del suo funzionamento, al di là del suo uso, l'oggetto mantiene la propria identità nel caso identità di opera d'arte. Ma l'opera è capace da sola di imporre la propria identità artistica? I fatti sembrano smentire una tale posizione. Uno scolabottiglie che non nasce come opera d'arte ma che diventa opera d'arte a tutti gli effetti, ospitato nei luoghi riconosciuti della pratica artistica, correlato oggettivo della poetica dell'artista che lo ha proposto, è un fatto che sembra andare contro una teoria che vuole l'artisticità legata all'oggetto. E siamo sicuri che la tela di Rembrandt rimane per tutti un'opera d'arte indipendentemente dal contesto in cui si trova? Il Rembrandt e la pietra del viale non perdono nel cambiare il contesto il loro livello materiale, che ovviamente rimane stabile, quello che cambia è la loro funzione. Goodman lo aveva detto esplicitamente quando afferma che  "una pietra non è normalmente un'opera d'arte fin che sta in quel viale, ma lo può essere quando è messa in bella vista in un museo d'arte" e un "dipinto di Rembrandt può cessare la propria funzione d'opera d'arte quando viene usato al posto di una finestra rotta o per coprire qualcosa" Cosa ha portato Goodman a questo cambiamento di rotta? E cosa intende per "senso stretto"? Esiste forse un "senso allargato" di arte? Dopo aver ammesso l'importanza del luogo, Goodman finisce per tradirlo completamente, negando il fatto che sono circostanze d'uso diverse che permettono a oggetti indiscernibili da oggetti di uso comune di funzionare come opere d'arte mantenendo il proprio livello materiale. Circostanze d'uso raggruppabili, secondo Luciano Nanni, in almeno due classi logiche: quelle dell'arte e quelle non dell'arte o referenziali. Non vedere l'esistenza di questa doppia classe significa ridurre l'universo dell'interpretazione ad un unico modello, quello della langue referenziale, pretendendo di spiegare in base a questo l'identità dell'opera d'arte e il suo paradossale comportamento. Tale posizione non può che nascondere al suo interno un pericoloso atteggiamento ideologico che si manifesta attraverso il recupero di ontologismi apparentemente rifiutati ma che riemergono prepotentemente nell'importanza  riconosciuta all'aspetto materiale dell'opera. Non si vuole negare il livello materiale dell'opera, ma questo diventa rilevante solo per una cultura che tale lo ritiene, non assolutamente in sé. Non è l'aspetto fisico, il modo in cui è costruita, ma la delega di artisticità con cui una qualche cultura l'investe che decreta l'artisticità dell'opera d'arte. La pietra del selciato, come lo scolabottiglie duchampiano, può essere ospitata in un museo al pari di un Rembrandt per l'investimento simbolico cui la cultura li sottopone entrambi indipendentemente da come sono fatti. "E' più artistico un quadro di Van Gogh o un termosifone?"[47] recita il titolo di un saggio di Luciano Nanni che è poi come chiedersi se è più artistico un Rembrandt o una pietra del selciato.

Uno scolabottiglie (un termosifone, un idoletto) non è un Van Gogh. E chi ha mai detto che lo sia? L'uno non è l'altro, sicuro, ma né l'uno né l'altro sono arte se non vengono delegati da una qualche cultura ad esserlo, se in tal modo da una qualche cultura non vengono simbolizzati.

Un estetica che difenda in assoluto l'uno ( non importa se il Van Gogh o il termosifone) contro l'altro è un'estetica che s'intruglia (si confonde) paurosamente con il proprio oggetto di studio.

Con-fusione che va benissimo, purché si accetti di ridurre l'estetica a una semplice  poetica e l'estetologo a un semplice artista (anche se solo virtuale) tra i tanti possibili. Purché si accetti insomma di non fare dell'estetica una scienza, per la quale infatti la distinzione pare proprio inevitabile.[48]

 Facendo riferimento alla precisazione iniziale di Goodman più che una questione di domanda sembrerebbe una questione di metodo: l'opzione scientifica, descrittiva, analitica dell'ideazione secondaria vs l'ideazione primaria, sintetica. Al primo livello il pensiero teso a produrre arte, le poetiche, al secondo livello il pensiero teso a comprendere e descrivere quanto viene prodotto a livello primario. Un'estetica che ha scelto l'opzione scientifica, e non si vede quale altra possibilità vi sia in una ricerca corretta, non potrà che attestarsi a livello secondario come visione dis-interessata dei fatti che vuole descrivere, orizzonte di controllo della teoria  posto dalla teoria stessa.

Curiosamente solo facendosi eteronoma, facendo proprie le consapevolezze critiche elaborate dalla teoria del comprendere (del descrivere) in generale, può l'estetica conquistare la propria autonomia, cioè a dire riuscire a darci ragione (a tentare almeno di darci ragione) di ciò che in nessun altra regione del comprendere stesso viene adeguatamente compreso, voglio dire dell'arte e della sua vita[49]

E' proprio questo. Non è che Goodman non veda è che non sembra riuscire a mantenere un corretto atteggiamento descrittivo che gli consenta di portare in fondo il suo discorso in maniera coerente. Prova ne sono i continui ripensamenti in corso d'opera che hanno l'unico scopo di salvare una teoria che invece di spiegare i fatti alla fine li piega a suo sostegno.

Così Goodman conclude il capitolo preso in esame:

Dire che cosa l'arte fa non è lo stesso che dire che cosa l'arte è; ma non ho problemi ad affermare che il primo aspetto costituisce ciò che vi è di primario e di peculiare. Il problema ulteriore di definire una proprietà stabile in termini di una funzione effimera - il che cosa nei termini del quando - non si limita alle arti ma è assolutamente generale, ed è lo stesso che si debbano definire sedie oppure oggetti artistici. Il corteo delle risposte immediate o inadeguate è più o meno lo stesso: che un oggetto sia arte - o una sedia - dipende da questo, cioè dallo scopo e dal fatto che qualche volta, o normalmente o sempre o esclusivamente esso funziona come tale. Poiché tutto ciò tende a offuscare problemi più particolari, e importanti, che riguardano l'arte, io ho spostato l'attenzione da ciò che l'arte è a ciò che l'arte fa.

Un tratto saliente della simbolizzazione, ho sostenuto, è che può andare e venire. Un oggetto è capace di simboleggiare cose differenti in periodi differenti, e in altri magari non essere simbolico affatto. Un oggetto inerte, puramente d'uso, può giungere a funzionare come un'opera d'arte, e così un'opera d'arte a funzionare come un oggetto inerte, un oggetto puramente d'uso. Forse non è tanto vero che l'arte è lunga e la vita è breve, ma piuttosto che entrambe sono transeunti.[50]

Non ci sono dubbi che Goodman veda e veda bene. Definire l'identità di un oggetto pone problemi analoghi sia che si tratti di oggetti d'uso che di opere d'arte. Nanni lo dice chiaramente

Originariamente non siamo gettati di fronte alle nude cose, ma sempre nelle loro pratiche (cognitivamente parlando, nell'universo della loro interpretazione).

Slegata dalle sue pratiche l'opera d'arte non può avere a partire da noi e con noi stessi un qualche rapporto.

Pratiche che indicano la relazione all'oggetto dicendoci come va usato. Nessun oggetto, nessuna opera d'arte è tale al di fuori della logica che ne definisce l'identità. E due sono le classi logiche che raggruppano i luoghi (istituzioni) distinguendoli tra quelli (tutti) dell'arte e quelli (tutti) non dell'arte. La galleria d'arte, il museo nella prima classe, ma anche il teatro, le collane di poesia, di narrativa. Ogni altro luogo non deputato a ospitare arte nella seconda. Luoghi, logiche d'uso esterne all'oggetto, elaborate da una cultura. Cambia la cultura, cambiano le logiche, un'opera d'arte perde la propria artisticità o la riacquista. Non esiste un'opera che possa imporre la propria artisticità in maniera trans-culturale, neppure la Gioconda.

La Gioconda non è arte in sé, ma per cultura e solo per quella che l'ha delegata a funzionare come tale: con essa destinata a vivere e morire. La catena di oblii e di riscoperte di cui è fatta la storia dell'arte, le liti sui restauri o meno e, soprattutto, l'insensibilità di culture radicalmente diverse dalla nostra, prive della nostra nozione di arte, verso questi nostri valori insegnano o, meglio, dovrebbero insegnarci molte cose al riguardo. Del resto questo principio, come qua e là già mi sono lasciato andare ad affermare, pare proprio vero in generale. Già Platone ci ammoniva. Non si dimentichi: chi ha l'arte di fare le selle? Guai a rispondere il sellaio. Chi ha l'arte di fare i flauti? Guai a rispondere il costruttore di flauti: E' il cavaliere, e cioè chi la usa, che ha l'arte di fare la sella e se il sellaio la sa fare è perché non è privo del sapere del cavaliere. Così per il flauto. Cavalcare: una pratica a soggetto diffuso (tutti possono cavalcare) come appunto quelle che indicano i nostri luoghi: al bar e in una galleria d'arte, non uno solo ma tutti possiamo entrare. Guai a dimenticare (a tradire) i luoghi, a non tenerli, insomma, vigilmente presso di sé. Ne vengono, ripeto, guai gravissimi.[51]

E oramai sappiamo cosa intenda Nanni per guai gravissimi. Gli stessi in cui è incorso Goodman che ha tradito il proprio dovere teoretico, quel compito teoreticamente corretto, che per altro, egli stesso si era dato.

[1] Danto, A., La destituzione filosofica dell'arte, Siracusa, Tema Celeste, 1992, pp. 200-201.

[2] Nanni, L., Tesi di estetica, Bologna, Book Editore, 1991, p.73.

[3] Danto, A., La destituzione filosofica dell'arte, Siracusa, Tema Celeste, 1992. Pp. 200-201.

[4] Ibidem.

[5] Op. cit., pp.202-203

[6] Si tratta del libro Silas Marner di George Eliot.

[7] George Eliot fu lo pseudononimo scelto da Mary Ann Evans (1819-1880)

[8] Op. cit., pp. 206-207.

[9] Op. cit., p. 209.

[10]Op. cit., pp.209-210.

[11] Op. cit., p.211.

[12] Nanni, L., Contra Dogmaticos, Bologna, Cappelli Editore, 1990, pp.108-109.

[13] Danto, A., La destituzione filosofica dell'arte, Siracusa, Tema Celeste, 1992. Pp. 211-212.

[14] Ibid. p. 185.

[15] Ibid. p. 183

[16] Ibid. p.184

[17] Nanni, L., Il silenzio di Ermes, Roma, Meltemi, 2002, p.95

[18] Op. cit., p. 65

[19] Op. cit., p.98

[20] Op. cit., p.69.

[21] Op. cit., p.47

[22] Ibidem.

[23] Op. cit., p.27.

[24]Op. cit., pp.209-210.

[25] Fish, Stanley, C'è un testo in questa classe?, Torino, Einaudi, 1987, p.162.

[26] Ibidem.

[27] Op. cit., pp. 162-167.

[28] Op. cit., pp.167-168.

[29] Nanni, L., Il silenzio di Ermes, Roma, Meltemi, 2002, pp.17-18

[30] Op. cit., p.82

[31] Op. cit., p.49

[32] Op. cit.pp.135-136.

[33] Fish, Stanley, C'è un testo in questa classe?, Torino, Einaudi, 1987, p.169

[34] Op. cit., pp 171-172.

[35] Intenzione dell'autore, intenzione dell'opera, intenzione del lettore.

[36] Nanni, L., Il silenzio di Ermes, Roma, Meltemi, 2002. P.87.

[37] Op. cit., p.81

[38] Goodman, N., Vedere e costruire il mondo, Bari, Laterza, 1988, p.67.

[39] Op. cit. p.68.

[40] Nanni, Luciano, Tesi di estetica, Bologna, Book Editore, 1991, p.73

[41] Goodman, N., Vedere e costruire il mondo, Bari, Laterza, 1988, p79.

[42] Nanni, Luciano, Il silenzio di Ermes, Roma, Meltemi,2002, pp. 82-83.

[43] Goodman, N., Vedere e costruire il mondo, Bari, Laterza, 1988, p.80.

[44] Op. cit., pag. 81

[45] Ibidem.

[46] Op. cit., p.82.

[47] Nanni, L., I cosmi, il metodo, Bologna, Book Editore, 1994

[48][48] Op. cit., pag. 123

[49] Nanni, L., I cosmi, il metodo, Bologna, Book Editore, 1994, p. 151

[50] Goodman, N., Vedere e costruire il mondo, Bari, Laterza, 1988, p.84.

[51] Nanni, Luciano, Il silenzio di Ermes, Roma, Meltemi, 2002, pp.83-84.

 

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