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Nanni/Menetti

Ciò su cui sarebbe auspicabile convenire prima e durante ogni discorso sull’arte  + un rimbrotto, deciso, a un giovane studioso di questi temi

Nessun discorso riesce a dire tutto ciò che intende dire. Comincia sempre in mezzo alle parole e qualche nozione la deve dare per scontata. C’è sempre insomma un non detto sul quale si da per scontato un qualche accordo. E qui sorgono i problemi, perché spesso l’accordo tacito presupposto non c’è e gli equivoci e le incomprensioni sono all’ordine del giorno. Scommettendo allora sulla praticabilità comune di un metalinguaggio si corre ai ripari, tentando una specie di protocollo d’intesa. E’ ciò che anch’io vorrei qui tentare di fare circa alcune evidenze più o meno presupposte da ogni discorso, nel caso riguardante l’arte in particolare. Evidenze su cui penso che il mio lettore, poco poco che ci rifletta, possa arrivare a trovarsi con me d’accordo. Ma andiamo con ordine.

Due ordini di discorso: estetica vs poetica

Considerato che in una conferenza, o in una lettura che sia, si è inevitabilmente insieme, parlante o scrivente e ascoltatore o lettore, sarà bene chiedersi come si può stare sensatamente insieme in un discorso. E’ bene che chi ascolta o legge si chieda e chieda a chi parla o scrive “che ne è di me nel tuo discorso?”, “che sono chiamato a fare io, ascoltandoti o leggendoti?”. Ed è bene che l’autore del discorso risponda a questa più o meno implicita domanda, precisando a che fine egli parla o scrive, a che fine coinvolge il suo interlocutore. Ne va, ripeto, oltre che della sensatezza del discorrere stesso, evitando così, per quanto è possibile, fastidiosi equivoci e svianti spostamenti da motti di spirito, per dirla alla Freud, anche dell’etica dei nostri rapporti sociali, per non dire del galateo, che pure conta.

Bene, sarà triste, sarà soffocante, ma noi, al fondo, non possiamo usare il nostro pensiero, e quindi il discorso con cui si sposa, che  in due soli modi: o al fine di intervenire sul mondo per modificarlo, producendo nuove cose e comportamenti (fosse pure la difesa di cose e comportamenti già esistenti) o al fine di descriverli, nelle loro logiche e relazioni, interne o esterne che siano. Il resto, diciamo, è del maligno. Fuor di metafora, solo confusione e non senso.

Certo, io posso non usare il mio pensiero e liberarlo da questa forca, ma qui è del pensiero usato che si sta parlando (e che è il discorso se non pensiero usato?), non del pensiero lasciato nel limbo della nostra mente. Appena si passa al suo uso, la forca scatta. Lo sapeva bene Pitagora, quando, per spiegare cos’era la filosofia, raccontava, si dice, la storiella del mercato. Siano gli uomini, pare dicesse, a un mercato. Bene. Ci saranno quelli che sono lì per perdere tempo, che non sanno che fare, e non ci interessano (sono gli uomini da limbo, dico io); ci saranno poi quelli che sono lì per fare affari e sono gli uomini pratici; ci saranno in fine, forse, quelli che sono lì solo per vedere che cosa succede e questi, pare concludesse Pitagora, sono i filosofi. Quando al nostro premio Nobel Rubbia è stato chiesto da un giornalista quale fosse la molla che lo portava a cercare quanto stava cercando, Rubbia ha risposto: “la curiosità”. Rubbia scienziato è mosso oggi dalla stessa molla che per Pitagora muoveva il filosofo. Qui si potrebbe aprire una lunga riflessione sull’identità o meno di filosofia e scienza. Cosa interessantissima da fare, ma che qui bisogna lasciare da parte per tornare al fine per il quale l’aneddoto di Pitagora è stato raccontato.

Bene. Anche in Pitagora abbiamo un modello a soli due poli di uso del pensiero: fine pratico o etico come io preferisco dire (etico, etimologicamente, legato a cose e comportamenti) e fine analitico o scientifico. Penso infatti che la buona filosofia sia sempre scienza, buona scienza si capisce e, ripeto, mi sia concesso qui di non dimostrarlo, l’ho fatto a più riprese nei miei libri. Si vedano per esempio i miei scritti al riguardo sull’ultimo numero di questa stessa rivista («Parol» 2002, passim). Ogni altro uso è un non-uso, roba da perditempo. Poniamo infatti che io coinvolga un mio interlocutore in un discorso, che so, su un albero. Bene. O gliene parlo invitandolo ad aiutarmi a fare qualcosa circa l’albero, magari a curarlo perché è malato; magari a toglierlo di mezzo perché è cresciuto in un luogo dove non può stare, magari a potarlo ecc. e sono allora e comunque nel primo modello d’uso del pensiero, quello strettamente produttivo che ho chiamato appunto etico e che qui posso dire primario, giacché coincidente con lo stesso vivere, oppure gliene parlo semplicemente per descriverglielo in qualche suo aspetto o caratteristica senza alcuna intenzione di intervenire su di esso, e allora sono nel secondo modello d’uso del pensiero e del discorso, quello che ho chiamato scientifico e che ora posso dire analitico o secondario. E’ noto: non per nulla la nottola, l’uccello sacro a Minerva (Atena, dea della sapienza) arrivava per i greci sul far della sera, quando il giorno era passato, insomma a cose fatte. Sempre la scienza arriva a cose fatte. Sarebbe forse pensabile una linguistica senza una lingua da studiare o una astronomia senza gli astri e così via? La secondarietà della scienza rispetto alla vita è fuori discussione. Non mi sembra ci possano essere dubbi di sorta.

Ed è importante che il mio interlocutore riesca a capire in che tipo di discorso viene coinvolto, giacché diverse sono le modalità in base alle quali egli potrà stare legittimamente nel mio discorso. Nel primo caso ci potrà stare assentendo o dissentendo secondo la sua etica, accettare o opporsi alla mia proposta secondo un suo progetto, anche politico, di mondo; difendere o meno la vita dell’albero con tutte le sue forze, magari provandosi a portami retoricamente dalla sua parte. Modalità che, nel secondo tipo di discorso (nel discorso con intenzioni scientifiche), sarebbero del tutto fuori luogo, giacché in esso si richiede soltanto assenso o dissenso circa la verità di quanto si sta affermando, si richiede solo di controllare se ciò che circa l’albero si sta dicendo è più o meno reale. Non altro; non interventi modificanti  in alcun modo la situazione, ma solo una sua sveglia presa di coscienza.

E’ convinzione, in me resistente, che la scienza, così come s’è venuta nel nostro occidentale mondo sviluppando, da Galileo in poi, sia propriamente analitica, che entri in conclusione in scena secondariamente, a cose fatte, quando insomma una qualche altra pratica ha proceduto sinteticamente e in via primaria a definire l’entità in predicato d’essere da essa (dalla scienza appunto) analizzata. L’analisi, sappiamo tutti, può essere intesa con varie sfumature, ma suo postulato irrinunciabile (lo dice molto bene anche Abbagnano nel suo Dizionario filosofico) è che quando essa entra in scena ci sia già qualcosa di determinato, di fatto, su cui lavorare, appunto da analizzare. E, attenzione, da analizzare in linea di principio con occhio, diciamo così, innocente, senza cioè arrecare all’oggetto studiato alcun danno (innocente, all’etimo, non vuole proprio dire altro) che è come dire senza modificarlo. Non è, infatti, questo che ci attendiamo dalle analisi, poniamo, del nostro sangue, allorché siamo malauguratamente costretti a farle? O che ci aspettiamo forse che l’analisi lo modifichi a suo piacimento? Certo, può accadere (purtroppo è accaduto), ma in via di fatto, come un errore da togliere di mezzo, non come cosa legittima in linea di principio. Una seconda mia convinzione, poi, procede direttamente da questa prima ed è la convinzione che, a ben guardarla, la scienza si manifesti come una (il metodo, s’è detto- Nanni 1994) senza più distinzione alcuna tra le cosiddette scienze dell’uomo e quelle più consolidate della natura. Ma andiamo ancora con ordine.

Vediamo prima la questione dello statuto analitico della scienza. E’, per altro, qui (a questo livello) che essa mi appare in senso proprio scollata dalla tecnica. La tecnica in senso proprio manipola il mondo, interviene su esso per materialmente modificarlo, ha a che fare con la sintesi piuttosto che con l’analisi e quindi con le pratiche etiche o primarie, come detto, tese a produrre non l’analisi, ma le entità da analizzare. Etiche, ribadisco, in senso a-valutativo e puramente etimologico, di fronte a quella analitica appunto e secondaria che fin qui ho chiamato scientifica, ma che potremmo anche dire epistemica, riconducendo ancora una volta la parola alla sua origine etimologica. Non si dimentichi: episteme significa anche posto sopra, appunto secondario rispetto alle pratiche che, in presa diretta, ci legano al mondo e ci permettono orizzontalmente, diciamo così, di viverlo e determinarlo secondo i nostri bisogni. Se mi si passa un’immagine un po’ grossolana, ma molto efficace esplicativamente (così almeno a me appare), si potrebbe dire che tutta l’impalcatura della nostra conoscenza, così come qui la sto considerando, trova nel bue, nella mucca (nel ruminante, insomma) il suo emblema più essenziale. Il ruminante può verticalmente ruminare (scientificamente analizzare, nel nostro caso), ma se e solo se ha previamente e orizzontalmente (dall’esterno verso l’interno) prelevato erba dal mondo, portandola nel suo stomaco. In questo senso anche quel contrasto che si vuole oggi così stridente tra ermeneutica e epistemologia (penso precisamente, in Italia, a Gianni Vattimo) viene a cadere: non c’è scienza senza apertura previa (non scientifica) sul mondo, ma non c’è nemmeno ermeneutica senza analisi. A che occhio, infatti, può apparire la distinzione stessa tra epistemologia ed ermeneutica? Quale occhio può vederla? Non forse un occhio esterno ad entrambe, necessariamente? E un occhio esterno che è se non analitico? E poi non si dimentichi, tanto per dire, quanta parte, quanta importanza, ha l’analisi in Heidegger. Ripeto, tanto per dire di qualcuno che l’odierna ermeneutica non considera da sé tanto lontano. Vorrei rendere, però, più icastico il tutto con un esempio.

Pensiamo alla linguistica. A parte il fatto che Saussure è del tutto d’accordo con quanto vengo sostenendo sull’identità da attribuire alla scienza, d’accordo esplicitamente voglio dire[1], l’esempio della linguistica è convincente anche a prescindere dal prestigio di Saussure stesso. Mio padre, contadino, non sapeva nulla di fonemi, di morfemi, di marche semantiche ecc., eppure parlava il suo dialetto tosco-emiliano senza alcun errore. La lingua, per vivere, non aspetta la nascita della linguistica: vive e basta. Se poi la linguistica arriva, farà con essa i suoi conti. Che altro, se no? E così il cosmo. Il cosmo per funzionare non ha aspettato (e passerei così alle scienze naturali, facendo vedere appunto che la scienza è teoricamente - metodologicamente - una) la riflessione, che so, di Galileo, di Keplero ecc.. La vita del cosmo se ne infischia delle nostre discussioni o preferenze circa il circolo o l’ellisse. Il cosmo vive e basta, e da sempre, prima e dopo (è da presumere) il nostro pensiero. Tanto più che, come anticipato, non è il cosmo (la realtà) che viene direttamente studiato (studiata) dalla scienza. La realtà in sé non viene proprio vista dalla scienza. Lo sapeva già Kant, per non dire anche dei Sofisti greci (ma con costoro, al riguardo, bisogna andare cauti), quando parlava della sua noumenicità. Io vorrei però stare più vicino a noi e a quanto la riflessione epistemologica del nostro secolo è venuta sempre più solidamente riconoscendo, ad Heisenberg, per esempio. La fisica, ci dice Heisenberg, non descrive direttamente l’elettrone, l’elettrone in sé, ma solo l’immagine che dell’elettrone ci danno i suoi strumenti (Heisenberg 1955, p. 42). Non altro. E non è chi non possa vedere anche qui lo schema a ruminante comune alle scienze umane. La funzione di definire concettualmente il mondo da un qualche punto di vista svolta, nell’esempio da scienze umane, dalla lingua (non si dimentichi che la definizione del mondo cambia col cambiare delle lingue) è qui svolta dagli strumenti della fisica o, meglio, dalla fisica-considerata-al-livello-dei-suoi-strumenti, pratica sintetica, produttrice di definizioni del mondo ancora inesistenti e allora non ancora scienza, ma pratica etica al pari di ogni altra attivata dalla vita al suo livello primario, al livello insomma di se stessa in quanto vita. Non bue ruminante, allora, per continuare con la mia immagine, ma solo bue pascolante e nulla più. E quale, nella fisica, il bue ruminante? Che cosa, in essa, l’equivalente della linguistica? Ancora la fisica stessa, ma non più considerata al livello dei suoi strumenti, bensì al livello in cui essa prende coscienza di ciò che essa stessa, attraverso i suoi strumenti, ha prodotto. Presa di coscienza analitica, in linea di principio non più modificante. E che altro, se no? Se continuasse a modificare riscenderebbe a livello dei suoi strumenti (tornerebbe  bue pascolante), confondendo allucinatoriamente un livello con l’altro. E’ solo a questo livello che la fisica, e con essa ogni altra scienza della natura, diviene propriamente scienza, in nulla diversa (diverse) da quelle dette umane.

Ed è qui che la scienza viene a trovarsi, di fatto, fuori dagli strali di coloro che la vogliono causa di tutti i mali di questo nostro mondo. Sue, queste colpe, non sono, ma della tecnica. E’ la tecnica che lavora il mondo e lo fa spesso guidata da morali (da sistemi di valori) che con quello implicito nella scienza nulla hanno a che fare. A differenza di quanto pensano molti, io penso che dalla scienza sia del tutto deducibile una morale e per di più la più salvifica per l’uomo stesso.

Che volete, la cosa è palese: l’uomo non nasce scienziato. Scienziato lo può diventare e, se lo diventa, lo diventa tardi. Voglio dire quando la sua infanzia se n’è già andata ed è già stato, per dirla alla Lorenz, moralmente impringtato, appunto, da sistemi di valori - è da presumere - politici, religiosi o d’altro tipo, ma in genere pre o a-scientifici. Ecco il punto: spesso la morale dello scienziato non è quella implicita nella scienza che egli esercita e i mali sono da attribuire a quella piuttosto che a questa. Non è però questo il luogo per procedere a una trattazione, anche minimamente esauriente, di questo rapporto tra morale e scienza. Rinviando chi fosse interessato alla questione al libro in cui me ne sono occupato (Nanni 1994, passim),  possiamo tornare più strettamente al nostro argomento e aggiungere che l’unicità della struttura teorica (teoretica) della scienza, di cui sto parlando, appare evidentissima se, all’interno della linguistica, si isola quanto fa la fonologia. Si pensi! Essa, districatasi dalle pastoie ancora positivistiche della fonetica attraverso il meritorio lavoro critico della Scuola di Praga, negli anni ‘20/’30, e successivamente, attraverso quello, veramente fondamentale, di L.J.Prieto, dove ha individuato il suo corretto oggetto d’analisi? Non più nel suono in sé, come pretendeva la fonetica, ma nel fonema e il fonema è veramente quella specie di ghiandola pineale dove universo delle scienze dell’uomo, da un lato, e universo delle scienze della natura, dall’altro, possono incontrarsi e fare sistema. Come un Giano bifronte, esso dà sui due versanti: in quanto suono (qualche tratto del suono esso necessariamente lo conserva) esso dà sul versante delle scienze della natura, ma in quanto fonema in senso stretto, vale a dire in-quanto-suono-considerato-in-rapporto-con-una-qualche-lingua e quindi in quanto immagine del suono (una qualche immagine, varia col variare delle lingue) costruita, ritagliata, da una lingua, da una qualche lingua (e credo che l’analogia con quanto succede all’elettrone sia evidente) esso dà sul versante delle scienze dell’uomo, col risultato di uno schema metodologico unico, costituito alla base da un insieme di costrutti cognitivi (fenomeni avrebbe detto Kant) frutti delle nostre pratiche (delle nostre tecniche) relazioni con il mondo. Quelli che io, ripeto, chiamo i cosmi. E, sopra, una scienza che non ha più come suo oggetto di studio direttamente il mondo in sé, ma questi cosmi costruiti dalle nostre pratiche e che, se ci dice qualcosa circa il mondo, materiale o psichico che sia, ce lo può dire soltanto indirettamente attraverso congetture la cui accettabilità va sempre commisurata all’avallo di questi cosmi-costrutti, che esse, per raggiungere il mondo in sé, devono attraversare. Ancora Kant? Sì, ma con una vigorosa demetafisicizzazione dei trascendentali, degli a priori insomma, legati ormai solo alle culture, alla loro diversità e alla loro storica mobilità.

Del resto anche la fisica lo sa di essere scienza soltanto al suo livello analitico, non prima e non dopo. E non tanto perché già Aristotele gliel’aveva detto, scorporandola dalle scienze pratico-poietiche  (tecnico-produttive appunto) e includendola, con la matematica e la metafisica (la teologia), in quelle teoretiche (non si dimentichi che all’etimo “teorico” significa “guardare” e che l’analisi è il guardare per eccellenza), ma perché proprio nei suoi odierni manuali essa si denuncia come tale. Ricorda, chi mi sta seguendo, il caso recente di Pons e Fleismann? Il clamore suscitato attorno al loro caso? Ricorda la pretesa (loro) scoperta della fusione nucleare a freddo? Pretesa di primo acchito non illegittima, se è vero come pare sia vero che nel loro laboratorio è veramente avvenuta una produzione di energia eccedente quella consumata per produrla, e pretesa del tutto scientificamente accettabile da chi fosse incapace di distinguere tra la fisica come pratica etico-produttiva (tecnica, s’è detto) e la fisica, invece, come pura analisi (scienza), ma la fisica in quanto scienza sa distinguere, magari solo intuitivamente, ma sa già distinguere. Se infatti si va a consultare i suoi manuali, quella scoperta, in quanto scoperta scientifica, non c’è, non viene registrata. Eppure, ripeto, il fenomeno pare proprio che sia tecnicamente avvenuto. E allora che cosa impedisce il suo accesso ai manuali? Ecco il punto: lo impedisce il fatto che non si sa ancora come sia avvenuto e cioè la sua mancata illuminazione analitica e di conseguenza la sua irriproducibilità. Ma questa è una conseguenza del buio analitico in cui ancora la cosa bivacca ed è questo buio analitico che le impedisce l’accesso alla scienza. Non altro.

Bene. Due diversi usi del pensiero questi che nel campo dell’arte hanno assunto, rigorosamente parlando, due nomi diversi: estetica quello scientifico e poetica, quello tecnico-pratico. Nell’estetica, diceva Prodi con riprovazione, il ruolo dell’osservatore è mescolato al fatto osservabile ancor più di quanto non accada per altri tipi di “presa di contatto” con il reale...(Prodi 1983, p. 9). Ora, c’è una pronuncia novecentesca dell’estetica che questa confusione l’ha rifiutata da tempo. Una pronuncia che comincia lontano nel secolo, ma che io raccoglierei per comodità nei suoi esiti ultimi. Mi riferisco all’identità che all’estetica viene data nella nuova fenomenologia critica. Prendiamo il pensiero di Luciano Anceschi in emblema: non solo la distinzione indicata egli la persegue, ma ne fa il perno di decenni di lavoro. Sappiamo. Un conto sono le poetiche (se si vuole “i modi linguistici di chi sviluppa sperimentalmente il campo dell’arte” di Prodi e l’analogo delle “linguistiche normative” o della “lingua” in Saussure), pratiche legittimamente definitorie in modo dogmatico, sintetiche e produttive: pensiero etico, pratiche etiche insomma nei miei termini. E un conto è l’estetica. Orizzonte puramente teso a comprendere quanto il campo delle poetiche attiva e variamente mette in campo (le opere d’arte) e divide e tra loro relaziona secondo moti, continui e discontinui insieme, che sono quelli della vita. Arte (poetiche) uguale a vita.  Estetica uguale a riflessione sulla vita. Guai, anche per Anceschi, ad un’estetica che si facesse contaminare dai modi delle poetiche, cioè della produzione dell’arte. Morirebbe come estetica e vivrebbe semplicemente come una poetica tra le altre (tante) senza più alcuna legittimazione a comprenderle. Anzi, naturalmente loro antagonista e con esse in guerra (legittima, a questo comune livello sì) di sopravvivenza. Morirebbe insomma - e non vedo come, dopo quanto fin qui s’è detto, non si possa non essere d’accordo - come scienza.

Del resto dalla parte della riflessione scientifica sull’arte questo si sa. Altri, molti altri oltre a Prodi, sapevano e sanno che questa distinzione è doverosa. Rileggiamoci insieme, per esempio, Roman Jakobson:

La ricerca sintattica e morfologica - egli sottolinea - non può essere soppiantata da una grammatica normativa; allo stesso modo, nessun manifesto che proclami i gusti e le opinioni personali... sulla letteratura creatrice può sostituirsi ad un’analisi scientifica e obiettiva dell’arte del linguaggio(Jakobson 1963, p. 183).

Anche qui la pronuncia è decisa. La confusione dei due punti di vista non paga, né per la scienza né per la poesia (per l’arte). Jakobson qui si riferisce in specifico alla confusione tra scienza dell’arte e gusto del critico, ma se al cospetto della scienza è l’intromissione nella scienza stessa del gusto creativo (dei modi dell’arte) che va stigmatizzata, quanto più varrà per le poetiche degli artisti quanto Jakobson dice dei critici. E così pensava Roland Barthes. E così pensava J. Lotman e prima ancora J. Mukarovský. E così anche, in linea diretta con Jakobson, pensava e pensa Umberto Eco e, con lui, caterve di linguisti e semiologi, più o meno noti, più o meno bravi.

Il guaio è che poi, all’atto pratico, se ne dimenticano e finiscono per confondere proprio quanto così solennemente vorrebbero (giustamente) diviso. Jakobson e tutta la sua progenie, ammettendo surrettiziamente nella scienza dell’arte (nell’estetica) un loro gusto, un loro interesse, la poetica simbolista e futurista, per ciò che della poetica simbolista in termini di attenzione al linguaggio il futurismo si porta dietro, a scapito ovviamente dei diritti di riconoscimento dovuti a tutte le altre[2]. Barthes, immettendovi una “decontingentizzazione” metafisica, in sé monolitica e infalsificabile: una vera coperta, asfissiante per l’arte e la sua sfrangiata (storica) varietà (Barthes 1965, p. 47). E così via. Si potrebbe continuare con tanti altri esempi, a cascata.

L’indifferenza dell’artisticità ai contenuti: il problema degli indiscernibili “estetici”

Converrà riprendere, sobriamente, il nostro filo e chiederci se, fallito l’aggancio tra la scienza e l’arte per via formale (la scienza, s’è visto, ha semmai qualche rapporto con l’estetica, se questa evita di confondersi con l’arte, ma mai con l’arte), non sia per altro possibile tentarlo per via sostanziale. Fermiamoci un momento.

Abbiamo individuato la “scienza”, un principio di fondo della sua struttura formale. L’abbiamo poi calata a mo’ di caglio nel campo dell’arte; qui l’abbiamo vista conformarsi non all’arte in senso stretto e al pensiero (alle poetiche) che la producono, ma alla riflessione sull’arte e cioè all’estetica. Non volendo ancora desistere dal nostro intento, non resta che una via di confronto, quella appunto sostanziale: il confronto tra i contenuti della scienza e quelli dell’arte. Scienza che, a questo livello, ritornerà subito ad essere naturalmente le scienze, al plurale. E’ solo il contenuto che differenzia - è bene ribadirlo - una scienza dall’altra, non i loro postulati formali che, s’è visto, sono sempre gli stessi.

Biologia diciamo la scienza se si occupa della vita, astronomia la diciamo se si occupa degli astri, linguistica se si occupa della lingua e così via. Tanti allora i contenuti da tenere presenti. Tanti quanti quelli delle scienze esistenti.

Va bene. Ma quali sono i contenuti dell’arte? Come procedere seriamente al rapporto se non ci si interroga prima sui contenuti propri dell’arte? Ma esistono contenuti propri dell’arte? Se sì, quali sono? E se no, perché? Vediamo.

Un giorno, a un’esposizione d’arte concettuale presso il New York Cultural Center, mi capitò di vedere - racconta Arthur C.Danto - un’opera costituita da un normale tavolo con sopra alcuni libri, libri di filosofi analitici quali Wittgenstein e Carnap, Ayer e Reichenbach, Tarski e Russell. Riducibile, nella sua anonimicità, a una semplice superficie da lavoro, avrebbe potuto trattarsi d’un tavolo del mio studio, gli stessi libri erano del genere da me spesso consultato nell’ambito del lavoro filosofico che stavo facendo.

E prosegue:

Una conseguenza filosofica dell’esistenza di opere artistiche esattamente uguali ad oggetti d’uso comune fu che la diversità tra le une e gli altri non poteva consistere in alcuna presunta differenza estetica. Un tempo ai teorici le qualità estetiche erano parse tanto simili alle qualità sensorie da far pensare che il senso della bellezza dovesse essere il settimo senso... Ma così come l’opera d’arte e l’oggetto reale condividevano ogni qualità sensoria tanto che riusciva impossibile distinguere l’una dall’altro unicamente con l’aiuto dei sensi, non era neppure possibile distinguerli esteticamente, se le differenze estetiche equivalevano a differenze sensorie (Danto 1986,  pp.7-10).

Ora, sorvolando sul fatto che in questo testo di Danto l’aggettivo “estetico” non ci rinvia al termine “estetica”, secondo il significato che esso ha qui per me, come la scienza dell’arte, ma ambiguamente a volte alle qualità artistiche, a volte alle semplici qualità sensibili indipendentemente dal loro rapporto con l’arte (è in questo secondo senso che l’ho citato, l’aggettivo, nel titolo del paragrafo) e sorvolando poi anche sul fatto che Danto finisce per rispondere al problema secondo un aristotelismo di maniera che lascia a mio parere le cose come stanno[3], nell’assumere la questione è invece molto bravo e deciso: se un tavolo è arte e un secondo no e i tavoli sono uguali, l’artisticità non può essere funzione della struttura degli oggetti e delle loro qualità sensibili (estetiche, naturalmente secondo l’etimo del termine). Ormai sappiamo. Casi simili, dopo, Duchamp e i suoi ready-made, sono ormai all’ordine del giorno nella nostra cultura, con equivoci a non finire.  A volte costosissimi per chi ci casca. Si pensi, per tutti, al caso della porta di Duchamp, creduta una vecchia porta rotta e restaurata dalla ditta incaricata della manutenzione dei locali, al processo che ne è seguito e al pesantissimo risarcimento cui l’Ente Biennale è stato condannato. Bene. Se l’artisticità non è funzione della struttura degli oggetti e delle loro qualità sensibili, di che cosa sarà funzione, a che cosa andrà legata? Beh! Non c’è tanto da scegliere. Se non è riconducibile alle cose in sé e se in qualche modo con le cose ha a che fare (l’opera è pur qualche oggetto, fosse pure la scritta che lo nega), essa non potrà che risultare legata a un qualche loro modello d’uso. O dentro le cose[4] o fuori: non c’è scampo. Ma che si può dare fuori se non il loro uso? Modello d’uso che può addirittura fungere da ragione della loro stessa nascita. Ho bisogno del tavolo e me lo faccio, e nella forma che proprio mi serve oppure, se è già fatto, lo prelevo come tale; ho bisogno d’esperire la presenza di una certa opera e me la faccio oppure la prelevo se già fatta come la voglio e così via. Modello d’uso, delega d’artisticità (coltivazione del mondo secondo una certa idea di arte), una poetica insomma, che potrà anche poi, date le sue necessità, pretendere (sì) l’attenzione alle qualità sensibili delle cose, ma appunto come sua volontà, come sua scelta, in seconda battuta quindi, e mai obbligatoriamente.

L’obiezione, per altro, possibile e di fatto praticata che questa verità varrebbe solo per l’arte concettuale non convince. Anzi, convince piuttosto il sospetto contrario e cioè il sospetto che nell’arte concettuale venga a nudo il principio costitutivo dell’arte in generale, il principio che la vuole sempre costituita storicamente da una qualche cultura, che la vuole sempre, per meglio dire, come frutto della coltivazione artistica del mondo da parte di una qualche poetica, dentro e per un determinato spazio-tempo e a quello legato in vita e in morte.

Principio, questo, tanto più valido in quanto non solo pensabile alla base della costituzione dell’arte, ma dell’identità delle nostre cose in generale.

Nessun contenuto allora proprio dell’arte. L’arte del xx secolo ci dimostra per sé e per il passato che qualsiasi contenuto può entrare, intersoggettivamente parlando, nella casa dell’arte: dai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni alla Merda d’artista di Piero Manzoni, da una sinfonia di Malher a un poema ventrale di Adriano Spatola, ai rumori delle sedie di Cage. Nessun contenuto può essere, in linea di principio negato all’arte. E non è questa verità solo post-strutturalista e post-moderna che dir si voglia, dove indubbiamente trionfa (penso appunto a Danto, penso a Fish) contro lo strutturalismo ideologico (una poetica assunta indebitamente a dominio e mascherata da scienza, da estetica) degli anni passati, ma è verità teoretica più vasta e ha radici lontane. Nell’estetica del Novecento già in Mukarovský (quello buono, naturalmente[5]) e in generale, nella teoretica, addirittura in Platone. Il Platone del trionfo dell’uso, naturalmente. Rammentiamo: chi ha l’arte di fare le selle? Non il sellaio, ma il cavaliere. Chi ha l’arte di ben fare la cetra? Non il costruttore di cetre, ma il citarista, colui che la suona[6]. Grande verità che, storicizzata nei suoi modelli (dalla metafisica alla storia, alla pratica), spiega a mio parere molte cose, anche se condannata ad emergere sempre e soltanto in periodi di crisi, quando per una ragione o per un altra, i signori dell’ideologia non riescono più, come al momento, a farla covare dalle soffocanti loro ceneri.

Conclusione: come porre, anche per questa strada dei contenuti, i rapporti tra arte e scienza? Impossibile se non all’insignificanza: il mondo è il loro contenuto comune, che è come dire nulla, giacché il mondo non è tanto un contenuto quanto l’orizzonte di tutti i contenuti possibili, assunti o meno che siano nell’arte o nella scienza.

Tutto ciò teoreticamente e solo teoreticamente parlando, perché dal punto di vista storico le cose sono messe diversamente.

E’ noto infatti che molti sono gli artisti che si sono lasciati (e si lasciano) suggestionare da scoperte (da contenuti) di una qualche scienza nonché dai procedimenti razionali della scienza tout court nella produzione delle loro opere e, viceversa, che anche gli scienziati si lasciano, a volte, guidare da poetiche nella costruzione delle loro teorie, ma questo non fa testo o, meglio, non rientra in ciò che questo mio testo prevede: scienziati e artisti possono prelevare i loro materiali ovunque, abbiamo visto, ma non è questo il livello in cui, ribadisco, arte e scienza in quanto tali si costituiscono. Il materiale prelevato finirà o meno nella scienza o nell’arte a seconda, ripeto, delle sue modalità d’uso. In ogni caso, far vedere questi scambi storici non è qui mio compito. E del resto sono infiniti.

Soggetto empirico vs soggetto funzionale

Anche questa distinzione è fondamentale. Distinzione che anche in Prieto (Prieto 1985) è stata tematizzata nell’opposizione tra identitità numerica e identità specifica, da cui la mia funzione specificatrice d’artisticità intesa come funzione attraverso la quale una poetica pone l’artisticità dei propri oggetti. Occultarla significa predisporsi a cadute continue nell’ipostatizzazione ad essenza del fenomenico, nell’indebita estensione delle verità parziali a verità totali, in una parola nell’ideologia, mostro letale per chi vuole fare correttamente scienza. Vorrei spiegarmi meglio anche con un esempio o, meglio, con un aneddoto.

Me ne stavo un giorno bel bello (così tanto per dirla con manzoniana memoria) nel mio studio, accudendo tranquillamente ai miei lavori, quando, dopo aver bussato entrò un giovane che si presentò come poliziotto e mi invitò gentilmente ad intervenire a un loro annuale convegno. Alla mia precisazione che, insegnando estetica, non avrei saputo cosa andare loro a raccontare, egli mi rispose che conosceva i miei libri e che, se avessi voluto, sarei stato certamente in grado di trovare qualcosa di interessante anche per loro. Stimolato nel mio amor proprio accettai e cominciai subito a  interrogarmi su quali argomenti avrei potuto trattare, rimanendo nell’ambito di pertinenza della polizia. Devo dire che la faccenda non si stava mettendo tanto bene: con più la scadenza si avvicinava più io brancolavo nel buio. Non sapevo proprio che cosa sarei  andato a dire, finché una mattina, aprendo al bar un giornale, la salvezza mi venne miracolosamente incontro. Sul giornale c’era questa notizia: “Stimato professore di lettere arrestato perché sequestra la moglie”. Era fatta! Sarei andato a proporre alla polizia questo rompicapo. Come fare ad arrestare il marito, colpevole di gelosia perniciosa, lasciando libero lo stimato professore di lettere, che non aveva alcuna colpa, anzi era pieno di meriti per il suo lavoro? Così feci e ne venne fuori un dibattito di cui alcuni hanno ancora memoria. Ogni arresto è sempre debordante, giacché si arresta un corpo, ma il colpevole è sempre e solo un soggetto funzionale, vale a dire un corpo non in assoluto, ma in relazione a una qualche pratica. Un corpo può entrare in diverse pratiche e il linguaggio non nomina il corpo ma l’identità che il corpo acquisisce nelle pratiche in cui entra, professore in rapporto agli scolari, marito in rapporto alla moglie, padre in rapporto ai figli ecc. ecc..

Ora, a che fine questo racconto? Eccolo il fine: checché se ne dica il nostro linguaggio non nomina mai i corpi (gli oggetti) da soli, in assoluto, ma nell’identità che essi hanno dentro a una qualche pratica. Non per nulla un tempo ci si diceva che il verbo, appunto l’azione, era la parte fondamentale del discorso. In principio non ci sono le cose ma le relazioni e noi nominiamo queste e non quelle: sempre. E se a volte ci sembra, in rapporto a qualche termine, il contrario è perché abbiamo perso memoria delle sue radici. Ma dove le radici sono raggiungibili questa verità trova sempre conferma. Verità devastante anche per l’idea corrente di arte. Vediamo.

Lo scolabottiglie (e siamo ancora agli indiscernibili, a uno dei più famosi) non è scolabottiglie in sé, ma solo dentro la pratica, la relazione dello scolare-bottiglie (del resto che indica, il suo preteso nome, se non questa pratica?). Fuori da questa pratica tale oggetto perde il suo nome e regredisce a cosa[7]. Perché meravigliarsi allora se, entrando in relazione con la galleria d’arte anziché con la cantina, acquisterà l’identità di opera d’arte e sarà apprezzato per la sua forma, il suo colore, ecc.?

Tale meraviglia o scandalo è frutto di due ipostatizzazioni dovute alla nostra tradizione occidentale. Una è dovuta alla convinzione errata, di origine anche biblica, che il linguaggio non nomini le pratiche, ma le cose, l’essenza delle cose, e l’altra, di ordine metafisico, è dovuta al fatto che si sa che dove c’è un’essenza non può essercene un’altra. Se qualcuno pretende di metterne un’altra è indubbiamente un mistificatore della verità. Del tutto naturale allora che si faccia fatica ad accettare uno scolabottiglie come opera d’arte, ma dal far fatica a remare contro ce ne vuole. L’artisticità è una funzione (una relazione) in cui, volendolo qualche cultura, qualsiasi cosa può entrare. Non ci sono cose e oggetti artistici per natura, come abbiamo già visto interrogandoci sui contenuti dell’arte. E poi non dimentichiamoci di Pascal: ciò che qui è giusto là è ingiusto; ciò che qui è bello là è brutto e così via.

Comunicazione come auto-comunicazione

La cosiddetta comunicazione, se decostruita a dovere, si rivela invece solo auto-comunicazione e l’arte si distingue oggi da essa non in base alla corrente opposizione comunicazione anomala (quella dell’arte) vs comunicazione in senso proprio, ma in base all’opposizione evocazione polisemica vs evocazione monosemica. Occorre però andare con ordine.

Vediamo: partiamo da un vocabolario qualsiasi, da qualcosa di condiviso intendo. Leggiamo. Comunicazione: atto del comunicare. Vediamo allora comunicare: trasmettere pensieri. Trasmettere pensieri, il cosiddetto messaggio. Bene: questa nostra convinzione, apparentemente così convincente, è, scientificamente parlando, insostenibile, diciamo pure falsa. Sorpresi? Bene: decostruiamola allora, piano piano, e vediamo.

Poniamo che io mi volti verso un mio interlocutore e gli dica, che so, la parola “aquila”. Esce forse un’aquila dalla mia bocca? No di certo. Ma c’è di più: esce forse il concetto di aquila? Nemmeno. Non vedo chi non possa essere d’accordo. Dalla mia bocca, rigorosamente parlando, non esce un’aquila in carne e ossa, ma non esce nemmeno il pensiero. Nessun concetto (nessun messaggio) passa nella comunicazione dall’emittente al destinatario, con buona pace di tutte le nostre convinzioni. Dalla mia bocca si attiva soltanto un processo fisico di tipo sonoro che raggiunge l’orecchio del destinatario e nulla più. Tutto il resto viene fatto dal destinatario stesso. E’ il destinatario (il ricevente) che, captato il segnale fisico, preleva dalla sua, diciamo così, concettoteca mentale il concetto di “aquila” e lo lega al segnale fisico che ha ricevuto, costruendo il segno. Il segno non glielo invio io, se lo costruisce da solo: è il ricevente che comunica a se stesso quanto io intendevo comunicargli. Come poi egli riesca a ricostruire nella sua mente, da solo, il segno che già io avevo costruito da solo nella mia è cosa che esige dalla scienza, se possibile, una spiegazione. La prova dell’avvenuto miracolo la si ha infatti solo a posteriori. E’ dal comportamento del destinatario che io mi accorgo della comunicazione avvenuta, non prima. Se io chiedo a qualcuno una penna e costui me la porta, ho la prova che nelle nostre solitudini abbiamo costruito lo stesso segno. Altre certezze non ce ne sono e, in assenza di tali prove fattuali, gli equivoci, come penso che ognuno di noi ben sappia, sono sempre possibili. In assenza di tali riscontri operativi chi potrà mai essere certo che l’altro non abbia frainteso, non abbia insomma associato allo stesso stimolo fisico pensieri diversi? Ci sono fraintendimenti, a volte, che rimangono nascosti per anni. Svelati poi casualmente, sappiamo, magari da un lapsus. Cose impossibili se la comunicazione fosse quel passaggio di concetti o pensieri che comunemente si pensa. E poi, passaggio di pensieri! Se fossimo in presenza di una reale trasmissione di pensieri, che bisogno avremmo di parlare? Non è al silenzio che usualmente, per esempio un mago, associa la trasmissione del pensiero? E il fatto che parliamo è quindi la prova più lampante che quando parliamo non stiamo trasmettendo (comunicando) ad altri alcun pensiero. Alcuni filosofi, di fronte a questo mistero, hanno fatto ricorso alle garanzie di un terzo: la natura (l’innatismo), Dio ecc.. Ma son cose da filosofi metafisici. Dignitosissime, ma, appunto, da metafisici. Alla scienza, alla filosofia critica basta arrivare al mistero (se ovviamente non riesce convincentemente a scioglierlo), che poi ognuno, a fede, può riempire con ciò che crede.

Per quanto mi riguarda una spiegazione scientifica di tale fenomeno credo di averla data e si rinvia il mio lettore, se interessato ad approfondire tale questione, al libro in cui mi preoccupo di darne ragione: lì troverà anche considerazioni circa l’inanità del ricorso alla nozione di codice per uscire dal problema. (Nanni 2002, pp.147-186).

Nella comunicazione allora niente trasmissione di concetti, ma, come mi provo a dimostrare nel libro mio appena citato, solo evocazione (auto-evocazione) di concetti già presenti e comuni. Non altro.

Si ritiene comunemente che presupposto di una vera comunicazione sia la partenza dei dialoganti da mondi e esperienze diverse. Questa convinzione fa chiaramente sistema con la teoria della comunicazione come trasmissione, passaggio di concetti (di esperienze diverse) dall’uno all’altro e viceversa. Si dice: non si dà esigenza di comunicazione là dove è abolita la differenza tra le esperienze del mondo, perché è questa differenza che è alla base di ogni bisogno comunicativo. Bene. Se questa teoria è falsa, come qui vengo sostenendo, questo fatto non può verificarsi. Esperienze diverse non potranno mai essere messe in comune. La comunicazione, correntemente intesa come messa in comune di qualcosa tra persone di cultura diversa, non può passare per il semplice discorso, ma ancora per l’esperienza. Sono le nuove esperienze fatte insieme che possono mettere in “comunicazione” persone di culture diverse, non il semplice dialogo a partire dalla loro diversità. Volendo, si può sì “comunicare” una propria esperienza (un proprio concetto) a chi non ne ha conoscenza, ma solo per approssimazione analogica, la qual cosa non falsifica affatto il principio della comunicazione intesa come auto-comunicazione evocativa, giacché è solo evocando le conoscenze già possedute che il ricevente può tentare di costruire una meta-conoscenza, diciamo così, congetturalmente corrispondente a quella che l’emittente sta tentando di trasmettergli, di “comunicargli”. Rigorosamente parlando un discorso funziona, “comunica”, se evoca qualcosa che è già comune, ma non può crearlo, assolutamente. Extra-comunitari ed europei comunicheranno realmente tra di loro vivendo insieme e facendo insieme le stesse esperienze. E, intendiamoci, a questo livello e solo a questo, e se i livelli di esperienze fatte in precedenza separatamente non saranno così cogenti da riverberarsi deleteriamente sui nuovi fino a svuotarli di senso. Evocazioni monosemiche, nel discorso pratico; evocazioni, oggi, polisemiche, nell’arte.

Perché solo oggi l’arte sarebbe polisemica?  Non è forse stata concepita in tal modo anche per il passato? Inviando la terza cantica a Cangrande della Scala non gli ricordava già Dante, nel Medioevo, che la si poteva leggere in diversi modi, insomma che per essa andava teorizzata una vita polisemica? Certo. Dante così diceva, ma la polisemia di cui egli parla non era indefinitamente aperta come quella propria dell’arte oggi. Sappiamo. Si tratta di una polisemia a due (e poi divisa a quattro) livelli e basta. Ancora una polisemia chiusa e quindi sostanzialmente una monosemia. Quattro i livelli di significato associati all’opera dal suo autore e quattro, gli stessi, quelli che per conto suo è tenuto a ricostruire nella sua mente il lettore. Non uno di più. Un palazzo a quattro piani insomma e non a uno solo, ma pur sempre un palazzo e basta.

Cifra gravida di implicazioni, questa della funzione polisemicamente aperta, propria oggi dell’arte e in tutte le direzioni. Polisemia funzionale, perché frutto non della struttura dell’opera (anche l’opera più semplice si manifesta all’interpretazione senza fondo), ma del luogo-arte e, si capisce, nel luogo-arte può entrare ed è entrata ormai qualsiasi cosa, come s’è visto.

Il potere costitutivo dei luoghi

Si è accennato al potere del luogo-arte. Vediamo meglio il potere di questo luogo e dei luoghi in genere. Quale il ruolo dei luoghi (del bar, del teatro, ecc.) nel processo di significazione? Esiste un loro ruolo? A mio parere esiste ed è, lo si può intuire, fondamentale.

Direi che un buon avvio a quanto voglio dire circa l’argomento indicato dal titolo sia costituito da quanto successo alcuni anni or sono al famoso gallerista italo-americano Castelli. Nel ricordarlo, a poca distanza della sua scomparsa, Claudio Magris approfitta, non ricordo in che giornale - credo sul «Corriere della sera» -, di un aneddoto che lo riguarda per fare alcune considerazioni sull’arte contemporanea in generale. Che cosa era successo a Castelli di così potenzialmente emblematico? Aveva organizzato a New York una collettiva in odore, prima ancora della vernice, di venire chiusa, a causa della possibile offesa al comune senso del pudore da parte di alcune opere degli artisti presenti. Che fare? Rinunciare alla mostra o sfidare le autorità? Si decise per una via intermedia: la mostra si sarebbe fatta ugualmente, ma alla vernice il pubblico si sarebbe trovato di fronte a quadri tutti coperti a lutto, coperti di tela nera. Come dire: guardate a cosa ci costringe la censura, a non farvi vedere queste opere e praticamente a ucciderle. A mostra aperta la sorpresa di Castelli fu enorme: il pubblico non recepì affatto la cosa come protesta, ma del tutto tranquillamente pensò che quei quadri (quelle opere coperte di tele nere) fossero le opere in esposizione e le contemplò estasiato, arrivando perfino a prendere appunti. Magris, costretto al dibattito da altri interventi, non si sottrae al sospetto che nell’arte contemporanea possa essere abbastanza presente un filo di deplorevole inganno e mistificazione. A un certo punto nel dibattito si inserisce anche Eco, che, in una delle sue famose bustine di Minerva (Espresso), dice: non sono stato interpellato, però mi permetterei di dire la mia. E che cosa dice? Dice che dovremmo trovare ormai, dopo Duchamp e il suo Scolabottiglie, abbastanza normale la possibilità di esperire artisticamente degli oggetti che non sono stati prodotti con intenzione artistica. Che cosa fece Duchamp? Duchamp prese, come s’è detto’ lo Scolabottiglie e lo dislocò, semplicemente lo spostò, dal negozio del cantiniere alla galleria d’arte. Diciamo che questo oggetto è diventato arte semplicemente perché, come abbiamo visto, ha cambiato luogo, anche se non ha subito alcuna modificazione a livello strutturale. Così, dice Eco, dopo questo gesto dovrebbe essere abbastanza facile per noi vivere artisticamente qualsiasi cosa, anzi arriva a dire che se gli oggetti reali ci provocano lo stesso piacere che potrebbe darci la loro pittura, come dire, se una tela di sacco reale mi dà lo stesso piacere della tela di sacco dipinta, la mistificazione vera sarebbe dipingerla e non vivere artisticamente l’oggetto reale. Solo che, così facendo, l’amico Eco, con cui di queste cose discuto da vent’anni (Nanni 1991,  passim), non mi spiega il problema, non mi spiega lo stupore di Castelli. Perché, vuoi che Castelli non conoscesse Duchamp? Vuoi che Castelli, che fu uno dei maggiori diffusori dell’arte d’avanguardia di tre quarti del Novecento non fosse al corrente della poetica di Duchamp? Il problema è che, nonostante sapesse questo, si stupisce. Eco in fondo gli dà e ci dà un consiglio: non ti stupire - sembra dirgli ovviamente a distanzadi spazio e di tempo - sappi, ricordati, che c’è questo, che c’è stato Duchamp. Ma questo è un consiglio etico, come dire, è un consiglio di comportamento. A me interessa invece (e credo anche a tutti noi) una spiegazione teoretica; interessa sapere quale possa essere stata la causa dello stupore di Castelli, nonostante la sua conoscenza della poetica di Duchamp.

La causa, a mio parere, è l’ignoranza che abbiamo per abitudine circa la potenza dei luoghi. Noi pensiamo inconsciamente che i luoghi siano neutri, invece i luoghi hanno un potere formante autonomo fortissimo ed è in genere più potente del potere formante che hanno gli individui che li abitano. Perché è importante insistere sul luogo? Castelli conosceva le poetiche dell’arte del Novecento, ma era evidentemente all’oscuro del potere formante che aveva il luogo che dirigeva: bastava la galleria d’arte a proporre al pubblico qualcosa come arte. Il luogo pubblico (la galleria d’arte è un luogo pubblico: può essere proprietà di qualcuno in particolare, ma tutti vi possono entrare) è un’entità fisica, un significante per dirla alla Saussure, che, in quanto tale, rinvia ad una significazione, a una convenzione, che è nostra. Il luogo è, quindi, più potente dei singoli, perché rappresenta ciò che è trasversale a tutti i singoli. Del resto che intendiamo dire tutte le volte che usiamo l’espressione “questa cosa o questo comportamento è fuori luogo” se non proprio quanto sto dicendo? Nella cultura i luoghi sono le epoche storiche. L’opera e il fruitore nel Medioevo ubbidivano a delle logiche che sono totalmente diverse da quelle che regolano i loro rapporti nella contemporaneità. Polisemia chiusa (allora) e polisemia aperta (oggi). E dentro a questi luoghi culturali, che potremmo dire epistemici, ecco i luoghi semiotici, i luoghi insomma cui è deputato il compito di attivare le regole d’uso dei segni stabilite dalla cultura stessa di riferimento (Museo d’arte, bar oggi, locanda nel Medioevo ecc.).

Che i luoghi abbiano un tale potere di costituzione del senso è presto detto. Comincerei mettendo subito tutte le carte in tavola e ciò, avendo poco spazio, è possibile soltanto - e non è chi non lo capisca - ricorrendo a quella che Kant diceva una intuizione e che qui, più correntemente, si preferisce dire un esempio, seppur strano, da mondi possibili. Prendiamo la frase (la domanda) “Mi dà un caffè?” E’ un esempio cui ricorro spesso per dire quanto, nel caso, voglio dire.

Supponiamo che un alieno atterri sul nostro pianeta (precisamente nel nostro paese: in altri, detta domanda, non è proprio così diffusa) e che, impossessatosi d’acchito, supponiamo, dell’insieme del nostro lessico e di tutte le regole per usarlo, voglia subito formulare, anche lui, tale domanda capace di fargli assaggiare quella strana cosa che noi chiamiamo appunto caffè. Gli basterà, forse, per ottenerlo, operare sull’indeterminato (sull’entropico) campo del lessico e delle sue regole combinatorie la doppia selezione (la doppia scelta, la doppia determinazione o messa a fuoco che dir si voglia) delle cinque fonie - quattro le parole e una, l’intonazione interrogativa - da un lato, e della regola (anch’essa tra le tante) della loro unione (nel caso: pronome + verbo + articolo ecc.)? Evidentemente no e credo che siamo tutti d’accordo. Sarà infatti necessario che tale messa a punto (messa in determinazione) del linguaggio, al fine di ottenere codesto benedetto caffè, avvenga all’interno di un bar o, se volete - concedo - in qualsiasi altro luogo, ma non, per esempio, su un palcoscenico, all’interno di una recita. Ve l’immaginate la sorpresa del nostro alieno, nel caso avesse a chiedere un caffè in tale luogo? Nessuno si alzerebbe per portarglielo e anche se un barman, casualmente presente tra il pubblico, avesse (sovrappensiero, per condizionamenti alla Pavlov, tanto per intenderci) ad alzarsi e a portarglielo, nessuno riuscirebbe a vivere come reale tale evento. Intanto tutti sentirebbero un irresistibile impulso a ridere di lui (classica la situazione comica dell’errore di luogo) e poi se il nostro alieno avesse per caso a berlo, nessuno (colmo della beffa) penserebbe che egli ha bevuto realmente un caffè, ma soltanto che egli ha recitato (come dire?) la “bevuta” di un caffè e nulla più. Con sua grande sorpresa il nostro alieno si accorgerebbe che per possedere una lingua non basta possederne il lessico e il codice combinatorio (grammatica e sintassi), ma occorre possederne anche le convenzioni (i meta-codici, diciamo così) d’uso: questi soltanto capaci di far lingua una lingua, tanto in senso non-referenziale che referenziale (monosemico, in senso stretto).

Non c’è linguaggio senza esecuzione sintattico-grammaticale del lessico. Ha ragione Weinrich: solo l’esecuzione sintattico-grammaticale fa passare il significato dei termini dall’ampio, dal vago, dal sociale, dall’astratto, in una parola dall’indeterminato al determinato dell’intendimento circoscritto, della precisione, dell’individuazione e della concretezza (Weinrich 1976, passim), ma è soltanto l’a priori delle istituzioni (dei luoghi) dentro le quali tale esecuzione avviene che ci dice che cosa dobbiamo poi farne di tale esecuzione determinata, in che senso dobbiamo poi usarla.

Spesso linguisti e semiologi hanno creduto e credono di parlare del linguaggio anche non occupandosi della pragmatica, tant’è che alcuni (Eco, per esempio, 1975, passim), introducendo anche questo evento nel loro orizzonte di analisi, non pensano affatto di occuparsi, e finalmente per la prima volta, del linguaggio, ma di avere semplicemente il merito di introdurre un ulteriore avanzamento in un campo di ricerca, non pensato fino a quel momento insensato, bensì già sensato e solo da perfezionare.

Ebbene, l’esempio del nostro alieno ci dice che così non è e ciò proprio grazie all’attenzione portata alla pragmatica dell’arte. Quanto succede all’alieno in teatro è chiaramente funzione del teatro e non della frase “mi dà un caffè?”, che rimane la stessa e nei contenuti e nell’ intonazione, ma allora perché non dovrebbe essere funzione del bar quanto ai segni succede al bar e in tutti i luoghi di comunicazione strettamente strumentale o pratica al bar assimilabili? Senza teatro (senza galleria ecc.) e senza bar non è che mancherebbe il livello pragmatico della lingua, mancherebbe proprio la lingua. Senza di essi non ci sarebbe semantica e quindi nemmeno “significanti”, se è vero che solo in rapporto a un qualche significato i significanti possono essere detti tali.

Non occuparsene, come linguisti e semiologi spesso hanno fatto, non vuole necessariamente dire (certo, concedo) non esserne al corrente, non saperlo, ma può volere dire ridurre tutta la pragmatica “comunicativa” a quella da bar e poi, data la sua invarianza, giudicare appunto superfluo occuparsene. Un po’ come succede in astronomia con il rumore di fondo del big bang. Ma, abbiamo visto, i luoghi dell’arte introducono un “rumore” diverso, una differenza di fondo. E allora anche le interrogazioni circa le modalità formanti dei luoghi, volendo occuparci seriamente della “comunicazione”, non possono proprio essere evitate. Quando telefono a mia moglie non mi sento in dovere di precisare ogni volta che la chiamo dalla terra. Non potendo essere in altro luogo non ce n’è proprio bisogno. Ma, potendo anche essere su un altro pianeta, credo che la precisazione non la troverei solo opportuna ma anche necessaria. Così per l’analisi della “comunicazione”, dopo aver guardato bene anche cosa succede nell’arte. Quanto succede nell’arte recupera in feedback i luoghi della cosiddetta comunicazione quotidiana, richiedendoci di problematizzarli: quale il loro codice formante? Quale quello, diverso, dei luoghi dell’arte?

Luoghi semiotici, allora, come principi scambiatori all’interno dell’auto-comunicazione: direzione polisemica, oggi, per l’arte in generale e direzione monosemica, per il bar e per ogni altro tipo di “comunicazione” che non sia quella artistica. Ma auto-comunicazione sempre, mai comunicazione, così come viene correntemente intesa.

Certo ci si può ribellare a questo potere dei luoghi, ma in un modo solo: togliendo gli oggetti che magari per errore vi sono finiti dentro, oppure specificandoli in qualche modo, con un qualche cartello o altro, diversamente. Non negandone il potere, ma solo costringendolo a esercitarsi a vuoto sul nulla. E’ successo: un po’ di anni fa, a Kassel, nella mostra Documenta, il gallerista di Stoccarda Hans Jurgen Mueller aveva allestito un padiglione nel prato antistante il Museo tra chioschi di wuerstel, di pizze al taglio, spiedini turchi e paelle, dedicato all’arte ecologica dal nome simbolico di Atlantis. Ignoti lo diedero alla fiamme la notte della vigilia dell’inaugurazione, ma i primi visitatori, passando davanti all’Atlantis ancora fumante, credettero che si trattasse di un’opera in esposizione, arrostita con stile. L’ecologo Hans Jurgen protestò in un lungo tazebao contro l’opera dei vandali, ma pochi se ne accorsero. Per chi non vide il cartello l’opera continuò, come volevasi dimostrare, ad essere arte.

Identità della critica

A volte il termine “critica” è usato come sinonimo di “estetica” o di “poetica” e allora vale per esso quanto fin qui detto per queste due pratiche. Se invece il termine è usato per indicare la pratica che “legge” direttamente l’opera d’arte al fine di produrne una qualche sua interpretazione e quindi come sinonimo di “fruizione”, allora esso indica una pratica che non ha identità autonoma. La sua identità sarà strettamente legata all’identità mobile dell’opera d’arte. In un’epoca in cui convenzione vuole che l’opera resti un fatto di auto-comunicazione monosemica, la critica non potrà che configurarsi come una corretta pratica di “decodifica” dell’opera stessa, di evocazione dei significati cui ha pensato il suo autore, quindi analitica e secondaria. Nel Medioevo, infatti, non esisteva la critica come noi la concepiamo oggi: era impensabile. Esisteva il commento all’opera e non c’era in essa quella creatività che oggi la connota legittimamente e che è sotto gli occhi di tutti. Ma questo cambiamento di identità è stato possibile per la critica, perché è l’opera che nella nostra cultura ha cambiato la sua identità. Oggi l’opera d’arte, pur nascendo come segno legato a una qualche poetica e quindi monosemica rispetto a questa stessa poetica, funziona poi alla coscienza collettiva, in grazia di una langue tutta sua - langue d’uso naturalmente - come se non lo fosse, annullando per essa ogni processo critico di “decodifica” e autorizzando la critica a praticarla secondo un processo di pertinentizzazione, insieme vincolata e plurale, che fa dell’opera stessa un semplice “oggetto materiale”, in senso prietiano naturalmente (Prieto 1975, passim) e quindi un’entità indecidibile (non importa se fisica o solo  mentale, se autografica o allografica per dirla con termini oggi abbastanza di moda), e della critica la pratica primaria e sintetica della sua poliversa significazione. Non ci sono significati già fatti nell’opera prima della relazione critica: i suoi significati nascono dentro e a causa di questo rapporto, compreso il rapporto che essa può intrattenere con l’interpretazione che ne può dare il suo autore. L’artista, interpretando la sua opera, attiva la funzione critica (in base al principio dei soggetti funzionali, di cui s’è detto, non è rigorosamente parlando nemmeno più un artista, ma un critico e come tale soggetto anch’esso alle regole della critica); interpretazione che sarà una delle tante possibili, né di più ne di meno valore di ogni altra.

Se mi si passa l’immagine, potrei paragonare l’opera d’arte, oggi, a un palcoscenico al buio e i paradigmi critici, i sistemi culturali messi in campo per interpretarla, a diversi “occhi di bue” (fasci di luce) capaci di vederne le diverse sue parti e i suoi diversi livelli di realtà, tra di loro spesso incommesurabili. Così, con saperi (paradigmi) logici si illuminerà ciò che nell’opera c’è di logico; con saperi linguistici ciò che in essa c’è di linguistico; con saperi semiotici ciò che c’è di semiotico; con saperi “aspettuali”, per dirla ancora con Genette, ciò che in essa c’è di aspettuale, (di estesico); con saperi politici ciò che c’è di politico, con saperi timici ciò che in essa c’è di timico (di emozionale) ecc. ecc., naturalmente senza che si perda il valore cognitivo di tutte queste chiavi di lettura, nemmeno di quelle più vicine alla sensibilità e all’affettività. Chi ormai può pensare ad una affettività sganciata dal sistema culturale in cui si esplica! Penso proprio nessuno che abbia un minimo di conoscenze antropologiche. Non si patisce né si ama, né si gioisce ecc. per natura, ma per cultura e se la cultura mette, per suo conto in forma la natura, il livello cognitivo è pervasivo e ovunque. Naturalmente se tutti questi livelli di realtà, nell’opera, ci sono (nessun occhio di bue può veder sul palcoscenico un attore che non c’è), con buona pace di tutti coloro che vedono in questo discorso il pericolo dell’anarchia, per la cui tranquillità mi sono preoccupato altrove di far vedere che non tutte le interpretazioni sono valide e di indicarne quindi i criteri intersoggettivi d’accettabilità (Nanni 1994, pp. 169-210).

I rapporti tra le intenzioni dei singoli sono sempre mediati da quelle collettive

Le intenzioni dei singoli individui e tra i singoli individui non sono mai libere di esplicarsi sic et simpliciter in pubblico né di condizionare gli altri direttamente. Se lo fanno, ciò accade sempre con il permesso di qualche modello di comportamento collettivo. Chi di noi, a volte nelle afose giornate estive, non amerebbe, per esempio, andare in giro completamente nudo? Ma, qui e ora - nella nostra attuale cultura -, non si può. Lo possiamo solo in un campo di nudisti, secondo regole, appunto, stabilite dalla collettività. Bene, questa verità così evidente, addirittura banale, è in genere, chissà perché, dimenticata quando si pensa e si parla della comunicazione. Chissà perché si deve pensare che, nella comunicazione, l’intenzione del singolo debba arrivare al destinatario direttamente, attraversando quanto vi sta in mezzo e cioè la coscienza collettiva senza subire insomma alcuna rifrazione. Intanto una prima rifrazione si dà sempre nella lingua scelta come mezzo. Non è che sia qui mia intenzione parlare solo a chi sa la lingua italiana, mia intenzione sarebbe subito parlare al mondo intero, ma non mi è concesso. Devo scegliere una lingua e la lingua italiana scelta, non solo fa si che gli altri recuperino, se lo recuperano, questo mio discorso secondo il modello collettivo “lingua italiana”, impedendomi di dire ciò che nella lingua italiana non è dicibile, ma anche secondo la forma collettiva “saggio”- voglio dire secondo il modello del discorso pratico - che ha regole del tutto diverse dal modello “racconto” o “poesia”, “arte” insomma. Se mi aspetto che i miei lettori si diano da fare per recuperare nella loro mente esattamente quanto è nella mia in questo momento in cui sto scrivendo, ciò non è dovuto a un dato di natura o a una potenza metafisica della mia mente di parlante, ma ancora a una legittimazione collettiva. E’ l’inscrizione del mio discorso nel modello del discorso pratico che vincola il ricevente a cercare quanto gli sto dicendo e me parlante ad aspettarmi legittimamente che ciò accada. Non altro. Basta considerare quanto accade in proposito nel modello “arte” per rendercene conto. Nell’arte, appunto, l’artista non risulta oggi più proprietario unico del significato della sua opera. La sua intenzione interpretante risulta essere una delle tante possibili, ho detto né di più né di meno valore di altre. Egli resta proprietario filologico della sua opera (nessuno può togliere una riga dalla sua poesia o, che so, tagliare un pezzo a un suo quadro o a un suo ready-made -  in una eventuale causa l’artista avrebbe la legge dalla sua), ma non né è più il proprietario epistemico (in una eventuale causa contro un critico che non la pensasse come lui - è già successo - avrebbe la peggio). Ma c’è di più: non solo non risulta proprietario del significato critico della sua opera, ma non risulta nemmeno proprietario della sua identità artistica. Il che non significa che la sua opera possa perdere in assoluto la sua identità d’arte. Rimarrà tale nel mondo di chi come tale la propone, diciamo allora nella sua poetica di riferimento, anche se non riesce ad essere vista come tale in poetiche diverse. Solo un’idea metafisica e a-storica dell’arte potrebbe sostenere il contrario, ma lo farebbe secondo una dogmatica che con la suddetta distinzione tra soggetto empirico e soggetto funzionale, vale a dire con la scienza, avrebbe ben poco a che fare. Lo farebbe ancora in base al gusto di una qualche parziale poetica indebitamente (ideologicamente) fatta assurgere a scienza.

Basso Pierluigi si chiede:

Nanni…come mai non si scontra con Kosuth quando [Kosuth] sostiene che suo obiettivo è comunicare al pubblico una proposizione teorica sull’arte, indipendentemente dal medium e dal materiale espressivo utilizzato, tanto che infine la telepatia… sarebbe la comunicazione prediletta per l’artista concettuale? Il caso Kosuth non dovrebbe portare a rivedere l’opposizione comunicazione ordinaria vs arte messa in campo da Nanni? (Basso 2002, pp. 136-137).

E subito dopo, sostituendosi a me, risponde:

L’estetologo italiano potrebbe sostenere che dal punto di vista proceduralista le proposizioni di Kosuth saranno opera d’arte se verranno inscritte o eseguite all’interno di una istituzione artistica (o in un bar apponendovi l’etichetta “arte”), mentre, che a lui [Lui: Kosuth naturalmente] piaccia o no, esse saranno vissute polisemicamente (Basso 2002, p. 137).

Ebbene sì. Se rispondessi io risponderei più o meno allo stesso modo, almeno sul piano dell’identità dell’opera di Kosuth a livello di poetica collettiva, non di quella sua privata, dove la sua opera continuerà ad avere l’identità che Kosuth desidera, a conferma di quanto fin qui detto tanto circa i rapporti tra le intenzioni dei singoli alla luce di quelle collettive che la distinzione tra soggetto empirico e soggetto funzionale, e senza che necessariamente ne debbano derivare le conseguenze che Basso ne trae e che i miei lettori possono andare direttamente a leggere sul suo libro, frutto più di lacune di letture o di oblio del letto che di sempre possibili (ci mancherebbe! Possibilissimi, visto ciò che penso della comunicazione) fraintendimenti. Fraintendimenti e mis-letture, anch’essi pur presenti nel libro di Basso, in forma - sospetto, purtroppo - non sempre colposa. Sento infatti in questo suo libro una certa aria di famiglia (i termini “battezzare” quale sinonimo di “performare”, “intentio culturae” ecc. sono prima miei che di altri) che in qualche modo mi onora, ma che, al contempo, acuisce naturalmente di molto l’acribia con cui lo prendo in considerazione, diciamo, come mio lettore (da un lettore che appare attento ci si aspetta molto di più che da altri!). Quanto infatti “all’impensato” circa questi problemi e quelli connessi della comunicazione in generale, che egli sospetta vorrei loro far capire (dico “loro”, giacché è Basso stesso che usa in tal senso il pronome plurale “ci” e penso che includa in tale pronome con se stesso anche tutti quelli che egli considera specialisti della semiotica e della comunicazione), devo dire che il suo autocoinvolgimento nel mio discorso denuncia, temo, una sua coda di paglia, giacché io rivolgo esplicitamente le mie considerazioni a chi non ne è consapevole - e sto alla prima sua lacuna di lettura che mi viene in mente -, non già a chi ne è già a conoscenza e se Basso ritiene di non essere di questa categoria perché si mette in mezzo e si meraviglia? Non vorrà impedirmi di dire a chi non le sa le cose che lui ritiene di sapere. Tanto più che se nel mondo circola ancora qualcuno che dette cose, così note, non le sa (e sono milioni, tant’è che io faccio, come anche qui s’è visto, riferimento alla definizione di comunicazione che circola nei nostri vocabolari più noti), ciò significa che nemmeno “loro” ( gli specialisti su indicati), che le sanno, sono riusciti a dirgliele e allora perché non dovrei farlo io? Mah! Basso mi ricorda certi professori, di cui diceva Italo Svevo, che sapevano esattamente tutto ciò che sapevano, senza minimamente sospettare la presenza di abissi sotto questa loro pellicola nozionale così apparentemente esaustiva. Penso che Basso sappia esattamente ciò che ritiene di sapere e, così in totale quiete di mente, proceda a “leggere” il diverso. Se così non fosse, egli si guarderebbe bene dal portare a barzelletta (2002, p. 171, nota 8) una tragedia. “E’ difficile accettare – egli poi conclude - una tale autocomunicazione”. Che replicare? Anche per mio nonno era difficile accettare la sfericità della terra (non capiva come gli uomini abitanti la parte opposta della terra non si sentissero a testa in giù), ma ciò non toglie che, sic stantibus rebus, sia vera. Decisamente non un buon inizio per un giovane studioso che immagino, visto il terreno in cui si muove, progetti il suo futuro dentro la scienza. La difesa a-critica di partiti presi se può far piacere agli amici e agli adepti della propria scuola, ha ben poco a che fare con la ricerca della verità. Tra le varie cause dell’eventuale auto-eliminazione dell’umanità dalla terra l’occultamento di questo meccanismo dell’auto-comunicazione potrebbe essere addirittura la prima. Altro che metterla in caricatura. Penso addirittura che sarà proprio questa teoria sbagliata della comunicazione a portare l’umanità alla sua autodistruzione. Ripeto. Altro che metterla in caricatura! Meglio sarebbe rendersene conto e, sulla scia di alcuni pensatori del passato, che su di essa non hanno affatto chiuso gli occhi, piuttosto in fretta, provando poi tutti insieme a correre ai ripari. Ma tant’è! Così continua ad andare il mondo su li suoi colli e, purtroppo temo, così sempre, fin che   durerà, andrà.

Nella storia dell’arte non esistono che ready-made

 In base a quanto fin qui asserito tutte le opere d’arte sono dei ready-made. Rigorosamente parlando artista non è colui che produce materialmente l’opera (artigiano), ma colui che, una volta che l’opera è stata prodotta, propone per essa l’uso artistico, attiva per essa la funzione specificatrice (la delega) d’artisticità. E’ quindi indifferente che l’opera sia trovata già fatta da altri, come è successo per lo scolabottiglie di Duchamp, o che la faccia l’artista stesso (colui che fuor di correttezza analitica chiamiamo artista), giacché in questa fase di produzione dell’opera l’artista non è artista, ma appunto artigiano. L’artista diventa artista soltanto nel momento in cui sul suo prodotto attiva la funzione specificatrice d’artisticità, la battezza insomma arte. Da questo punto di vista nell’arte cosiddetta concettuale viene a nudo una verità circa la costituzione dell’arte, che non è solo dell’arte concettuale, ma nascostamente di tutta l’arte di tutti i tempi. Non si dimentichi: non sono mai in gioco corpi (soggetti empirici o “invarianti extrafunzionali” come  in cert’area francese oggi correntemente si dice), ma sempre funzioni, appunto, (soggetti funzionali) e i termini (il linguaggio) ha a che fare sempre con queste (questi) e mai con i primi. E ciò vale naturalmente per tutte le arti, letteratura e musica comprese.

Corpo dell’opera e sua identità artistica non fanno proprio - e mi si perdoni il gioco di parole - corpo. Hanno identità analitica diversa. Un’opera può come corpo attraversare i confini e abitare  culture diverse, ma non è detto che in questi passaggi si trascini obbligatoriamente dietro anche la sua eventuale identità artistica di partenza. Considerata arte nella cultura A può non rimanerlo affatto nella cultura B o C e così via… la storia offre a ciò conferme a iosa. E, se questo è vero come è vero, la scienza deve trarne tutte le conseguenze. La più importante delle quali mi pare proprio quella di dover considerare tutte le opere d’arte dei ready-made. Opera e artisticità vanno pensate analiticamente separate. L’artisticità può abitare o abbandonare l’opera a piacere (a piacere di qualche poetica, di qualche cultura, singola o collettiva che sia, si capisce). Solo un etnocentrismo ciecamente ottuso e dogmaticamente ideologico potrebbe sostenere il contrario, ma da tempo simili etnocentrismi sono stati espulsi dal ventre di una scienza che voglia dirsi corretta. 

Bibliografia di riferimento

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[1]de Saussure F. (1962, p.9). Il “disinteresse” a cui Saussure lega indissolubilmente lo sguardo della scienza è forse qualcosa di diverso dall'occhio esterno? Dall'occhio analitico? Direi proprio di no. Si pensi: dis-interesse (separazione dall'interesse). E, per altro, interesse = inter-esse (essere dentro). E allora disinteresse = a separazione dall'essere dentro, a  non essere dentro e ciò che vuole dire se non essere fuori?

[2] Si rammenti il principio dell’artisticità di Jakobson: “ Il principio d’equivalenza spostato dall’asse della selezione all’asse della combinazione”. Bene. Sottoponiamolo, per esempio, alla prova del pensiero operativo di Bridgman (Bridgman 1927, passim). Non è un modo indegno di controllo: il significato di un termine è dato dall’insieme delle operazioni che implica. Il significato del termine “fuoco” è dato da tutte le operazioni che possiamo fare con il fuoco. Ebbene. Prendete la teoria di Jakobson  e provatevi a produrre con essa testi letterari: usciranno soltanto poesie alla Mallarmé o alla Hopkins. Non Leopardi. Non Dante. Forse un po’ di Baudelaire e un po’ di Marinetti, ma siamo sempre lì: appunto tra simbolismo e futurismo. Questo è il suo legittimo orizzonte esplicativo, non la poesia (l’arte) in generale come, invece, si pretenderebbe.

 [3]Ibidem, pp. 209-210. Non è che Danto non veda quella che, a mio parere, sarebbe la risposta giusta e cioè: il tavolo in questione, se “normalmente utilizzato” - sono parole di Danto - è oggetto d'uso, se utilizzato invece come arte (e quindi secondo il modello culturale che una data epoca ha del funzionamento di qualcosa come arte) è arte. La vede, la dice appunto anche, ma come lapsus. Saussure afferma che spesso è più facile vedere la verità che metterla al posto giusto. Ecco, anche a Danto mi pare che accada proprio questo: ha in mano, a mio parere, la giusta soluzione, ma non se ne accorge e non ne trae fino in fondo tutte le conseguenze che bisognerebbe trarne per dare a questa verità tutto il suo dovuto spessore.

[4] Materiali o mentali (psichiche) che siano.

[5] Sono solito distinguere un Mukarovský buono, per altro prevalente nella totalità del suo pensiero, culturologo attento che s'accorge benissimo che l'identità delle cose non è funzione obbligata della struttura delle cose stesse, ma dei modelli culturali che, secondo i propri bisogni, le producono o le risignificano, da un Mukarovský “cattivo” che poi, messo alle strette, non riesce a liberarsi di Jakobson e del suo realismo estetico dogmatico e ingenuo.

[6] Se il sellaio fa bene la sella sarà perché egli ospita al suo interno, nella propria mente, il sapere del cavaliere. Non per altro. Chi la usa (il cavaliere), dice Platone, ne ha vera scienza; chi la costruisce (il sellaio) ne ha invece “credenza”, crede cioè a quanto gli dice il cavaliere. Un cavaliere (un utente) consapevole, si capisce.

[7] “Cosa” è uno dei termini di cui il nostro linguaggio si serve (un altro è, per esempio, “aggeggio”) per indicare ciò che ancora non ha nome o per toglierglielo se già ce l'ha, magari in attesa di dargliene un altro. Famoso ultimamente il caso del pci divenuto, prima di essere rinominato con pds, appunto la “cosa”.

 

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