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Intervista a Giuliano Montaldo

di Antonio Vincenzo Boscarino

(Fatta in occasione del festival del cinema di Valdarno 23/04/98)

Giuliano MontaldoCome è nata l'idea di fare questo film Le Stagioni dell'Aquila?

Mi trovavo a Cinecittà dove stavo lavorando a un'altra impresa, e quando ho incontrato gli amici dell'Istituto Luce che mi hanno offerto questo lavoro, e io ho detto si con molta incoscienza perché era la prima volta che andavo a lavorare con del materiale di repertorio girato in precedenza da altri. Io ho sempre lavorato con immagini e scene essenzialmente girate da me e dalla mia troupe e quindi con sceneggiature e intenzioni molto mirate. In questo caso specifico sono venuto a trovarmi innanzi a tredici milioni di metri di pellicola, che è un archivio straordinario dal quale materiale mi sono lasciato prendere totalmente, e con il quale ho impiegato molto tempo per selezionare e scegliere le cose migliori e che più si adattassero alle intenzioni dalle quali dipendere. E' vero quando si dice che la fine di questo secolo, ma penso anche il prossimo, sia il secolo delle immagini. Proprio per capire in profondità usi, tipi, costumi, metodi e sistemi di lavoro, la mentalità, i comportamenti, la moda, in questo caso non c'è niente di meglio che le immagini. E' vero anche che spesso l'immagine è bugiarda, quando poi la si rielabora la si può fare diventare altra cosa. E' innegabile però che rappresenta anche una radiografia del suo tempo, rimanendo indelebile, che non può essere travasata in nessun modo. Purtroppo bisogna prendere atto che è finito ed è morto il tempo di quello che era la parola scritta e dell'epistolario. Oggi il fax non penso abbia questo tipo di caratteristica a cui ci si possa abbandonare. Le parole volano nell'etere coi telefonini, sincere o insincere, ma non rimane nulla. L'immagine ha un'importanza determinante nel secolo in cui stiamo vivendo e me ne sono accorto proprio alla proiezione di questo film che si è fatta nelle scuole, dove ha suscitato numerose domande. Il desiderio di saperne di più significa che bisogna lavorare maggiormente e su questa direzione, per dargli maggiori strumenti, per colmare queste lacune con le immagini così come erano, lasciando a loro la libera interpretazione di quanto passa sotto i loro occhi. Una cosa che mi ha colpito molto è stata la reazione dei ragazzi di quattordici o quindici anni, che rimanevano sconvolti nel vedere che nel film i protagonisti, loro coetanei di allora, si esercitavano a fare la guerra. E dalle loro facce mi è parso di capire una espressione di sollievo che tutto questo non sia capitato anche a loro. Ecco questo tipo di conoscenza e di apprendimento sono più forti di qualsiasi noiosa lezione di storia. Noiosa perché fatalmente le parole da sole, senza supporto visivo, finiscono per annoiare i ragazzi, non noi perché ovviamente siamo più attenti. In questo film ho cercato di farmi carico del modello di intrattenimento odierno fatto di pochi fronzoli e più diretto, per evitare la sindrome venuta dalla televisione di cambiare canale. Così ho realizzato un montaggio poco pedante e veloce, passando a setaccio cinquant'anni di storia, fermandomi solo sui documenti più importanti, augurandomi che la loro crescita, dei ragazzi, li faccia maturare verso cose e forme più poetiche.

Si può dire che il suo film in qualche modo ci conduce in una realtà che ha un certo effetto sullo sguardo degli spettatori, sebbene si tratti di una realtà sicuramente lontana da quella che oggi viviamo.

In questo film i ragazzi osservano con stupore che i famosi campi di grano non sono soltanto una trovata della Barilla per vendere il prodotto, bensì una realtà che nel 1940 vedeva come protagoniste le famose "piazze del popolo", come ad esempio piazza della Scala di Milano o piazza del popolo di Roma e altre piazze d'Italia coltivate col grano per dare l'esempio di concretezza e di aiuto alla Patria. Naturalmente io penso che fossero solamente atti demagogici e propagandistici, ma quello che colpisce veramente è l'immagini dell'oro dato alla patria, o il ferro. La cosa più inquietante è stato vedere con quale fede la gente consegnava queste cose e con quale partecipazione la popolazione aderiva a queste iniziative. Bisogna però inoltre dire che in questo contesto era veramente coraggioso chi si opponeva al regime, manifestando il proprio dissenso, soprattutto nelle votazioni del 1934, dove era facile essere subito individuato perché chi votava sì aveva la scheda tricolore e a chi votava no veniva consegnata una scheda bianca.

Ebbene, bisogna riconoscere che quelle quindicimila persone che votarono non ebbero un grande coraggio, perché ormai l'Italia si stava clamorosamente dipingendo di nero, alimentata anche da alcune guerre facili come la guerra d'Etiopia o la partecipazione da parte dell'Italia alla guerra di Spagna. Mentre dall'altro lato Mussolini che sembrava l'uomo della pace, con il trattato di Monaco in realtà si trasformò facendo svanire questo sogno con una serie di catastrofi che noi conosciamo bene, ma che i giovani di adesso non conoscono affatto.

All'inizio della sua carriera lei esordì come attore, poi lentamente nel corso degli anni si portò dietro alla cinepresa, ecco io volevo chiedere come accadde e cosa in realtà cambiava passando alla direzione di un film?

 Avevo diciannove anni quando Carlo Lizzani a Genova vedendomi recitare su un palcoscenico mi chiese di fare la parte di un commissario partigiano di circa venticinque anni. Io dimostrando più o meno quell'età aderii con lo slancio di chi ha quell'età. Poi stupito dal fatto che facendo quel gioco venissi anche pagato finì col prendermi del tutto. Soprattutto quando capii che in realtà non era affatto un gioco ma un grande mestiere e che mi sembrava che il grande meraviglioso interprete della favola della pellicola e dell'impresa in realtà era il regista. Questa spezzatura, questo avere tutto nella testa, questa gestione così possente dell'insieme era per me affascinante. Poi ancora con Lizzani feci un altro film, ma oltre a fare l'attore chiesi se fosse possibile fare anche l'aiuto della regia. Così, vicino a Lizzani, cominciai ad apprendere. Poi venuto a Roma ebbi la fortuna di conoscere Pontecorvo, quindi divenni suo aiuto. Poi conobbi Petri e divenni suo aiuto, poi feci l'aiuto regista anche a Maselli. Quindi ho avuto la possibilità di lavorare con personaggi che io ancora oggi ringrazio, soprattutto Pontecorvo, che oltre ad avermi dato la fiducia di avermi preso come aiuto regista, poco tempo dopo mi diede la responsabilità della direzione della seconda troupe nel film "La battaglia di Algeri". Ho appreso il mestiere da persone che erano molto rigorose, molto serie, un cinema che ancora non conosceva le scampagnate della sera con gli addetti ai lavori. Quindi grande serietà grande rigore e poi situazioni che ci vedevano impegnati in condizioni molto disagiate, pochi soldi, pochi attrezzi; non posso dimenticare un campo di concentramento dove andammo a girare, in cui si creò una grande atmosfera di verità che con la pioggia e il gelo che c'era sembrava che fossimo diventati noi i prigionieri. Forse era l'atmosfera che ci faceva lavorare con grande impegno.

Per lei cosa significa pensare ad una nuova realizzazione.

Significa sognare com'è il mio mestiere, che in fondo altro non è che un continuo sogno. Un continuo gioco nei confronti tra l'immagine e la costruzione dell'immaginario: una visionarietà del mestiere. Io le cose che racconto le racconto vedendole e quindi mi sono reso conto da molti anni che non riesco a raccontare se non vedo, voglio dire che è proprio un modo e un taglio diverso dallo scrivere legato proprio alla visualizzazione. Bisogna trovare sempre un punto di vista e un certo modo particolare di raccontare con le immagini. Nel corso degli anni mi sono reso conto che le cose che in genere racconto vengono precedute da una costruzione e una visione di esse, prima che vengano realizzate. Un modo di raccontare diverso dallo scrivere, dove tutto passa attraverso un processo che vede impegnata la visione di una cosa e la realizzazione della visione, con un taglio e uno stile solamente proprio, unico e personale. Si può dire che è un metodo che appartiene molto a chi è abituato a mettere l'occhio dietro la macchina da presa con la quale nel tempo si crea una sorta di simbiosi, sostituendosi al tuo occhio. Oggi molte cose sono cambiate però ho sempre cercato di stare attento a tutto questo, non a caso insieme a Storaro siamo stati i primi al mondo ad avere fatto un esperimento in alta definizione. Stare dietro alle nuove tecnologie significa impazzire ma significa anche avere la possibilità di conoscere nuovi linguaggi. Proprio per questo motivo dicevo che il montaggio di questo film (Le stagioni dell'aquila) non ha nulla a che fare con il montaggio dei miei film precedenti, perché in questo caso il film è molto mirato a catturare gli interessi dei giovani e al di là dei contenuti vi è una formula che nasce proprio dalla dinamica del montaggio.

Lei nel corso degli anni ha anche diretto alcune Opere in Teatro. Quali le differenze e quali le relazioni o integrazioni possibili.

L'Opera lirica si è accorta dell'importanza dei registi grazie a un regista di cinema e di teatro come Visconti. Quando Visconti ha cominciato a occuparsi delle regie liriche il mondo della lirica si è accorto dell'arrivo di un personaggio che aveva un rapporto forte con l'impostazione della recitazione, il movimento del coro, delle comparse o dei mimi, le scene, le luci; il teatro ha avuto una sorta di evoluzione proprio come il cinema, così il teatro ha avuto il sonoro, le scene mobili, oggi addirittura l'elettronica. In questo modo il regista ha assunto un peso maggiore all'interno dell'Opera, però il discorso è completamente diverso, perché mentre il regista di un film ha a che fare con una storia in qualche modo modificabile e ripetibile nella sua fattura, sino a raggiungere l'effetto voluto, o addirittura si può arrivare al taglio di alcune scene, nel teatro tutto questo non è possibile. Quando lei si trova di fronte a Verdi, Puccini, Mozart si trova davanti a opere uniche che hanno tempi e scansioni precisi, difficilmente modificabili. Certo si possono interpretare con piccole variazioni ma nello stesso tempo si hanno dei confini precisi dai quali non si può certo uscire. Ci sono poi i cantanti, il coro, l'orchestra che hanno esigenze precise dalle quali non si può sconfinare. Nel film possono valere varie considerazioni: è montato troppo lento o troppo veloce. Di un'Opera, invece, che non rispetta determinate regole si può dire proprio che l'apporto è stato poco intelligente e completamente negativo. La funzione del regista in teatro deve essere costruttiva, innanzitutto deve conoscere e amare quello che ha davanti, in questo caso il melodramma in genere, farsi incantare dal meccanismo e rispettare certe regole che secondo me sono fondamentali. Uno non può cantare una romanza di spalle anche se piace tanto al regista.

Cosa cambia quando ci si pone davanti a un prodotto seriale come lo è stato Marco Polo per la televisione? Ci sono compromessi di tipo estetico o semplicemente è un altro modello con altre regole?

Le dico la verità, per fare Marco Polo ho chiamato accanto a me un operatore del valore come Pasqualino De Santis, premio Oscar e grande operatore, Enrico Sabattini che ha preso diversi riconoscimenti internazionali per i costumi e che già prima con me aveva fatto Giordano Bruno e anche i costumi di Sacco e Vanzetti; ho chiamato anche Ricceri, che ha fatto tutti i film di Scola e anche altri film importantissimi; abbiamo girato con pellicola 35mm della Kodak, abbiamo stampato con la Tecnicolor e non mi sono preoccupato minimamente del fatto che stavamo facendo una cosa per la televisione. Io mi sono preoccupato solamente che il racconto funzionasse comunque. Non ho mai pensato che facendo un film per la televisione dovevamo fare qualcosa di diverso solo con primi piani, o dovevo utilizzare un altro tipo di linguaggio. Io condivido l'idea che alcuni prodotti per la televisione abbiano un linguaggio prettamente filmico in genere. Io ho cercato, avendo un'idea precisa di quello che volevo raggiungere, di portare il pubblico ad avere gli stessi stupori che aveva il giovane Marco Polo quando vedeva per la prima volta quei luoghi. Cioè cercare di riproporre le stesse suggestioni, quindi gli stessi deserti, gli stessi silenzi, i pozzi di petrolio incendiati, che non si sapeva certo fosse petrolio, le pianure o le montagne, il passaggio terribile tra i ghiacci con grande stupore di quello che era poi lo "stupore" continuo della corte cinese, degli usi e costumi così diversi. Ho cercato quindi di immaginare le suggestioni che egli abbia potuto avere e di riproporle come a noi ci sono arrivavate e come lui le ha descritte. In fondo Marco Polo non è stato altro che un grande Reporter, come lo è stato Senofonte quando racconta l'Anabasi.

L'esperimento fatto con Vittorio Storaro del 1984 quando riprende l'Arlecchino a Venezia in alta definizione per lei è stato un momento di riflessione e di ricerca verso una propria chiave linguistica espressiva o una semplice alternativa alla pellicola?

Essendo molto amico di Storaro, con il quale ho lavorato anche alla realizzazione del film Giordano Bruno, che è forse uno dei più grandi attenti ricercatori delle nuove tecnologie è venuto naturale il coinvolgimento in questo tipo di esperienza. Siamo stati più volte insieme a vedere nuovi tipi di sperimentazioni in Europa ma anche in America, scoprendo che c'è la possibilità di andare oltre. Non la nuova tecnologia intesa come giochino elettronico, ma intesa come fa spesso Spielberg per esprimere anche un momento magico, un'emozione. Io dico sempre che, se i produttori italiani avessero avuto per le mani il film ET, faccio un esempio, quando arriva il momento in cui c'è un grande sole e i ragazzi con la bicicletta volano verso questa grande palla, si sarebbe detto di non farla perché troppo complicata, rinunciando così a qualcosa di veramente magico. Mi è capitato di vedere applaudire questa scena tanto è meravigliosa. Allora quella è un'emozione, non è un giochino, e in questo sta la sua bravura, e Spilberg sa coglierla. Quindi non un giochino pubblicitario, che va benissimo per l'amor di Dio quando è necessario e quando ha un messaggio da consegnare. Quando questi giochi elettronici sono al servizio della fantasia e quindi della poetica, non conoscerle è un handicap. Si può dire che sono difficili da praticare per il costo, ma ignorarle sarebbe meschino. Sarebbe come se io volessi continuare a scrivere con la penna d'oca quando si può scrivere ormai con la penna a sfera. Naturalmente questo deve accadere quando scrivere con la penna d'oca non diventa una scelta stilistica e in quel caso è tutta un'altra cosa. La tecnologia ha fatto notevoli passi avanti e se questa ci aiuta a poterci esprimere meglio, a poter realizzare cose che prima non si potevano neanche immaginare, allora ben vengano a darci una mano. Tanto più che oggi si sogna poco. Forse la causa sta in quello che accade intorno a noi, queste tecnologie spesso servono a realizzare gli incubi che la società ci induce a sognare. Perciò, quando capita di vedere la realizzazione di un bel sogno ben venga, io sono sempre pronto a sognare e a cogliere questo momento magico.

A che cosa sta lavorando ?

Sto preparando due opere all'Arena di Verona Il ballo il maschera e la Tosca che sono due cose abbastanza impegnative.

Va bene la ringrazio, la lascio al suo lavoro.

 

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