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 IL GRANDE FREDDO

Le crio-grafie di Nanni Menetti alla Galleria L'Ariete di Bologna

di Roberto Mori

Le sue ultime opere si chiamano crio-grafie. Oltre che dalla mano, sono lavorate dal freddo (dal greco crio, appunto) che nei mesi invernali attanaglia l'Appennino emiliano. Lui si chiama  Nanni Menetti, di professione pittore, poeta e, a nome Luciano Nanni, docente di estetica all'Università di Bologna.

Nessuna schizofrenia in questo sdoppiamento: inutile pensare a Doctor Jekyll and Mister Hyde. Meglio rievocare la figura di Giano bifronte. Con una faccia votata alla cultura e all'insegnamento, e l'altra, libera da dogmi e schematismi cattedratici, deputata alla creatività. Due personalità complementari che fluiscono in stimolante osmosi. E tuttavia la cultura del professore non condiziona l'artista, non si deposita nella sua produzione come ingombrante sedimento. Se l'intellettuale non si sottrae ai punti fermi della contemporaneità (tecnologia, computer, funzionalità della comunicazione scritta, parlata, iconica), il pittore - come osserva Renato Barilli - tende a "recuperare alla scrittura materialità, sensibilità, sensorialità e, dunque, piacevolezza".

L'elemento di congiunzione dei due Nanni, la chiave di volta per comprenderne i differenti linguaggi, è la parola. Le Microviolenze, realizzate a partire dal 1992, sono tracce  lasciate sui materiali dal tempo e dalla mano dell'artista-scrittore. Carte assorbenti, veline e carte carbone dalle quali i vocaboli emergono in un confuso affollarsi di lettere, a simboleggiare incomprensioni e soprusi, più o meno involontari, insiti nella comunicazione. Menetti attinge dalla scrittura articolata del mito, dal pensiero filosofico. Nelle crio-grafie, fa entrare in gioco anche il vissuto autobiografico.

L'ultimo ciclo, esposto di recente presso L'Ariete Arte Contemporanea di Bologna con il titolo "Nei giorni della merla: anatomia di una leggenda" - a cura di Leonardo Conti - nasce dal ricordo degli arabeschi cristallini articolati da ghiaccio e vapore sui vetri della casa natale. Un casolare a Bicorgnola di Monzuno, borgata montana dove Menetti ritorna ogni anno per realizzate le grafie tracciate con il gelo, anzi dal gelo. Lascia che il freddo lavori sulle tempere e sulle colle. Quasi lo obbliga a rifare i ghirigori effimeri che lo avevano incantato negli inverni dell'infanzia.

Non si tratta, dunque, di dipinti d'occasione realizzati en plein air. Sono pagine di un diario intimo che fissano un'interpretazione poetica della natura. L'artista sottrae l'immagine agli effettismi di ascendenza impressionistica, per irretirla nella severità di una costruzione essenziale, riconoscendo al freddo un  vero e proprio potere progettuale e architettonico.

In questo modo, si dilata il concetto duchampiano di ready-made: non più oggetto d'uso comune, ma manifestazione della natura attraverso il gelo. Un ready-made  trovato, modificato, ma soprattutto "provocato". E questa volta non su materiali residuali come carta assorbente o carta carbone, ma su tavolette di faesite.

Il colore vi si adagia come parola orfica. Il lavoro di codifica delle tinte dell'inverno (il bianco della neve, il nero del fumo che salva i merli dal gelo o il giallo-arancio dei loro becchi) è compiuto quasi con senso misterico. "Il colore è come il canto di Orfeo" (Conti), la voce che placa Caronte e Cerbero, la luce che vince temporaneamente l'oscurità.

Le esplosioni cromatiche contengono un ritmo, una precisa struttura. Eppure Menetti non sorprende con acrobazie e intellettualismi: il virtuosismo non prevale mai sull'ispirazione. Se il reale è il punto d'avvio, l'esito si attua sul piano dell'invenzione lirica. Le immagini sono vissute con limpida e sincera coscienza artistica: ricordi d'infanzia nati da una ricerca del tempo perduto, capaci di cogliere e rendere all'occhio umori sommersi, di suggerire metafore inaspettate.

Sembra quasi di intuire l'aspirazione a immergersi nel grande corpo della natura, il tentativo di recuperare la primigenia armonia fra sensibilità e ragione, fra mente e corpo, per una riconciliazione con se stessi e il mondo. Un messaggio di fiducia e speranza che giunge da una natura sentita ancora come l'immensa madre Demetra. In grado di alleviare sofferenze e sanare lacerazioni, dando senso al gesto pittorico. E all'esistenza.

Dalla Rivista "Arte in", aprile-maggio 2003

 

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