events
themes
call for papers
ideology busters
links
staff

Home

La morte nella condizione connettiva
di Riccardi Notte

Homo liber de nulla re animus quam de morte cogitat et eius sapientia non mortis, sed vitae meditatio est.

Baruch Spinoza, Ethica, IV, LXVII.

La tomba non è altro che il primo monumento umano eretto intorno alla vittima espiatoria, la culla primigenia delle significazioni, quella più elementare e fondamentale. Non c'è cultura senza tomba, non c'è tomba senza cultura; la tomba è al limite il primo e l'unico simbolo culturale.

René Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, p. 109.

Requiescant in pace

                  L'elisione del senso della morte

L'oggetto di queste righe appartiene in realtà al grande capitolo della velocità, o meglio, dell'accelerazione in corso da secoli. La velocità, come si sa, uccide il rito. A tutti è capitato di essere stati superati sull'autostrada dai moderni carri funebri, con le loro smaglianti cromature, pieni o privi del loro macabro carico. Ecco alcune domande canoniche e insolubili che in simili circostanze sono passate nella testa di chiunque: ma la bara sarà piena o vuota? C'è dentro un morto fresco di giornata o già stantio? Morte violenta o pacifica? Sarà stato giovane o vecchio? Uomo o donna? Dove lo portano così di fretta?. Una volta i ceri, le luci ecc. fornivano alcune risposte. Esisteva una precisa simbologia e c'era il tempo per decodificarla.

Di fronte allo spettacolo della bara-sprint è difficile non avvertire un senso di disagio, come quando si percepisce che qualcosa è fuori posto, fuori dal suo contesto. Perché? Ma è ovvio che le affusolate vetture capaci di raggiungere i duecento chilometri orari rendono ridicola e non credibile, anzi, comicamente paradossale l'immobilità della salma.

Su questa strana metamorfosi si soffermò tra gli altri anche il grande storico e tanatologo Philippe Ariès:

Una maniera del tutto nuova di morire è comparsa nel corso del secolo XX in alcune fra le regioni più industrializzate, più urbanizzate, più tecnicamente avanzate del mondo occidentale - e senza dubbi siamo ancora agli inizi.

Due tratti saltano agli occhi del meno attento degli osservatori: la sua novità, certo, il suo contrasto con ciò che era prima, di cui costituisce l'immagine rovesciata, il negativo: la società ha espulso la morte, eccetto quella degli uomini di Stato. Niente più nella città avverte che qualcosa è accaduto: il vecchio carro funebre nero e argento è diventato una banale automobile grigia che si perde nel flusso della circolazione.

La società non segna nessuna pausa: la scomparsa di un individuo non intacca più la sua continuità. In città tutto si svolge come se nessuno più morisse. [i][1]

Il secondo tratto, già analizzato da Geoffrey Gorer in Death, Grief and Mourning in Contemporary Britain [ii][2] è la quasi assoluta rimozione del lutto. Ricordare la morte è uno dei più radicali e radicati tabù della contemporaneità, come può constatare chiunque. Basta riflettere sulla propria esperienza o su quella di conoscenti e amici per giungere alla conclusione che quel particolare tipo di rimemorazione, definito da Freud Trauerarbait, "elaborazione del lutto", o,   letteralmente, "lavoro di lutto", non ha più diritto di esistenza. Sui motivi sociologici che hanno decretato l'estinzione del lutto Ariès avanza un'ipotesi assai feconda:

In effetti il passaggio dalla calma tiritera della vita di tutti i giorni all'interiorità patetica non avviene spontaneamente e senza aiuto. La distanza dei linguaggi è troppo grande. Per stabilire la comunicazione occorre la mediazione di un codice ricevuto in precedenza, di un rituale che si apprende con l'uso fin dall'infanzia. Così, una volta, c'erano codici per tutte le occasioni in cui si dovevano manifestare agli altri dei sentimenti in genere inespressi, per far la corte, per mettere al mondo, per morire, per consolare la gente in lutto. Questi codici non esistono più. Sono spariti alla fine dell'Ottocento e nel corso del Nove. Allora i sentimenti che vogliono esprimersi uscendo dall'usuale o non ne trovano il mezzo e sono repressi, o irrompono con violenza insopportabile senza più nulla che possa incanalarli. Nel secondo caso compromettono l'ordine e la sicurezza necessarie alla attività quotidiana. Conviene dunque reprimerli. [iii][3]

Dunque, l'assenza di codici comportamentali condivisi e stratificati si innerva su un tessuto sociale così compatto e omogeneo da somigliare al continuum matematico che costituisce l'invisibile ossatura di una superficie geometrica: cioè a una trama così fitta da non ammettere né salti né fratture. La discontinuità della morte è scandalosa perché sottolinea il vuoto di un'esistenza dalla quale ogni genere di sentimento deve essere sradicato con opportuni mezzi. Vi è perciò una piena, totale coerenza fra un modello di società fortemente compressa (e in un limite ideale, utopico, cronico, totalmente  coesa) e la progressiva estinzione delle passioni umane perpetrata attraverso la sistematica rimozione delle forme simboliche che incarnano le più elementari e basilari tappe dell'esistenza, dalla nascita alla morte. In una parola si realizzano nei fatti le premesse dell'utopia di una società contratta (contractus, ovvero "contratto", "raccolto", ma anche "economo", "breve", "gretto": da contraho, "restringere", "contrarre", "riunire insieme", ma a sua volta da cum trahere, "trascinare con", "accogliere insieme a", "restringere con", in una parola le intenzioni che si celano nell'accettazione o nell'assoggettamento a un vincolo giuridico); una società che deve anche essere al massimo grado senza differenze, senza distinte qualità, senza veri salti; dunque una società contratta e compatta (compactus, da compingo-ere, connettere, collegare, unire, a sua volta da cum pango, cioè "pattuisco con, stringo con.).

Ma come è avvenuto questo trapasso? E qual è lo stato attuale di una siffatta, inarrestabile trasmutazione di tutti i valori?

L'atomizzazione del tessuto sociale in corso da oltre un secolo e mezzo ha certamente un suo ruolo. Ma l'atomizzazione, presa in sé, non spiega il diffuso mutamento dell'intima percezione della morte quale misura universale della coscienza umana. A questo genere di indagine si può giungere da un'impostazione economica, antropologica, sociologica, religiosa, simbolica; ma nessun punto di vista preso in sé consente di osservare la fonte delle trasmutazioni. Consideriamo ad esempio la forma simbolica e poniamola in diretta relazione con i valori economici.     

La varietà dei riti funebri conosciuti è tale da scoraggiarne anche la minima disamina. Eppure, quasi ovunque, per quanto possa essere vivace o perfino colorato e chiassoso, il funerale è un evento che richiede un certo quantitativo di tempo e una certa prossimità con il morto.

Nel meridione d'Italia, per esempio, la bara era fino a non molto tempo fa letteralmente portata a spalla dai parenti stretti e questa usanza sopravvive oggi, in forma traslata, solo in alcuni funerali emblematici, per esempio i funerali delle vittime di un di grave fatto di cronaca, laddove la rappresentazione (in realtà destinata alla televisione) conserva un suo alto valore metonimico. In ogni caso il trasporto a spalla sottolineava la prossimità fra i vivi e il morto, ma aveva anche il compito di rallentare l'accompagnamento, dal momento che in quella postura è impossibile procedere speditamente. Forse, questa usanza è un modo per rendere onore al morto, sopportandone il peso; ma vi è anche una funzione suppletiva: il prestare le gambe a chi non può più camminare. Però, la lentezza assume un valore simbolico nel momento in cui sottolinea che la vita è inscindibile dal fardello della morte, evenienza che attende ciascuno con pazienza, con passo lento, senza fretta. Ma i veri attori della rappresentazione della morte sono i vivi. Solo a questi è destinato il messaggio. 

In molte grandi città, com'è noto, esistono ormai precisi regolamenti comunali che vietano il rito dell'accompagnamento. La motivazione è apparentemente banale: è necessario impedire ogni intralcio al traffico. Automobili, tram e pedoni devono scorrere velocemente, speditamente, senza intralci.  In una società come la nostra, che misura tutto o quasi sul metro dell'efficienza, quindi sui principi economici, non è lecito inceppare il meccanismo di scambio. Beni, persone, servizi o informazioni sono tutti equiparabili, e tutti devono   incontrare il minor numero possibile di inciampi. Esiste una fondamentale, intima affinità fra la struttura delle megalopoli del ricco occidente e le autostrade informatiche: entrambi sono immensi organismi congestionati, febbrili e insonni. Ed entrambi sono paesaggi ipnotici, poiché mai i sensi e la mente vi si possono soffermare se non per un tempo limitato. Pena la perdita della coscienza.

La macchina urbana simula bene la macchina virtuale e globale del metaverso, anche perché in essa nulla può permettersi il passo lento ma tutto deve essere costantemente accelerato. Accelerazione è l'equivalente dinamico dell'utile; l'accelerazione rimette in gioco gli effetti a loro volta accelerati dovuti all'ormai prodigiosa caduta del saggio di profitto. Ma in questo vortice di merci, di bit, e soprattutto di moneta virtuale in movimento, anche la morte diventa parte del flusso. Le molteplici e complesse esperienze antropologiche, spirituali, filosofiche e rituali della morte non possono e non devono albergare nella metropoli, e così neanche nel Web, se non a patto che tutto sia ridotto al denominatore comune del rapido flusso dei bit. Il mutamento regna sovrano, poiché in questo non-spazio la velocità si approssima all'istantaneità.

Alla caduta dell'istante segue una caduta della memoria collettiva. Non soltanto non si ricordano i propri morti, ma non si ricordano più, se non con grande sforzo, i personaggi rilevanti che passarono a miglior vita. Come si sa, esistono dei prontuari, delle cronologie, che ricordano ai giornalisti chi morì dieci, venti, cinquant'anni fa. Ma se un personaggio è morto da un paio di anni, allora rischia di non essere ricordato. Rischia di non esistere. Niente nel nostro tempo è più tragico della visione di questa forma di corta memoria, e niente è più patetico degli appelli disperati che talvolta compaiono sui giornali, quando ci si accorge in ritardo della mancata commemorazione di questo o di quel grande scrittore, poeta, pittore, regista o scienziato. Così il sintomo viene scambiato per la conseguenza, e la motivazione viene proposta come una domanda.

Un siffatto oblio della morte contrasta non poco con la raggiunta conquista di una durata della vita che cresce sensibilmente ad ogni lustro. Una vita media che, paragonata alle condizioni del terzo mondo o di un passato anche prossimo, si  consuma in una sorta di limbo, in una assenza di forti tensioni. Sazietà dello stomaco, vita lunga e senza scosse e una rutilante abbondanza di intrattenimenti eliminano dall'orizzonte della vita sociale ogni autentica espressione vitale, e ogni eccesso. Lo spirito di iniziativa, quello vero, cesareo, napoleonico, o quello dettato dalle grandi passioni, dai grandi valori morali, religiosi, artistici, frutto dei grandi sentimenti e delle profonde passioni, non solo politiche, in queste condizioni non trova alcuno spazio. Semplicemente, quello spirito è morto. Ecco un fatto che può essere annotato in cima alla lista delle cause che determinano una scarsa sensibilità sociale per la morte. Quando il potente flusso sanguigno è vinto dalla risacca del sistema linfatico anche l'organismo si rallenta. 

La morte dell'eroe

Margared Mead notava che i Manus (Nuova Guinea) sono orientati a considerare la morte con sprezzo. Almeno all'epoca in cui la Mead raccolse le sue osservazioni sul campo, i membri di questa cultura manifestavano una grande dimestichezza con la morte. I Manus si aspettavano di morire presto e sanguinosamente, come se ciò fosse un fatto che rientra nelle regole della vita. Essi erano pertanto estremamente aggressivi, anche all'interno del loro gruppo etnico e culturale. Nonostante ciò i Manus tendono all'allegria, ridono spesso. [iv][4]

A ciò si ricollega una notazione importante, che concerne la figura del guerriero, del valoroso, e al limite estremo dell'eroe (vocabolo, questo, pressoché sparito dal lessico comune, specialmente dalla lingua adottata dai vari media). La profonda estetica della figura del guerriero e l'idea della bellezza celata nella morte valorosa (soggetti presenti pressappoco in tutte le epoche) è però sospetta e assente nel nostro tempo, se non nei vari surrogati che ci propone l'industria cinematografica, ma sempre in chiave mitica. Si va ad esempio dalle saghe sui cavalieri della Tavola Rotonda, alla versione televisiva del giapponese Ogami Itto, cioè "spada che prega". Nel limbo degli eroi di celluloide si collocano tutti i grandi colossal storici o pseudo storici, da Ben-Hur al recente Il gladiatore. La morte è oggetto esplicito ed erotico nell'immenso filone dei personaggi dell'orrore che hanno commercio diretto con il sangue e con l'aldilà, dal Dracula di Bram Stoker (e dalle  legioni di suoi discendenti più o meno diretti) ai mostri primordiali che periodicamente, nelle sale cinematografiche, ma anche e soprattutto nei videogames, divorano bambini innocenti o distruggono intere metropoli.

Nella finzione cinematografica, ma molto meno nella realtà, è ancora lecito rivelarsi al mondo nelle vesti dei grandi eroi. Però soltanto se l'eroismo si consuma nello spazio profondo, cioè in circostanze inumane o comunque eccezionali, per esempio oltre la stratosfera, o sotto la pressione dei duelli tecnologici aerei: ecco i top gun, gli astronauti che salvano il mondo dall'asteroide assassino, i cow boy dello spazio: tipi umani che, però, il più delle volte muoiono nell'adempimento del loro eroico e non richiesto compito. E muoiono, appunto, eroicamente, compianti dal mondo intero. In questi casi si può osservare in presa diretta un colossale transfert collettivo che sposta in un paradigmatico "altrove" la minaccia della morte subdola, collettiva e forse totale. Nel suo monumentale studio sulla concezione della morte in Occidente Michel Novelle nota infatti che:

Si preferisce fermarsi su altre minacce, che, se appartengono all'ordine del fantastico, non perciò sono meno significative, da Star Wars a Star Trek, passando per Galactica e cento altri prodotti dello stesso tipo, si proiettano nelle stelle le grandi battaglie cosmiche dell'avvenire. Ma, attenzione, il viaggio dei nuovi Panurge è in effetti un viaggio verso la morte: morte siderale, o, ancor più inquietante, l'incontro con quegli esseri diversi che proliferano all'interno dell'universo umano. Recentemente, Alien ci ha offerto l'esempio di un essere strano che la nave spaziale porta in sé, come noi portiamo in noi stessi la morte. Se non andiamo noi nell'aldilà, sarà l'aldilà a venire a noi; e, siamone certi, non abbiamo da aspettarcene nulla di buono.[v][5]

Ma nella finzione non è quasi mai assente il sospiro di sollievo collettivo, a malapena celato dal senso di colpa, perché siffatti scomodi personaggi, una volta esaurito il loro eccezionale, straordinario compito, nella dinamica sociale non troverebbero alcuna collocazione.

Il suicidio di Yukio Mishima fu anche una risposta a una reale mancanza di collocazione, in una società giapponese che tendeva a dimenticare l'eroismo dei kamikaze. Nel migliore dei casi gli eroi che atterrano sul banale piano della realtà di tutti i giorni possono sopravvivere alla loro condizione eroica solo a patto di rientrare nella normalità; ma per essi si tratta di una condizione impropria, innaturale. Perciò, corollario alla sopraggiunta morte della figura dell'eroe è la morte fisica dell'eroe di celluloide.

L'eroe  può anche essere falsamente antisociale, ed è questo l'esempio di Rambo, l'eroe "muto", che si esprime per monosillabi o tace. In realtà Rambo non comunica perché, segretamente, mira ad essere nuovamente accettato dal branco. C'è poi l'eroe per caso (omonimo è il titolo di un film interpretato da Dustin Hoffman) che vuole solo spogliarsi dell'incomoda corazza eroica appioppatagli dal caso; ma non può e perciò soffre, si ribella o si schernisce. L'eroe sportivo è il solo che abbia diritto all'esistenza nella normale vita associativa, il che imporrebbe alcune riflessioni a margine che non è possibile esaurire in questa sede. C'è poi l'eroe irreale, prodotto onirico di un immane sogno a occhi aperti che si estende dai "manga" giapponesi alla filmografia statunitense, senza soluzione di continuità. Superman, Batman e loro compagni, ben più numerosi delle formiche, sottolineano l'assoluta normalità di tutti; i loro atti eroici, o anche quelli antieroici dei non meno eccezionali nemici, sono per definizione al di là delle possibilità di chiunque. Nessun messaggio può essere più rassicurante.  

Gli ultimi atti della vita eroica sono veri e propri canti del cigno. Furono ad esempio interpretati in vario modo in seno al Futurismo. Arcinoto è uno degli slogan dell'estetica futurista: "guerra sola igiene del mondo". Però è anche vero che i futuristi non manifestarono alcun compiacimento per la morte.  Marinetti era perfettamente conscio degli orrori della guerra. Nel celebre manifesto in cui si inneggia all'amore del pericolo e della violenza, nonché nel parolibero guerresco e onomatopeico Zang Tumb Tumb (1914), l'estetica della guerra, sia pure nella solita e magniloquente chiave interventista, è sempre ricondotta al mistero della morte.  L'abisso, e non la morte corporale, crea un movimento sintetico e simultaneo, come vuole il ritmo incalzante della guerra tecnologica. In Quarto d'ora di poesia della X Mas (1944), sottotitolato non a caso Musica di sentimenti, Marinetti tenta addirittura una impossibile, assurda, ma nondimeno singolare sintesi fra la contemplazione della violenza bellica e il suo superamento nella morte e nell'oltremorte:  

Salite in autocarri aeroporti e via che si va finalmente a farsi benedire dopo tanti striduli fischi di ruote rondini criticomani lambicchi di ventosi pessimismi [.] Urbanisti officine  banche e campi arati andate a scuola da questi solenni professori di sociologia formiche termiti api castori

Io non ho nulla da insegnarvi mondo come sono d'ogni quotidianismo e faro di una aeropoesia fuori tempo spazio [.] saremo siamo le inginocchiate mitragliatrici a canne palpitanti di preghiere

Bacio ribadiate le armi chiodate di mille mille cuori tutti traforati dal veemente oblio eterno [vi][6]

Qui, per l'appunto, morte e guerra costituiscono i due poli di ciò che Rudolf Otto definiva il "numinoso", ovvero l'essenza intima e indicibile del Sacro, ma simultaneamente e sinteticamente impastata di fascino e di orrore.[vii][7]

L'estetica della morte comprende in sé il senso di sfida, la leggerezza, l'epoché, la "sospensione" del giudizio sulla presunta limitatezza della vita cosciente e sensibile, la quale, nell'ottica marinettiana, assume un valore aggiunto soltanto se connessa alle azioni, anche e soprattutto se estreme. La banalizzazione e la volgarizzazione di questo sentimento per certi versi nobile e profondo finì col tradursi nelle irritanti e vanagloriose marce  fasciste. Com'è noto, i fascisti dell'RSI cantavano:

A noi la morte/ non ci fa paura, no!/ Ci si fidanza e ci si fa l'amor!/ Se poi qualcuno finisce al cimitero/ si accende un cero/ e non se ne parla più.

E poi, rincarando:

Forza ragazzi facciamole la corte/ diamole un bacio sotto la mitraglia!/ Lasciamo le altre donne agli imboscati!

Analogamente, ma in una direzione diametralmente opposta al pensiero marinettiano, l'Ernst Jünger delle Tempeste d'acciaio (1920) mostrava la realtà della guerra moderna, che è soprattutto conflitto di materiali, di mezzi, e non più di uomini. L'elemento umano arretra di fronte agli effetti della guerra tecnologica Con Jünger inizia a manifestarsi la  dimensione metapsichica, astratta, funzionale della guerra.  La risultante di questo processo (in progressiva accelerazione) è l'asettica guerra informatica: la guerra senza morti. Per la prima volta nella storia la morte muore di sua stessa mano.

Fu la dimensione dell'oblio, la caduta della tensione che precede e segue la morte che indusse i nazisti a perpetrare lo sterminio. Occorre insistere sul valore emblematico dell'Olocausto perché esso fu forse il primo evento storico risultante da una anestesia di massa almeno in parte favorita dai nuovi strumenti per la propaganda, come notò per primo McLuhan. Gli effetti subliminali della radio penetrarono a fondo nell'inconscio delle persone, provocando quella disumanizzazione del diverso (e poi, molto presto, perfino del simile) particolarmente efficace in Germania, fenomeno che è stato oggetto di vaste e celebri analisi, dai classici della Arendt fino alle recenti tesi dello storico Daniel Jonah Goldhagen. Oggi lo strumento della massima distanziazione psicosensoriale non è più la radio, né è la Tv, ma è Internet, che tutto può essere definito fuorché un viatico della contemplazione.

Al contrario, la contemplazione estetica della morte può di volta in volta indurre l'animo all'orrore, o al dolore, alla compassione o al rimorso; dipende dalle circostanze e dai soggetti coinvolti nel dramma umano.

Fino a non molto tempo fa anche il lutto comportava la sua evidenza. Nel Sud d'Italia ancora negli anni '50 era consuetudine affidare l'espressione esagerata del lutto a donne prezzolate, le cosiddette "prefiche". Era il "pianto greco", costume che, come è stato notato, risale alle radici delle civiltà primitive, laddove la pericolosa precarietà della morte, mina sociale sempre in agguato, originò il controllo della sofferenza, il pianto collettivo e i riti di distanziazione dei morti dai sopravvissuti. In generale, la drammatizzazione rituale della disperazione può efficacemente disinnescare il distruttivo meccanismo psicosociale che segue l'alterazione definitiva degli equilibri raggiunti in una comunità. Questa la nota tesi di De Martino. [viii][8]

La differenza fra i ricchi ma frettolosi e asettici funerali odierni e le esequie di un tempo si coglie nel fatto che mentre i primi sono dispositivi di negazione; i secondi, al contrario, tendevano a rimarcare con tutti i mezzi simbolici  la radicale "diversità" della condizione di defunto. Ecco che la civiltà tecnologica ci concede al massimo un "morto vivente", il sofisticato prodotto di un sapiente maquillage made in Usa. Nella cremazione, rito che in Occidente ha subito alterne fortune, si cela a ben vedere lo stesso principio. Vi è infatti una sostanziale differenza di natura estetica fra la pira in uso presso gli Indù e la tecnologia dell'incenerizione. La seconda, che manca di definizione, si può dire che appartenga alla vasta categoria della "negazione", come del resto dimostra la sua relativa "invisibilità". Tutto ciò che resta del defunto sarà lestamente collocato in una piccola urna cineraria senza tanti fronzoli, da seppellire in appositi reliquiari a pagamento. La persona cremata. va "in fumo", e viene dimenticata più agevolmente.

L'apparente poesia della dispersione delle ceneri ai quattro elementi, pratica che affascina non a caso registi e intellettuali di ogni tendenza e qualità, è anch'essa una comoda forma di liquidazione. La morte, semplicemente, non deve intervenire nella vita. Non deve rappresentarsi.

Al contrario, come si sa, tutta la scenografia dei riti dedicati alle esequie o al lutto ha lo scopo di intensificare la tensione e di produrre una violenta scarica, un transfert, che coinvolge i parenti e gli amici del de cuius, e in misura gradualmente minore, tutte le parti sociali che avevano avuto relazione col morto. I riti funebri istituiscono una precisa geometria degli affetti che si estende nel tempo e nello spazio. La loro stessa collocazione nello spazio dell'interazione sociale non è mai priva di effetti.

Nella commedia Non ti pago di Eduardo De Filippo le vicende di una famiglia sono scosse dalla disattenzione dell'anima del caro estinto di turno che per errore ha suggerito in sogno i numeri vincenti alla persona sbagliata. E da quell'errore ha origine un terribile dramma familiare.

L'antropologia è straordinariamente ricca di studi sulle virtù dei lari, dei penati, sugli spiriti degli antenati e sui relativi riti di conciliazione che caratterizzano le varie culture e comunità. Non è un fatto privo di significato che gli antropologi attenti ai fenomeni dell'ultramodernità debbano oggi constatare l'avvenuta frattura con una percezione della morte che, a dispetto delle varie e anche vastissime differenze culturali, sembrava però universale.

La morte in rete non semina memoria e non esprime partecipazione. I paesaggi virtuali del Web offrono un'ampia scelta di celebrazioni memoriali, ma nessuna di esse è contestuale, cosicché si varia dalla "santificazione" psichedelica di Timothy Leary alla buffa collezione di necrologi a pagamento del sito www.requiescat.org e dei suoi affini, dove convivono le icone di Marylin Monroe o di Totò, di Lucio Battisti e di John Wayne: persone, vite, culture e temporalità che non hanno nulla in comune, se non la più o meno ampia notorietà. Ecco un esempio di puzzle memoriale completamente indifferente ai contenuti, in qualche modo l'immagine riflessa dell'obitorio. Chi produce questi cimiteri virtuali? E chi li richiede? Si è in presenza di una nuova concezione dei rituali della sepoltura e della memoria oppure si tratta di pure bizzarrie?

Certo, questo nuovo assetto della morte, la sua progressiva virtualizzazione, elimina una percezione precipuamente umana che possiamo anche definire la sensazione della "presenza". Qualunque cosa sia la realtà della persona, essa è sempre identificata da una rete di presenze che si riflettono scambievolmente. Questa realtà incontrovertibile si manifesta nella persistenza della traccia del defunto nella memoria di coloro che restano, nell'affettività dei sopravvissuti. Nozione foscoliana, il cui effetto è il cordoglio, o anche l'impossibile ri-memoriazione.

Un esempio del primo atteggiamento fa parte del filone della filosofia della persona. Paul-Louis Landsberg, nel suo saggio sull'esperienza della morte, notò che soltanto gli esseri umani posseggono una percezione metafisica del trapasso, in quanto cognizione di un istante non misurabile:

[.] in un attimo tutto sembra calmo, tutto sembra finito, e i lineamenti contratti del volto amato si distendono. Proprio in questo istante in cui l'essere vivente ci abbandona, iniziamo a sperimentare la misteriosa assenza della persona spirituale. Per un attimo ci sentiamo sollevati: il dolore della simpatia carnale è finito. Ma immediatamente ci sentiamo trasportati nello strano e gelido mondo della morte compiuta. Alla pietà vitale che risulta così sospesa nel vuoto si sostituisce tutt'a un tratto la profonda consapevolezza che questo essere, nella singolarità della sua persona, non è più qui e non può più tornare in questo corpo. Non ci parlerà più, non vivrà più tra noi come prima. Mai più. Le forme superiori della fede nella sopravvivenza concordano perfettamente con questa esperienza. Per esse la persona spirituale non è annientata, ma è solamente sparita ed esiste nell'assenza. Se la morte era la presenza assente, ora il morto è l'assenza presente. [ix][9]

Ma è anche vero che la "presenza dell'assenza" può consumarsi interamente in quella soglia critica che è la fedeltà alla memoria del defunto. Così, ad esempio, ritiene Jacques Derrida nelle sue Memorie per Paul de Man:

Alla morte dell'altro tutto resta "in me" o "in noi", "tra noi"; tutto mi è affidato, ci è lasciato in eredità o dato a ciò che chiamo memoria, alla memoria, luogo di questo strano dativo. Parremmo votati alla memoria, dal momento che dell'altro nulla sembra ora (au présent) più poterci pervenire, venire o avvenire (à venir ou avenir). È vero, senza dubbio; ma questa verità è essa stessa vera, e quanto? Le frasi che abbiamo appena formulato sembrano presupporre una certa chiarezza riguardo a ciò che intendiamo "in me", "in noi", "morte dell'altro" e "memoria", "presente", "a venire", ecc. Ma è necessaria ancora più luce. Infatti il "me" (moi) e il "noi" di cui parliamo sorgono e si costituiscono in quanto tali solo attraverso questa esperienza dell'altro, o dell'altro come colui che può morire lasciando in me o in noi questa memoria dell'altro. La terribile solitudine, la mia o la nostra, alla morte dell'altro è ciò che costruisce quel rapporto con sé che chiamiamo "me" o "noi", "tra noi", "soggettività", "intersoggettività", "Memoria" [.] Più precisamente ecco l'allegoria, del lutto impossibile. Paul de Man direbbe l'illegittimità del lutto. A questo livello la possibilità dell'impossibile ordina l'intera retorica del lutto e descrive l'essenza della memoria. [x][10]

Dunque, nell'ottica di Derrida la memoria dell'altro è un'operazione votata al fallimento nell'atto stesso in cui tenta l'interiorizzazione mimetica di un altro che necessariamente non deve essere più. E qui il discorso del filosofo si amplia, fino a toccare l'essenza stessa dell'impossibile relazione fra il lutto e l'esercizio della narrazione interiore che si suole definire "memoria". Se l'altro col quale ebbi commercio è morto, sono davvero, in un certo senso, morto anch'io? O almeno morto in quella parte che configura lo spazio osmotico dell'alterità? Può anche darsi. Però questi ed altri elementi speculativi sono al di sopra e al di là dei limiti delle presenti note. Se non per un punto: qualunque speculazione sulla morte, specialmente se partorita nel secolo Ventesimo, tocca da vicino il tema dell'alterità, dell'altro, e dunque anche della sua presenza sotto forma di traccia che viene preservata dall'oblio. La sopravvivenza delle anime, come dire la sopravvivenza delle memorie individuali in quella regione metafisica che è la memoria universale ultraterrena, viene sostituita dalla sopravvivenza delle tracce memoriali di ciascuna vita, che il mondo terreno, profano, può ormai permettersi di conservare all'infinito. Però le anime, gli spiriti, o comunque le "presenze viventi" non sono soltanto memoria. Esse, per definizione, sono vive, e proprio per questo sempre capaci di aggiungere memoria alla memoria, e di segnare una differenza.

L'eredità della propria opera, del proprio lavoro, delle proprie azioni morali o immorali, per quanto effimere o insignificanti, può finalmente essere preservata dalla inevitabile dissoluzione, se si vuole ciò. Potrebbe quindi, almeno in via di principio, nascere l'istituzionalizzazione della  memoria di tutti i defunti [xi][11], premessa logica alla negazione della morte.[xii][12] Le tecnologie della memoria, ovvero tutte le possibili tecniche di registrazione diretta o indiretta dei fenomeni, concorrono a rendere possibile il sogno della conservazione di tutti gli eventi. Il che equivale, paradossalmente, alla cessazione della storia. Pertanto la storia si polverizza, si dissemina e tendenzialmente si democratizza, poiché viene a mancare quella semplificazione che deriva dalla cancellazione dell'irrilevante. Ciò che è irrilevante viene progressivamente sostituito da ciò che è non-rilevante, ma l'assenza di rilievo non significa assenza di peso. La memoria di tutte le possibili tracce, pubbliche e private, è in effetti funzione della capacità che  la macchina logica universale può esprimere se decide di ricostruire la vita e le opere di chiunque. L'insieme delle tracce disseminate nelle banche dati, negli schedari e nei cassetti segreti della famiglia riempie sempre di contenuti una variabile, producendo una costante.

E qui, proprio in questo fondamentale nodo, si potrebbe misurare la vastità della frattura provocata da un insieme di manifestazioni tettoniche sospinte dalle nuove tecnologie eidomatiche. La "civiltà connessa", si può aggiungere, tollera tutto, ma non ciò che per essa è un ostacolo. E l'ostacolo più insidioso è la lacuna, dunque l'assenza. La civiltà connessa, o per meglio dire la "condizione connettiva" prospera sulla capacità di incrociare quasi istantaneamente i più disparati dati. Quindi, ogni assenza, ogni lacuna nel database universale è insomma considerata un pericolo, un'indebita irruzione del caos, una variabile impazzita: per definizione un elemento disturbante, che, paradossalmente, in virtù della sua assenza, dunque del suo non essere, spicca nel piatto paesaggio delle pure e virtuali relazioni funzionali. Ma quale assenza può essere maggiore della morte?

Crioideologia ed eutamnesia [xiii][13]

C'è da chiedersi se in questi nuovi paesaggi dell'anima non si delinei un nuovo tipo psicologico, se è il caso di ipotizzare una relazione fra la potenziale  scarica di ogni tensione (favorita e fomentata dagli investimenti tecnologici in cui ogni persona è immersa dalla nascita) e la formazione di una personalità mediamente più libera, meno frustrata, ma anche, potenzialmente, più pericolosa, meno orientabile, meno dirigibile. Un tipo psicologico consimile può essere tollerato nelle condizioni ultratecnologiche? Se il sistema vuole trasformare i lupi in agnelli, che fine fa il lupo che è in noi?  

Tocchiamo qui con mano un punto centrale della nostra riflessione. L'attuale e dominante concezione scientifica, medica, perfino sociologica circa il valore e circa il significato della vita è incompatibile con il paradigma della obbligata necessità psicofisica della morte. Un segnale di questo rigetto si può già cogliere nella psicanalisi post-freudiana, che in vario modo ha rigettato la veridicità dell'esistenza di un "istinto di morte". Eppure, oltre a essere stata una delle più discusse, essa fu forse anche una delle intuizioni più felici di Freud. Come si sa, in Al di là del principio di piacere (1920) il padre della psicanalisi bilanciò il principio di piacere con un istinto dotato di forza uguale e contraria: la "pulsione di morte", ovvero una  non meglio identificabile volontà autodistruttiva interna a ogni essere vivente, che deve in qualche modo imporre a ciascun organismo di dissolversi nei suoi primordiali elementi chimici.

Se possiamo considerare come un fatto sperimentale certo e senza eccezioni che ogni essere vivente muore (torna allo stato inorganico) per motivi interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte [.].[xiv][14]

Successivamente, in L'Io e l'Es, Freud sostenne che la tensione caotica, distruttrice, espansiva della vita deve essere bilanciata da un principio equilibratore. Thanatos, a suo giudizio, è appunto questo principio che limita le energie apparentemente infinite di Eros. La moderna biochimica sembra dargli ragione.  Sorprendentemente, pare che Freud fosse pervenuto al nocciolo del  problema proprio nella criticata teoria che poneva in mutua relazione Eros e la pulsione di morte.

Vediamo come oggi si esprime a questo proposito William R. Clark, una fra le massime autorità a livello planetario nel campo della biologia molecolare:

Fu circa un miliardo di anni fa, durante il cammino dalle monere ai protisti, che la morte comparve così come la conosciamo oggi: una conseguenza ineluttabile della vita. Chiameremo questo tipo di evento morte programmata, e ciò per distinguerla dalla morte accidentale, dovuta invece ad eventi fortuiti quali l'eccesso di caldo o di freddo, l'inedia, la distruzione di parti fisiche o i danni a livello chimico.[xv][15]

Secondo questa nuova linea di ricerca la morte programmata comparve all'incirca nello stesso momento in cui gli organismi unicellulari cominciarono a sperimentare i benefici riproduttivi dell'unione sessuale. Secondo quest'ipotesi:

[.] esisterebbero gruppi di geni - che chiameremo geni della morte - la cui espressione dà avvio all'invecchiamento e alla perdita della capacità di replicare i cromosomi, conducendo infine la cellula a morte certa [.] Nei genomi aperti, come quelli delle cellule germinali e delle prime fasi embrionali, i geni repressori della morte sono perfettamente funzionali, consentendo così alle cellule di riprodursi senza limiti e di non invecchiare; fino a quando il carattere di tali geni può essere espresso, le cellule sono effettivamente immortali, dato che il programma di invecchiamento non può entrare in funzione. Però, non appena le cellule cominciano a differenziarsi e a inattivare i geni a blocchi interi, quelli che reprimono la morte sono i primi a venire spenti. Mentre quelli che la codificano non vengono resi mai del tutto silenti. In pratica [.] è come se la morte fosse l'impostazione standard del vivente  (sottolineatura mia, R. N.).[xvi][16]

Aveva dunque ragione Max Scheler, quando sosteneva che la morte appartiene alla forma e alla struttura di ogni essere vivente, tanto da un  punto di vista esterno quanto all'interno di ogni vita: o, in una terminologia aggiornata, alla medesima  costituzione molecolare del codice genetico. [xvii][17]

E' scritto che Abramo morì all'età di centosettantacinque anni, in buona vecchiaia, attempato e sazio di vita (Genesi, 25,7). La sazietà della vita sembra un controsenso, un'assurda e macabra burla. Chi vuole mai morire? Ovviamente nessuno. Coscientemente. Ma è poi vero fino in fondo? Come si è accennato, la moderna biochimica sembra fornire risposte quantomeno inattese; ma anche le attuali cognizioni sulla fisiologia umana suggeriscono che le capacità del cervello umano sono calibrate sulla lunghezza della vita assegnata dal codice genetico. In altri termini, non è possibile vivere duecento, trecento e più anni. Sembra che il cervello umano non sia materialmente in grado di elaborare, ritenere, conservare e maturare un'esperienza più che bicentenaria.

Perciò si deve morire. Per quanto possa sembrare estraneo al senso comune, e quantunque la volontà sembri ripudiare l'accettazione della fine, tuttavia è forse vero che viene un momento in cui sorella morte non è più quell'ombra oscura e immensamente spaventosa che tutti affligge.

Forse l'orologio biologico, decretando l'approssimarsi della fine, procede anche a una progressiva assunzione del trapasso. Come se la vita potesse a un certo punto assumere l'aspetto di un pasto sovrabbondante che lascia appunto un senso di sazietà e, si direbbe, di ripudio del cibo. Se il cibo della vita non solletica più il palato dell'esistenza, allora è forse il momento di morire.

"E' tempo di morire". Così l'eroe replicante del Blade Runner di Ridley Scott. E così, a suo modo, "L'uomo bicentenario", l'immortale robot protagonista di un film interpretato da Robin Williams e tratto da un omonimo, breve ma icastico racconto di Isaac Asimov. Nella narrazione il robot Andrew Martin scopre di essere autocosciente e sensibile. Decide allora di farsi uomo, cioè di trasformare il suo corpo di acciaio, ma in un certo senso anche la sua mente, in qualcosa di sempre più vicino alla struttura organica umana. Ma il consesso mondiale non intende riconoscergli lo status di essere umano poiché il cervello positronico è virtualmente immortale, quindi inumano per definizione. Forse la condizione umana risiede davvero nella mortalità. Questo il messaggio di Asimov.[xviii][18] Cosicché il robot Andrew Martin, in un estremo slancio di passione, decide di rendere mortale il suo organismo. La sua morte coincide con l'emanazione di un atto giuridico che gli attribuisce lo status di essere umano, poiché morte e umanità sono anelli di una sola catena. Questa nuova traccia mitografica, sulla quale, oltretutto, sarebbe forse il caso di tessere una riflessione riguardante la funzione del capro espiatorio in una società ipertecnologica come la nostra, è non a caso frutto delle intuizioni di un autore che attinge materia tanto da una approfondita conoscenza delle scienze fisiche e chimiche quanto dalla fonte inesauribile della saggezza ebraica. Altrove, Asimov attribuì al robot Daneel Olivaw, protagonista di mille avventure galattiche, una vita plurimillenaria; ma una vita che nonostante tutto, quando si arriva al dunque, cioè al senso delle cose, agogna la morte; ecco l'equivalente della "pulsione di morte" in un cervello positronico, una vera e propria "psicotronica" sazietà di vita.[xix][19]  

La memoria è dolore, si dice. Ma forse non sempre. Certamente colui che è giunto a riflettere sulla prossimità della morte pensa anche alla chiusura del futuro e quando la memoria è satura di fatti tanto più essa sottolinea una siffatta prossimità;   così, quando i vecchi non trovano più ostacoli sul loro cammino, quando il ciclo vitale sottrae alle loro braccia e alle loro menti l'energia e anche la volontà per la lotta, essi ricorrono ai ricordi per recuperare il senso della vita. In questo modo le persone anziane ricordano, rimpiangono, si rassegnano o approvano; ma sempre, ricordando, soffrono di quella peculiare sofferenza che si cela nella necessaria constatazione del dato di fatto che è la storia. Quel che è fatto è fatto. La memoria (non il ricordo, che è di tutti) è il problematico privilegio dell'età che avanza.

Il progressivo accrescimento della memoria è però anche un fenomeno collettivo, globale. Non soltanto la memoria storica è al giorno d'oggi una somma di stratificazioni che non accenna a ridurre il ritmo delle sue nuove acquisizioni, ma alle nozioni sulla storia dell'uomo, dei popoli, delle specie viventi e dell'universo intero si associano tecniche di interpretazione sempre più sofisticate. Non vi è dubbio che l'accrescersi della memoria collettiva genera la sensazione della senescenza fisica e psichica della specie umana, specialmente in quelle aree del mondo che detengono il primato scientifico e tecnologico e che applicano questo primato alla conservazione della memoria.

Dunque, forse si sta sperimentando un sentimento diffuso, una generale attesa della morte, ma della specie. I prodigiosi mezzi tecnologici oggi disponibili costruiscono un immane occhio rivolto al passato. Ma tanto più l'occhio collettivo affonda nel passato, tanto meno esso osserva realisticamente il limite temporale del futuro. La dimensione del futuro abbandona la progettualità e si fa onirica, né potrebbe essere altro, dal momento che le potenzialità di tutte le tecnologie comprendono la concreta possibilità di una mutazione copernicana della specie.

Se è vero che le tecnologie, per esempio le tecniche genetiche presenti e future, potranno spingersi oltre i limiti dell'immaginazione, consentendo in potenza la creazione di nuove e imprevedibili varietà umane, dove mai sarà possibile riporre fiducia in un progetto futuro? Nulla si infutura se non nel segno di una continuità. Ma le tecnologie creeranno e creano soprattutto discontinuità. Ad esempio, l'ingegneria spaziale prepara oggi le basi  per i futuri viaggi interstellari: dunque, verso mete che rescinderanno ogni legame con le origini della specie. Ecco le premesse per un'altra discontinuità.

E ancora, il connubio fra le neuroscienze e le tecnologie del computer promette e prepara forme di coscienza, di intelligenza e di espressività  realmente impensabili, poiché al di là dei nostri attuali limiti strutturali. Un'altra discontinuità. Dunque, non è illecito sostenere che l'insieme di queste premesse coincide con la coscienza dell'approssimarsi della fine delle attuali forme umane. Perché dunque stupirsi della preoccupazione  più o meno unanime (quantunque mascherata da differenze) che accomuna tanto le intelligenze laiche quanto le gerarchie delle varie religioni rivelate? Un veto unanime cala sulle potenzialità delle tecnologie non appena queste ultime promettono mutamenti significativi e irreversibili.

Però, il piano d'azione di ogni mutazione comprende una sorta di irreversibilità. Il suo opposto dialettico è la fissità della memoria. Memoria organica, culturale, storica, spirituale. L'elaborazione della memoria appartiene ancora ai paesaggi dello spirito: estensioni che possono essere attraversate solo con l'occhio interiore. Possiamo scorgere un percorso analogo anche in settori apparentemente finalizzati a uno scopo "razionale", ma in realtà strettamente legati alle percezioni metapsichiche e metastoriche della specie. Per esempio, la scienza medica occidentale (e lo studio dell'anatomia che la fonda e la sorregge) è inscritta nel dominio dell'occhio fisico, della luce, che tutto deve rivelare, svelare, illuminare. In una parola rapire. Il rapimento avviene attraverso vari artifizi, cioè forme d'arte, o in altre parole combinazioni di elementi ordinati.  Potrebbe esistere una profonda affinità ideologica fra le tavole del Vesalio e il corpo di un condannato a morte congelato e segmentato a scopi di studio, immagine che costituisce a tutt'oggi un luogo molto frequentato nel vasto campo arato dell'Internet.

Davanti a un'opera d'arte, a un bell'esemplare dell'altro sesso, o anche di fronte a un fenomeno naturale inusitato o sconvolgente si dice comunemente che si "resta rapiti": metafora che rivela più di quanto non sembri, dal momento che lo sguardo, qualunque sguardo, da quello ferino a quello filosofico, è letteralmente un'offesa, poiché nasconde la volontà della rapina, dell'attacco, dell'appropriazione indebita.

Lo sguardo offende perché carpisce qualunque entità che si intromette nel suo campo d'azione. Mentre osserva, contemporaneamente lo sguardo misura, soppesa, pondera, stabilisce. L'occhio, e non la mano, anticipa il gesto crudo della spada o della pistola. Nel mondo dei raggi laser e delle guerre aeree pare che lo sguardo fisico non abbia più importanza, dal momento che il "nemico" è lontano, praticamente invisibile, virtualmente inesistente. Ma è pura illusione poetica, poiché lo sguardo è invece potenziato dall'occhio elettronico, dal radar, dai sistemi satellitari: tutte estroflessioni ed estensioni della pupilla, nonché del meccanismo anatomico che trasforma l'occhio di molti animali in un equivalente organico del mirino telescopico. Cosicché se la nostra contemporaneità è ancora definibile una "civiltà", essa non è, però, passivamente, la civiltà dell'immagine. Questa è, piuttosto,  una civiltà dello sguardo che rapisce, e che è rapito, fino al punto di perdersi in dimensioni spazio-temporali senza qualità. Non è possibile in questa sede soffermarsi sulla vasta e anche recentissima letteratura sullo sguardo, se non per alcune considerazioni conclusive, che riguardano il lessico.

Non a caso "pudicizia" è un termine per forza di cose svanito dall'orizzonte degli usi linguistici. Suoi sinonimi sono "verecondia", termine dall'innegabile sapore arcaico, e, soprattutto, "castità", vocabolo veramente castigato, al punto da suonare in certe circostanze quasi come la peggiore iattura che si possa immaginare. Qui entriamo per vie traverse nella dimensione del sacro, ed è quasi superfluo ricordare che in molte religioni e in svariate pratiche cultuali, ma principalmente nella tradizione ebraica, il Santo è ciò che innanzi tutto si cela alla vista, che anzi non può in nessun modo essere osservato. La "castità" dello sguardo umano è dunque l'equivalente del riconoscimento dell'impudicizia intrinseca del vedere, dell'osservare, del "rapire". Levare lo sguardo sul Mistero, sul Santo dei Santi, implica la morte fulminante, o la pietrificazione, come ci ricordano le narrazioni bibliche che non possiamo qui analizzare in dettaglio. Ma un elemento è necessario aggiungere. In Genesi solo al Dio creatore è dato volgere lo sguardo sulla creazione, e soprattutto all'interno dell'atto della creazione, nelle sue leggi, nelle sue strutture infinitesime, come a dire all'interno del suo corpo. Dio trova buona la sua opera, finché non interviene lo sguardo umano. Ma quello umano è uno sguardo in tralice, che si ferma alla superficie e vi si riflette. Da qui la vergogna, e il suo corollario morale inscritto nella logica della colpa: la pudicizia.

Penetrare nella sacralità del corpo è stato a lungo un atto vietato, un tabù, anche perché, banalmente, al suo interno la carne è priva di luce. La dimestichezza con il corpo svelato in tutti i suoi anfratti nasconde la presenza di un corpo che in realtà è il regno delle tenebre. Se così non fosse, se l'epidermide non facesse da schermo alla forza d'urto delle radiazioni luminose, il corpo non potrebbe vivere. Il corpo muore una volta esposto a eccessive dosi di raggi X; uno strano stupro luminoso del corpo, così seducente eppure così prossimo al senso della morte. Com'è noto, i primi passi delle tecniche radiografiche colpirono il Thomas Mann de La  montagna incantata. Per la prima volta l'anatomia si palesava anche nella materia vivente, quasi in quanto prefigurazione della morte organica.

Del resto, l'anatomista estroflette i corpi con il bisturi per trasformarli in paesaggi transitati dallo sguardo. Il tavolo operatorio è il suo giardino. L'anatomista, tema abbastanza frequentato nelle pitture e nelle incisioni del '600, si traduce nella figura ottocentesca del medico che ha a cuore la salute mentale e fisica della "popolazione": ed è questo il primo passo verso l'ideologia totalizzante delle tecnocrazie. Il freddo tavolo dell'anatomista  è forse un preludio all'Olocausto, così come, per altre vie,   Heidegger associò il dominio della tecnologia alla fine della metafisica, ovvero alla fine di una modalità della visione interiore, intellettiva, che non è mai sguardo sensibile. In ogni caso, la violazione dell'oscurità metaforica e materiale del corpo, del suo presunto legame con lo spirito, si traduce nell'ultimo scorcio del secolo nell'ideologia della "morte sospesa".

Se la scienza medica attuale è ancora suo malgrado impotente di fronte alla morte, perché non rimandare il problema al domani? Questa è appunto l'ideologia della Cryonic Alcor Life Extension Foundation, che propala il suo credo attraverso un efficiente e accattivante sito Internet. Del resto nel Web abbondano consimili siti "extopiani", anche ben più inusitati e improbabili.[xx][20] Ma l'eccezionalità della Cryonic Alcor Life Foundation consiste nella praticabilità della vita sospesa. Se è vero che gli analoghi esperimenti degli anni '70 fallirono miseramente, ora esiste una ragionevole probabilità di successo. Dicono. E probabilmente bisogna crederci.

Imprese come la Cryonic Alcor Foundation dimostrano che la scienza medica ha iniziato a mettere le mani sul limite della morte. La genetica fa la sua parte, ma la criogenetica, forse, fa ancora di più, poiché essa promette la conservazione della materia organica in uno stato che non è né vita né morte. Una violazione inaudita del terzo principio della termodinamica. L'animazione sospesa è dunque proprio ciò che dice la sua stessa parola: una "sospensione" dello sguardo, un'azione che sospende l'anima fra la vita e la morte, in un limbo che introduce un nuovo stato ontologico, un "trapasso" troncato a metà, una sorta di epoché del viaggio estremo. Il compito di questi scienziati del limbo è dunque anche quello di sorvegliare la soglia della vita e della morte, nell'attesa attiva che i tempi maturino gli strumenti  in grado di trasformare tutta la morte in vita eterna. Ecco una nuova "terra promessa".

Dunque, a questo punto, non soltanto lo sguardo si inscrive nella dimensione della sorveglianza di foucaultiana memoria ma soprattutto esso immerge il bisturi nel concetto di colpa che informa di sé l'inconscio collettivo delle culture incubate nelle religioni rivelate. Potrebbe così cadere, quasi naturalmente, l'idea della colpa originaria, che consiste almeno in parte nella consapevolezza cosciente e predatoria dell'alterità, cui consegue la caduta biblica, la punizione, ma anche la necessità della mortalità. Una necessità che lo scrittore Abraham Yehoshua ha ironicamente rimarcato in La morte del vecchio: il celebre, surreale racconto in cui un vecchio, che per virtù imprecisate non muore mai (insomma, un potenziale immortale) viene alla fine opportunamente "fatto morire" (non ucciso, si badi) dalla comunità.[xxi][21]

Nel suo bel libro sull'essenza della morte lo psicoanalista Aldo Carotenuto commenta questo insolito racconto osservando che:

L'enigma è svelato nel momento in cui Yehoshua fa emergere la verità e dichiara la vita priva di senso, per cui arrivati alla vecchiaia non si può più andare oltre: l'univa via di salvezza per l'uomo è la morte, la quale impedisce che i ricordi diventino troppi, e si trasformino in montagne che non permettono più di "vedere il mondo" [.] In Jung troviamo una considerazione che si pone sullo stesso piano, in quanto rivela la necessità della morte come fine ultimo della vita: "La morte è il bersaglio, lo scopo ultimo della vita". Ai nostri giorni la sociobiologia e la genetica stanno tentando di dare un fondamento scientifico a questa tematica, spostando l'accento dall'individuo al gruppo, alla specie, insomma al gene: il cosiddetto "egoismo del gene" - che conta più del nostro personale egoismo di singoli - dà un senso alla morte degli individui perché consente non solo la durata del gruppo e della specie, ma anche il suo arricchimento nel rapporto col resto dei viventi. [xxii][22]

Spezzare il cerchio della vita e della morte implica una inaudita minaccia al gruppo e alla specie intera. Non a caso, gli eroi cinematografici di Highlander - L'ultimo immortale, devono sistematicamente ricostruirsi una vita e una nuova identità non appena le comunità in cui occasionalmente si trovano scoprono che questi strani personaggi non invecchiano, non muoiono e addirittura resuscitano ogni qualvolta vengano trafitti da una spada, schiacciati da un masso o martoriati da una micidiale mitraglia. Quando gli abitanti del villaggio scozzese scoprono le virtù di Highlander, appartenente senza saperlo alla misteriosa genia di immortali ma nati da donna, si scatena una terribile caccia alle streghe. Il che, moralmente, si giustificherebbe se il protagonista della storia fantastica fosse malvagio, come è il caso del Dracula di Bram Stoker, altro immortale ma cattivo, spregevole, subdolo. Ma una caccia che si giustifica a stento, anzi, che non si giustifica affatto, se l'eroe in questione è buono, altruista, sensibile, coraggioso e, last but not least, perfino un invincibile tomber de femme. Eppure, il punto è forse proprio questo: la specie umana al suo attuale stadio di evoluzione non può accettare la concreta possibilità di far discendere dal proprio seme una razza di immortali, una genia di super esseri in grado di sconfiggere la più dolorosa ma anche la più democratica di tutte le tragedie umane. Dunque, mentre in Yehoshua l'ipotesi dell'immortalità si involge nella cristallizzazione della vita sotto il carico di una eccessiva memoria, tema tipico della cultura ebraica, il cui maggiore cruccio è forse propria la mole della sua storia, al contrario in Highlander   la memoria genetica prevale sulla memoria storica.

Per una curiosa forma di inconscia prudenza lo sceneggiatore lascia intendere che l'immortalità di Highlander è soltanto individuale, ma non può essere trasmessa geneticamente. Peccato. Se il personaggio avesse posseduto entrambe le potenzialità sarebbe stato perfetto, completo, olimpico. Anche la semplice idea che l'immortalità del genotipo possa determinare l'immortalità del fenotipo sconvolge tutti i parametri umani e biologici. Ecco la contraddizione! Finora l'una ha escluso l'altra: certo, l'immortalità del batterio che si replica all'infinito esclude la morte ma esclude anche la sessualità, e perciò la trasformazione. Conservare la capacità della trasformazione della specie nel tempo e, contemporaneamente, accedere all'immortalità del fenotipo è una reale contraddizione, e se davvero fosse un giorno possibile ciò comporterebbe conseguenze inimmaginabili.  

Da questo punto di vista la criogenetica offre la speranza di una dilazione, offre la possibilità di ottenere un tempo supplementare posto in un imprecisato futuro; ma è anche evidente che lo scopo della dilazione non consiste nel procrastinare la morte di uno, dieci o cinquant'anni. Il vero scopo, l'autentica promessa è una promessa di immortalità. Sulla necessità di non accedere all'immortalità individuale sono paradossalmente tutti concordi: chiesa e cultura laica su questo punto recitano gli stessi discorsi ma, soprattutto, scatenano il loro sguardo inquisitore.

Ha ragione Jean Clair quando sostiene che lo sguardo è per sua natura "medusizzante"; esso pietrifica e sgomenta.[xxiii][23] Notazione che deriva dal Bataille della Storia dell'occhio. Correttamente entrambi collegano l'umana ipertrofia della vista al tormento della sessualità. Dunque, sesso, corpo e sguardo. Un trittico e un triangolo equilatero. Si può arguire da questa dimensione geometrica fino a che punto la scienza possiede e incrementa la sua forza totalizzante: somma di tutte le sublimazioni, dalla quale discende per vie traverse quella tradizione anatomica che trasferisce la fisica dei corpi nel corpo fisico, cosicché il corpo umano non può che essere violabile. Il corpo quale antitesi del Tempio.

Il corpo diventa così soggetto a uno sguardo senza remissioni, a uno sguardo luciferino nella sua essenza. Estetica del "colpo d'occhio" che, per l'appunto, consiste nel precipitare lo sguardo, fin  dal primo istante, nel rito dello stupro, della appropriazione mediante negazione. E nella sospensione della vita che non è, però, ancora, morte. L'offesa dello sguardo è sempre principio di aggressione, poiché sottrae  esattamente ciò che fa di ciascuno un essere umano: la coscienza della finitudine.

Coscienza della finitudine e dimensione del futuro sono in realtà i poli di un medesimo magnete, e non a caso uno scrittore, Paolo Maurensig, sul tema dell'immortalità organica che, a quanto pare, sempre più spesso assilla intellettuali di ogni formazione e provenienza,  osservava che:

Il futuro, per la nostra mente, per la nostra psiche, progettata per una vita di più o meno settant'anni, sarebbe sempre domani, fra un mese, fra un anno, fra cinque sei anni. La nostra mente non è in grado di immaginare un futuro più lontano. E il passato, misurato in secoli e non in anni, privato praticamente dell'esperienza della crescita, dell'invecchiamento, sarebbe una mera ripetizione: ieri o un secolo fa non farebbero differenza. Passato e futuro, questi due limiti della coscienza, si avvicinerebbero paurosamente, verrebbe a mancare una reale prospettiva temporale. In altre parole, che cosa sarebbero duecento, trecento, quattrocento anni senza la coscienza di averli vissuti? L'immortalità, quella vera, per me, non dovrebbe essere la perpetuazione del corpo, ma piuttosto la dilatazione della coscienza. L'immortalità dovrebbe essere un continuum che partendo dalle origini dell'umanità potesse abbracciare il futuro. Sarebbe un cerchio che si chiude, il passato che si salda col presente e col futuro. Sarebbe l'unità assoluta.[xxiv][24]

Sembra quasi che una visione classica della vita, e della morte, respinga per principio anche la semplice possibilità di fondare un'esistenza e un'esperienza su un'estensione temporale illimitata, che ha un inizio, ma che non vede una fine.

Una plausibile descrizione dell'immortalità della vita si accetta facilmente se essa si misura sul metro dell'immortalità della specie, o dell'esistente; visione, quest'ultima, sostenuta ad esempio da Charles Bonnefon nel Dialogue sur la vie et sur la mort. Visione  in parte condivisa  da  Miguel de Unamuno (che però si spingeva verso i territori dell'anacefaleosi paolina, la fusione paolina di tutti gli uomini nell'Uomo, con ciò reintroducendo l'immortalità della specie, del gruppo, realtà che è già nei fatti)[xxv][25]. Visione per certi versi condivisa  anche da Teilhard de Chardin, quando ipotizzava una nuova condizione noetica della specie, la "supervita", che però - si badi - nulla è senza la morte: "[.] ingranaggio essenziale del meccanismo e dell'ascesa della vita".[xxvi][26] Se non che, la possibilità tecnica dell'immortalità, o quantomeno della sospensione della morte, introduce nel nostro tempo una differenza etica (ed estetica) sostanziale. Ed è la premessa per un "salto quantico" della specie.

Le speculazioni che attingono fluidi vitali da una visione classica dell'essere al mondo, e del soggiacere alla mortalità, giungono per le vie del sillogismo a sostenere che l'immortalità individuale si tradurrebbe   nell'immortalità di tutte le caratteristiche positive e negative soggettive. Un'immortalità quantitativa, estesa nella dimensione temporale, si trasformerebbe quindi in una sorta di congelamento delle note caratteristiche che formano una determinata individualità. E allora, quale potrebbe essere il prezzo dell'immortalità? La morte delle potenzialità - si dice - la morte della possibilità del mutamento, e la morte dell'evoluzione. E gli argomenti probanti sono tanti: non è forse vero che il crescente potere dell'ingegneria genetica sui meccanismi della morte si traduce in una potestà dei viventi sulle potenzialità dei discendenti? E poi, tendere a dilatare la vita oltre la misura stabilita dall'evoluzione della specie è un risultato che può essere raggiunto soltanto ipotecando le potenzialità di vita della specie.

Quindi, concludendo il sillogismo (o meglio l'entimema) si arriva facilmente a sostenere che l'immenso bacino di ricchezza materiale e spirituale rappresentato dalle generazioni future non può sussistere senza la morte delle generazioni attuali, e il prolungamento artificiale della vita delle generazioni presenti, fino al limite sublime dell'immortalità, è possibile soltanto attraverso un "congelamento" delle potenzialità della specie allo stato attuale del suo percorso. A queste condizioni verrebbe esclusa a priori la diversità casuale. Per esempio, il filosofo Hans Jonas sostenne fin dagli anni Settanta quanto segue:

Ciò che conta è il fatto che il genotipo prodotto sessualmente è in sé qualcosa di nuovo, di sconosciuto a tutti e che, tuttavia, si rivelerà a coloro che lo posseggono così come ai loro simili. L'ignoranza, in questo caso, è il requisito indispensabile della libertà. Il nuovo  < lancio dei dadi > deve rivelarsi negli sforzi autonomi che compie per vivere la sua vita per la prima e unica volta, deve cioè diventare quello che è nell'impatto con un mondo colto di sprovvista di fronte al nuovo venuto, esattamente come questi è colto alla sprovvista di fronte a se stesso. [xxvii][27]  

 

 

Eppur. si muta

Fin qui il lavoro dell'avvocato del diavolo, poiché non è possibile non partecipare alla sorte comune, ovvero a tutte le singole vicende umane, le quali, al di là delle intenzioni, sono  sempre conchiuse nel breve ciclo delle cinque età. Eppure, non è detto che la  relazione con la morte debba seguire sentieri universali, eterni e immutabili. Alla condizione umana si aggiunge oggi una "condizione connettiva" che dissoda un terreno estetico, che forma una nuova materia immaginifica, forse allo scopo di evitare, per quanto possibile, l'immane impatto di un salto quantico della specie.

Gli antecedenti sono del resto innumerevoli, e non sempre interpretabili de plano. Lo strano caso del dottor Kevorkian e di "Mister Morte" suggerisce che perfino l'applicazione di tecnologie piuttosto semplici può mutare a fondo il rapporto che ciascuno, potenzialmente, può intrattenere con la propria morte. L'eutanasia è infatti un prodotto tecnologico, non è un fatto privato, individuale e volontaristico come il suicidio; al contrario essa è un prodotto sociale mutuato da una banale combinazione fra la farmacopea, l'ingegneria dei servomeccanismi e la tecnologia dei computer. L'eutanasia, inesistente fino a qualche decennio fa, è indubbiamente inscritta non soltanto in una nuova etica, ma soprattutto in una nuova estetica della morte. Prova ne è il fatto che nel classico e poderoso studio di Durkheim sul suicidio (dove tra l'altro, com'è noto, il suicidio è considerato in rapporto al grado di disgregazione sociale, cioè all'anomia) non compare nulla di lontanamente paragonabile all'eutanasia.[xxviii][28] Eppure, un pensatore positivista, e del calibro di Durkheim, sarebbe stato certamente e inesorabilmente attratto dalla strana combinazione etica, estetica e psicologica di un siffatto trattamento medico applicato, per assurdo, ma poi non tanto, alla morte.  

L'eutanasia è appunto un fatto eminentemente sociale, non privato, né personale: ed è quindi un segnale dei tempi che mutano. Ma perché mutano? Mutano, certamente, anche a causa della rappresentazione della morte, ai sottili, perfino ineffabili effetti indotti da strumenti della comunicazione e della ri-presentazione del "reale". Strumenti che trasformano un evento della vita, destinato a permanere soltanto nel ricordo, in un "oggetto" memoriale che può essere ossessivamente ripresentato. La nuda verità della fine della vita, della rigidità del cadavere, della putrefazione, della mutilazione, in breve di tutto il post mortem, questa cruda verità si trasforma in vario modo, assecondando differenti attitudini psicodinamiche e creando uno spazio scenico permanente, entro il quale, lentamente, la rappresentazione della morte cerca la via per tradursi in simulazione della morte. Già verso la metà del quindicesimo secolo il Maestro del Trionfo della Morte rappresenta i cadaveri putrefatti di un cavallo e di un arciere che irrompono sulla scena di un banchetto.[xxix][29] Si tratta però di una presenza invisibile ai soggetti che l'artista ha ritratto. Di visibile c'è soltanto l'effetto dei dardi.

La morte irrompe senza preavviso spezzando l'unità dell'esistenza, frantumando il giochi della vita. Il Trionfo della morte è una grande scenografia teatrale dove la morte, nascosta in una dimensione non visibile agli astanti, sottrae alla scena i suoi attori. Essa, però, non tocca gli spettatori dell'affresco (ora staccato), che al contrario godono del privilegio di potere osservare agevolmente entrambe le dimensioni, il visibile e l'invisibile, l'azione meccanica, fisica, quasi scientifica della morte e i suoi effetti sul mondo. L'universo dei sensi, basato sulla continuità delle trasformazioni e sulla contiguità dei percetti, ne è irrimediabilmente sconvolto. Con la rappresentazione dell'azione della morte entra forse per la prima volta in scena la simultaneità.  

Perché il punto è proprio questo. La simultaneità non  soltanto può congiungere   eventi che avvengono nello stesso istante in luoghi diversi, ma può anche congiungere eventi che avvengono in due o più tempi diversi. Dunque, la simultaneità può essere contemporaneamente (o alternativamente) diacronica e sincronica. Stephen Kern ha notato che queste due caratteristiche della percezione simultanea furono intuite e presto sperimentate agli esordi del cinematografo. E non è affatto casuale che la prima, arcaica tecnologia dell'immagine in movimento sia stata quasi subito applicata per illustrare la permutazione dimensionale, e non soltanto temporale, della vita e della morte:

 

Georges Méliès, un pioniere del cinema in Francia, ricordò un incidente che ispirò una serie di trucchi fotografici sulla pellicola cinematografica. Un giorno, nel 1886, stava girando una scena stradale nella Place de l'Opéra, quando la sua camera si bloccò. Dopo pochi attimi, la rimise in azione e continuò a girare; quando proiettò l'intera sequenza essa creò l'illusione che un omnibus si fosse improvvisamente trasformato in un carro funebre. Ciò suggerì a Méliès svariati altri effetti, che poteva ottenere fermando la camera e cambiando scena. Egli usò questa tecnica in La dama scomparsa (1896), in cui uno scheletro diventa improvvisamente una donna vivente, implicando tanto un salto nel tempo quanto un suo rovesciamento. [xxx][30]

L'irruzione del cinema nel flusso della vita trasformò dunque il tempo in una sequenza, e la vita e la morte in fotogrammi. Non è irrilevante notare che il caso (ammesso che esista) giocò a Méliès uno scherzo "mortale"; infatti l'omnibus, cioè, letteralmente, il "bus per tutti" e di tutti, e in quell'epoca il veicolo moderno per eccellenza, rappresenta la quintessenza della comunità cittadina che si sposta rapidamente da un capo all'altro della metropoli all'interno di un  semovente pratico, veloce, perfino "democratico" e politicamente corretto, poiché, in teoria, esso può trasportare contemporaneamente i rappresentanti di tutte le classi sociali, di ogni plausibile sesso, di ogni colore, di ogni religione o identità politica. Ma questo montaggio casuale, che avrebbe certamente attratto Jung,  trasforma l'omnibus in un altro carro, altrettanto indifferenziato, del tutto analogo al primo anche a causa della sua meta che è una non-meta. L'omnibus che si trasforma in carro funebre è insomma l'equivalente meccanico (meccanico due volte) del destriero della danza della morte che, non visto e men che mai desiderato, irrompe sulla scena del banchetto.

Con il passaggio ormai maturo dalla civiltà delle icone a quella delle immagini [xxxi][31]  si capisce che la celebrazione della morte ormai non può che essere che in forma residuale un dato cinematografico e televisivo. Ciò che oggi prende piede è invece l'invisibile tracciato che ciascuno lascia come una scia nel suo percorso tra i meandri dell'Internet.

Il mutamento antropologico e globale delle comunicazioni elettroniche è del resto annunciato dalla progressiva e inesorabile archiviazione di nobili ma ormai obsoleti media. Così, ad esempio, "Life" is dead: il rotocalco del secolo, copiato infinite volte in infinite varianti, muore nel momento giusto, poiché il suo compito, e quello dei suoi cugini, è ora assolto da un mezzo che non odora più di carta stampata. Con la fine di "Life", all'alba del 2000, si annuncia l'epoca della massificazione del raccapricciante. Ciò che fu negli scatti di Gorge Strock, di Ralph Morse, di Bernard Hoffman, di John Olson, di Cartier-Bresson e di altre innumerevoli celebrità del fotogiornalismo è ora patrimonio di una costellazione pulviscolare di videocamere senza personalità e senza identità. Vediamo all'opera le prime mediazioni fra la richiesta del pubblico e l'offerta di un'estetica della morte di conio del tutto nuovo.

Gli inevitabili effetti delle guerre, i risultati delle atrocità e delle disgrazie, grazie al fotogiornalismo si trasformarono per la prima volta in memoria semiotica della morte: quella vera, quella che colpisce in un istante non preannunciato. A partire dagli anni '30, in America e poi nel mondo, grazie al fotogiornalismo e in virtù della spietata veridicità dell'istantanea, si annunciò l'era della dispersione del senso intimo, metafisico, individuale e incomunicabile della morte; e fu il primo affacciarsi alla ribalta della morte cruenta ma anonima. Eppure, tutto ciò è stato ed è nulla, se paragonato alla fantastica immediatezza coniugata alla totale mancanza di mediazione che si verifica nel Web.

Questo perché la morte, in una civiltà che affida il suo senso all'archiviazione meccanica ed elettronica della memoria, per risultare attraente, o accattivante, deve essere "raccontata" nella sua essenza dinamica. Può quindi anche essere raccontata per iscritto, ma a patto che sia condita di stile e che sia, cioè, ricondotta a un genere, per esempio al genere del romanzo giallo o all'articolo di cronaca nera. E da qui la massificazione dell'archiviazione della memoria soggettiva..

C'è qualcosa di profondamente sepolcrale nell'attitudine di massa a volere "immortalare" pressoché tutti gli istanti della vita, anche i più banali. Roland Barthes notava che se si osserva una fotografia (ma per estensione ogni immagine riprodotta, anche in Internet) si ha sempre una duplice comprensione del tempo che comprende la catastrofe annunciata, la dissoluzione, la fine, e in una parola la morte:

Come sono vive quelle due bambine (sono vestite come mia madre bambina, giocano col cerchio) che stanno guardando un rudimentale aeroplano che vola davanti a sé; ma al tempo stesso sono morte (oggi): dunque sono già morte (ieri) [xxxii][32]

Ma di fronte all'Internet la duplice e aporetica dimensione temporale della fotografia è davvero poca cosa. Nel Web ogni traccia iconica è di fatto sospesa nel limbo spazio-temporale. Della traccia puoi solo sapere che essa è, appunto, una traccia, un segno completamente distaccato dal suo ipotetico denotato. Parimenti, puoi osservare e desiderare la bella bionda che si offre in un sito di annunci sessuali, ma non potrai mai sapere se essa è già carne morta. Se poi le belle bionde sono sintetiche (come ad esempio la Dietrich virtuale, o Supereva, o la cyberanchorwoman Ananova) i tuoi centri dell'eccitazione vibreranno per sembianze viventi che in realtà non sono mai state vive. Fare l'amore con Lara Croft è un dissolversi nella  pura virtualità, un contare i passi della morte.  

Questo è forse l'estremo scenario, posto al di là delle speranze di vita delle attuali generazioni. Possiamo forse consolarci pensando che per ora    prevale la seduzione della memoria.

L'immensa industria della riproduzione fotomeccanica o videoelettronica sa bene come stimolare l'umanissimo bisogno di rubare l'istante all'oblio, di eternarlo nel sarcofago dell'immagine al fine di perpetuarne il sapore, scongiurando così l'inesorabilità dell'impermanenza.  Un effetto che va elevato all'ennesima potenza quando si ragiona dei riti che cadenzano il viaggio nella vita. In tutte le culture i momenti di transito sono scanditi dal rito, e che si tratti del battesimo o della circoncisione, del matrimonio, della prima comunione o del bar mitzvà (bat mitzvà per le donne) non cambia la sostanza, che è stata a lungo e tempestivamente indagata in campo antropologico e sociologico.

I riti di passaggio, quei particolari episodi che vanno dal conferimento del diploma o della laurea alle cerimonie che sanciscono l'acquisizione di un nuovo status, seguono la stessa logica. Si tratta pur sempre di eventi che introducono una discontinuità in un flusso temporale altrimenti privo di punti di riferimento; un movimento omogeneo e costante, che traccia una differenza, che dunque ostacola la differenziazione, la struttura e l'ordine simbolico.

Com'è noto, Arnold Van Gennep riconobbe per primo che le tre grandi categorie dei riti di passaggio (i riti di separazione, di margine e di aggregazione) hanno lo scopo di facilitare il transito da uno condizione sociale a un'altra nel modo meno traumatico possibile. Ma Van Gennep - e ciò è essenziale - riconobbe che i rituali connessi alla morte sono in generale i più drammatici, i più profondi, poiché, per quanto possano mutare le cognizioni dell'aldilà, l'evento (o l'anti-evento) morte resta un dato universale e manifestamente radicale. Da qui i riti di difesa sempre legati al lutto, poiché i morti non devono agire, non devono interferire, se non in senso benefico e comunque marginale. Soprattutto, ai morti non è consentito di tornare sulla terra, non è loro permesso di mescolarsi ai vivi.[xxxiii][33] Tutto ciò può forse almeno in qualche misura spiegare la diffusa riluttanza a fissare con gli attuali strapotenti mezzi dell'iconicità lo spettacolo privato della morte e del rito funebre.      

La crescente disponibilità di strumenti fotografici e audiovisivi ha rapidamente trasformato il significato dei riti e delle loro rispettive tracce memoriali; ma, come si è detto, l'accumulazione di simulacri memoriali sotto forma di fotografie o video che riprendono scene varie di vita familiare si spinge con riluttanza nei territori dei riti funebri, il che contrasta vistosamente con l'iconomania della civiltà tecnologica.[xxxiv][34] Dietro un atteggiamento di massa che non sembra quasi presentare eccezioni si può supporre l'affioramento di un'ansia diffusa, e dalle fantastiche proporzioni.

Che casa agisce in tal senso? Forse un generale senso di insignificanza. Il potere della tecnologia tradotto in memoria collettiva depotenzia il significato delle azioni dei singoli. Se poi tutto il senso della vita è ricondotto entro i limiti delle azioni possibili è evidente che il limite estremo, la soglia della morte, si trasformerà in un muro psicologico invalicabile. Da qui tanto il tabù della morte quanto la sua carica erotica, che si riflette nella crescente domanda del consumo di "essenza della mortalità", concentrata in forma di immagini cruente, insolite e oscene.     La necrofilia di massa, favorita in misura eccezionale dalle reti informatiche (ed è in ciò un fenomeno simile alla proliferazione dei pedofili, come si dirà) è appunto l'altra faccia della medaglia coniata per onorare il senso della vita, cioè ogni sua traccia, all'interno del medesimo orizzonte della vita.

L'aldilà, che una rilevante parte della cultura scientifica e filosofica   considera una mera ipotesi antiscientifica, un sottoprodotto di culture e visioni del mondo che non hanno più ragione di esistere, è ora, grazie al concorso di tutte le tecnologie, uno scenario di possibilità aperte al mondo: ed ecco che ogni istante della vita si carica  immediatamente di un fantastico potenziale emotivo.[xxxv][35] Un potenziale che deve trovare un suo parafulmine, un suo ricettacolo. Ed è la rassicurante sequenza registrata dei piccoli-grandi atti della vita. L'essenza dell'impermanenza sposa così l'essenza della memoria.

In questo clima di generale invarianza spirituale ogni istante diventa prezioso, ogni momento deve essere bloccato, fissato, chiuso nel sarcofago di quella fisica immutabilità iconografica che esclude per definizione la grande, metafisica bugia della memoria organica. Ma la contraddizione è in agguato.

Dalla diffusa, pervasiva mania della fissazione artificiale della memoria resta in qualche misura al riparo la morte. L'istante del trapasso, l'immediata reazione dei congiunti, e poi il funerale, l'inumazione della salma o le altre consimili pratiche di sparizione e di occultamento, davvero raramente vengono ripresi o fotografati. Sembra quasi che la fotocamera e la videocamera non abbiano un reale diritto di asilo in simili circostanze, se non in tutti quei casi in cui la morte assume un qualsiasi significato pubblico, anche locale; è ovvio che la reticenza dei familiari non è originata da una percezione del cattivo gusto, poiché, se così fosse, si dovrebbe supporre una analoga percezione estesa a tutte le circostanze ritenute sconvenienti o riprovevoli in un dato ambiente.

Ma allora qual è il discrimine? C'entra forse l'incontestabile e definitiva estraneità del defunto, il radicale commiato dalla dimensione sociale?  Se davvero fosse così la morte non assumerebbe l'aspetto di uno dei perni della realtà sociale, come accade ad esempio quando essa produce quella particolare struttura della differenza che definiamo "memoria". Per assurgere alla dimensione di oggetto memoriale la morte deve essere sempre in qualche misura eccezionale. La chiusura di un cerchio fissa geometricamente il cerchio. Analogamente, la fine della vita fissa definitivamente la memoria, poiché soltanto la persistenza della vita introduce nuove differenze, nuove scelte, nuove incognite. Se invece è un dramma collettivo, se la morte irrompe a causa di una catastrofe naturale, di una guerra, di un genocidio, la chiusura del cerchio si traduce immediatamente in storia. Se, invece, la morte è semplicemente la fine di una vita individuale, essa appartiene alle personalità che occupano un posto nella storia, a vari livelli.

L'appannaggio dell'eccezionalità può anche rivestire la persona comune, ma a condizione che la sua fine rientri nella casistica dei fatti degni di nota.  In tutti questi casi la morte è  affannosamente ripresa e commentata dai media, ma sempre  nella sua presunta e perenne eccezionalità, quindi, come un elemento della narrazione.

La prima, la morte collettiva, la morte che falcia indiscriminatamente ricchi e poveri, giovani e anziani, la morte che estingue persone di ogni religione o razza in una sola possente stretta calamitosa, quella morte è sempre una morte anonima. Senza il marchio dell'anonimato essa non potrebbe occupare lo spazio che invece quotidianamente occupa nei media. Questo genere di esposizione alla morte ha sempre qualcosa di astratto. In tal senso, lo spettacolo sociale della morte riguarda sempre la morte dell'altro, ma di quell'"altro generalizzato" di cui tratta George Herbert Mead.

Ma vediamo cosa accade nel Web: la qualità emotiva della morte televisiva, riscaldata dalla residua attinenza del commento al fatto, diventa al contrario freddissima e astrattissima nell'Internet, dove ogni residuo referenziale non può che dissolversi. E con la freddezza, col distacco, sorge l'ironia. Da qui l'impressionante proliferazione di siti in cui la morte è un soggetto salace, si offre al calembour, diventa commedia semi-seria, motivo di scherno, barzelletta o sogno di una notte di mezza estate (chi scrive ne ha visionato diverse centinaia, per poi rinunciare alla catalogazione).  

Può sembrare una faccenda ben strana, e perfino irriverente. Ma se si considera l'Internet nel suo aspetto ludico, per così dire "sub specie entertainment", come una sorta di palcoscenico universale, dove però tutti sono attori, comparse, macchinisti e spettatori, e dove l'identità sociale è sempre incerta, allora perché stupirsi se spesso la morte perderà la sua ovvia drammaticità? Se si è immersi in un territorio che è a metà strada fra il cielo e la terra, e se si è padroni di circolare in uno spazio che è un po'    sogno  e un po' realtà, se, infine si è contemporaneamente in parte morti e in parte vivi, almeno per alcune ore nella giornata, le ore in cui si sperimenta la "condizione connettiva", la quale è sempre un distacco dalla rete di relazioni "concrete", allora si apre anche la soglia della leggerezza, dell'interrogazione e dell'ironia. Non a caso, Bob Fosse, in quel capolavoro che è All that Jazz (1980) trasformò la morte in un magnifico musical.  L'ironia regna sovrana anche in  Hotel dei due mondi   di Eric Emmanuel Schmitt: un intermondo immaginario (ma poi non tanto) posto fra la vita e la morte. Chissà: forse un autore-filosofo del calibro di Schmitt ha voluto anche segnalare la nuova estetica della condizione connettiva, poiché nell'Hotel dei due mondi, gli attori (a metà fra la vita e la morte) sono contemporaneamente disincarnati ma hanno carne e ossa, sono attivi e volitivi  ma in un ambiente che volge alla passività, quindi favorevole alla ricezione. E ancora, sembrano progettare in futuro, ma in realtà "rielaborano" il proprio passato. Tutto questo, però, produce una comunione di anime che nella vita concreta è insolita, se non impossibile. In ogni caso, nelle parole dell'autore le persone che tornano da lì sono diverse: più forti, più serene, ritrovate. E sovente analoga è l'esperienza nel Web, dove i sentimenti e le sensazioni spesso sono. senza gravità. Cosicché è facile, per il suo tramite, operare una sorta di catarsi aristotelica, sollevando e purificando l'animo dalle umane passioni, e dagli umani dolori, perfino con ironia.

Così non è nella vita reale, dove ciò che resta, e che resiste a dispetto di tutto, è la morte del congiunto, l'inequivocabile sparizione della presenza. A questa "serietà" della morte l'ultramodernità (che si incarna ad esempio nel fenomeno dell'urbanesimo) risponde con un altro tipo di "serietà". Ed è la serietà dell'efficienza. La morte della persona cui si è legati da affetto deve essere allora ridotta a puro incidente di percorso. L'efficientismo delle esequie metropolitane obbedisce appunto a questa logica: ridurre, ricondurre, minimizzare e infine espellere la morte dalla scena sociale. E ciò perché la relazione con l'umanità della morte minaccerebbe alle fondamenta l'ordine servomeccanico, e si insinuerebbe nella trama dell'edificio astratto della funzionalità, il cui unico scopo è salvaguardare la rapidità del flusso delle merci e dei servizi.

Dunque, la sola esperienza possibile della morte, la morte di qualcuno a cui si è stati profondamente legati in vita, evento nei cui confini si può sperimentare un riflesso della finitezza ma anche della preziosità di ogni legame vitale, finisce con l'assurgere al rango di una minaccia sempre in agguato. L'esperienza vicaria della morte personale è infatti estranea alla dimensione collettiva, mentre è strettamente connessa alla dimensione sociale. Da qui l'assenza delle telecamere e delle fotocamere nel recinto della morte di un congiunto, di un amico o di un maestro.

Laddove questi stessi strumenti riescono a insinuarsi nella pratica rituale si è di sicuro in presenza di una alterazione del senso umano e spirituale dell'evento. La tecnica cattura immagini e suoni, ma quando tocca la morte essa traduce queste stesse immagini e quei suoni in idoli, il cui possesso, mai saturato, richiede l'acquisizione costante e incrementale di altre immagini, di altri e sempre nuovi idoli.

Non può perciò destare alcuno stupore la morbosa attenzione che le masse rivolgono alla morte dei divi, pasto macabro collettivo che unisce il destino ultimo di Marylin Monroe a quello così diverso, eppure così uguale, di Lady Diana. In queste morti eccellenti, spesso violente e, malgrado la loro intrinseca banalità, sempre emblematiche, è infatti all'opera un immane tranfert collettivo, che attraverso il destino ultimo degli idoli mediatici del momento espelle dalla vita dei comuni mortali la presenza incombente e ineluttabile della fine.[xxxvi][36]

La televisione drammatizza la morte meglio e più efficacemente di ogni altro medium. Il Web, al contrario, la sdrammatizza.

Si può anzi affermare che la televisione informa soprattutto e prima di ogni altra cosa sulla morte. Ed è vero che tutto, o quasi, finisce prima o poi sul piccolo schermo, ma soltanto lo spettacolo della morte occupa lo spazio televisivo sempre e in ogni circostanza. Giorno dopo giorno, telegiornale dopo telegiornale, questo medium che per varie ragioni sta per tramontare diffonde la sua dose quotidiana di incidenti mortali, di sciagure apocalittiche, di cataclismi naturali. In Tv (è certamente banale ma non inutile ricordarlo) omicidi, suicidi, esecuzioni capitali o anche morti misteriose, inconsuete, straordinarie occupano il posto di primo piano. La "real tv" è anch'essa, innanzi tutto, spettacolo della morte e per la morte. In un mondo opulento, che destina alla morte per denutrizione o per malattia quarantamila bambini al giorno, oltre quindici milioni di bambini all'anno, senza nulla dire degli adulti che fanno la stessa fine, la televisione svolge l'efficiente ruolo dell'esorcista mediatico che, mentre solletica la cattiva coscienza degli occidentali, contemporaneamente la placa. Il dire e il mostrare sono infatti efficaci surrogati del fare.

Ma nella condizione connettiva, dove tutto cambia, anche la morte cambia. La sua realtà si fa certo più elastica, ma anche meno ossessiva, il suo significato implicito, cioè il senso ineluttabile della fine, si frantuma in mille, in diecimila significati: nessuno egemone e ciascuno accettabile, perfino il più estremo, poiché in Internet nessuno, neppure i grandi criptofascismi dei servizi segreti o dei poteri occulti, può imporre una qualsiasi weltanschauung. Se il Web si sta trasformando in un metaverso imponderabile e senza gravità anche la morte in esso si fa leggera e quasi non grave, anzi "antigrave". Ma dall'altra, grazie all'Internet, più pesante, più articolata e più complessa diventa la memoria, che della morte è parente prossima. E così tutto muta sotto i piedi, davanti agli occhi e nel cuore dell'infelice razza.

 

[xxxvii][37]


[i][1] PHILIPPE ARIÈS, L'uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Paris 1977, trad. it. di Maria Garin, Mondatori, Milano, 1993, p. 660.

[ii][2] GEOFFREY GORER, Death, Grief and Mourning in Contemporary Britain, Doubleday, New York, 1965.

[iii][3] PHILIPPE ARIÈS, op. cit., p. 683.

[iv][4]  MARGARET MEAD, Male and Female, 1949, Maschio e Femmina, Il Saggiatore, Milano, 1962, trad. it. di Maria Luisa Epifani e Roberto Bosi.

[v][5] MICHEL VOVELLE, La mort et l'Occident de 1300 à non jours, Paris, 1986, La morte e l'Occidente. Dal 1300 ai giorni nostri, trad. it. a cura di Giovanni Ferrara degli Uberti, Laterza, Bari, 2000, pp. 686-687.

[vi][6] FILIPPO TOMMASO MARINETTI, Quarto d'ora di poesia della X Mas. Musica di sentimenti, (1944), in Futurismo e Fascismo. Manifesti e programmi, a cura di Valerio Zecchini, Planetario, Bologna, 2000, p.107.  

[vii][7] RUDOLF OTTO, Das Heilige: über das Irrationale in der Idee des Goettlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, 1917, trad. it. Il Sacro, Feltrinelli, Milano, 1966.

[viii][8] ERNESTO DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Einaudi, Torino, 1958.

[ix][9] PAUL-LOUIS LANDSBERG, Essai sur l'expérience de la mort et Le problème moral du suicide, Ėdition du Seuil, 1951, Il silenzio infedele. Saggio sull'esperienza della morte, trad. it. di Gabriele Piana, prefazione di Virgilio Melchiorre, Vita e Pensiero, Milano, 1995, pp. 30-31.

[x][10] JACQUES DERRIDA, Mémoires pour Paul de Man, 1988, Memorie per Paul de Man. Saggio sull'autobiografia, trad. it. di Giovanna Barradoni e di Enzo Costa, Jaca Book, Milano, 1995, pp. 45-46.

[xi][11] WERNER FUCHS, Todesbilder in der modernen Gesellschaft, Frankfurt am Main 1969, Le immagini della morte nella società moderna. Sopravvivenze arcaiche e influenze attuali, Torino, Einaudi, 1973, p. 96 e sgg. ; G. S. HALL, Thanatophobia and Immortality, in "American Journal of Psychology", 26, 1915, p. 582 e sgg.

[xii][12] E. BECKER,  The denial of Death, New York, Free Press, 1973.

[xiii][13] Il neologismo "eutamnesia" , a quanto mi risulta, è stato coniato da Patrick Rizzi,  mio allievo del corso di Antropologia culturale presso l'Accademia di Brera, e costituisce il titolo della sua tesi di laurea.

[xiv][14] SIGMUND FREUD, Al di là del principio di piacere, in Opere, a cura di Cesare Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1989,  vol. 9, p. 224.

[xv][15] WILLIAM  R. CLARK, Sex & the Origin of the Death, Oxford University Press, 1996, Sesso e oridini della morte, trad. it. di Diego Rossi, McGraw-Hill Libri Italia, Milano, 1998, p. 41.

[xvi][16] Ibidem, p. 67.

[xvii][17] MAX SCHELER, Tod und Fortleben, in Schriften aus dem Nachlass, a cura di Maria Scheler, Bern, 1957, p. 22.

[xviii][18] ISAAC ASIMOV, The Bicentennial Man, 1976, L'uomo del bicentenario, trad. it. di Beata della Fratina, in Tutti i racconti, vol. II, Mondatori, Milano, 1992, pp. 574-609.

[xix][19] ISAAC ASIMOV, Tutti i miei robot, Mondatori, Milano, 1989.

[xx][20] MARK DERY, Escare Velocity - Cyberculture at the end of the century, 1996, Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio, trad. it. di Mirko Tavosanis, Feltrinelli, Milano,1997.

[xxi][21]  ABRAHAM B. YEHOSHUA, La morte del vecchio, 1957, trad. it di Alessandra Shomroni, in Tutti i racconti, Einaudi, Torino, 1999, pp. 3-18.

[xxii][22]  ALDO CAROTENUTO, L'eclissi dello sguardo, Bompiani, Milano, 1997, p. 50.

[xxiii][23] JEAN CLAIR, Méduse. Contribution à une anthropologie des arts du visuel,  Gallimard, Paris, 1989, Medusa. L'orrido e il sublime nell'arte, trad. it. di Valeria La Via e Giancarlo Ricci, Leonardo, Milano, 1992,  p. 39.

[xxiv][24] PAOLO MAURENSIG, Canone inverso, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1996, I ed. I Miti, 1997, p. 130.

[xxv][25] MIGUEL DE UNAMUNO, Del sentimiento tragico de la vida en los hombres y en los pueblos, 1913, Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, trad. it. di Maurizio Donati, SE, Milano, 1989, p. 221 e sgg.

[xxvi][26] PIERRE TEILHARD DE CHARDIN, Le phénomène humain, 1955, Il fenomeno umano, il Saggiatore, Milano, 1968, p. 429.

[xxvii][27] HANS JONAS, Philosophical Essays, from Ancient Creid to Thecnological Man, 1974, Dalla fede antica all'uomo tecnologico. Saggi filosofici, trad. it. di  Giovanna Bettini, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 245.

[xxviii][28] ÉMILE DURKHEIM, Le suicide. Étude de sociologie, Paris, Alcan, 1897, Il suicidio. Studio di sociologia, Torino, UTET, 1969.

[xxix][29] GLAUCO MARIA CANTARELLA, I monaci di Cluny, Torino, Einaudi, 1977, pp. 141-178.

[xxx][30] STEPHEN KERN, The Culture of Time and Space 1880-1918, Harvard University Press 1983, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 39.

[xxxi][31]  ROSARIO ASSUNTO, No, questa non è la civiltà dell'immagine, in «Mass Media», a. X, n. 5, novembre-dicembre 1991, pp. 5-18.

[xxxii][32] ROLAND BARTHES, La chambre claire. Note sur la photographie, 1980, trad. it. di Renzo Guidieri, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1980, p. 96.

[xxxiii][33] ARNOLD VAN GENNEP, Le rites de passage, Paris 1909, I riti di passaggio, trad. it. di Maria Luisa Remoti, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, pp. 127-144.

[xxxiv][34] SIEGFRIED KRACAUER, Die Photographie, in Das Ornament der Masse. Essays, Frankfurt am Main, 1963, p. 34 e sgg.

[xxxv][35] VITTORIO MESSORI, Scommessa sulla morte. La proposta cristiana: illusione o speranza?, SEI, Torino, 1982, p. 120.

[xxxvi][36] Cfr.: ALBERTO ABRUZZESE, Metafore della pubblicità, Costa & Nolan, Genova, 1988; ROLAND BARTHES, Miti d'oggi, Einaudi, Torino, 1974; JEAN BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, op. cit. p. 61 e sgg.; GUY DEBORD, La società dello spettacolo, Baldini & Castaldi, Milano, 1997; G. DEBORD, Commentari alla società dello spettacolo, SugarCo, Milano, 1990; GILLO DORFLES, Il feticcio quotidiano, Feltrinelli, Milano, 1988; MARIO PERNIOLA, La società dei simulacri, Cappelli, Bologna, 1980; ANDY WAHROL, La filosofia di Andy Warhol, Costa & Nolan, Genova, 1998.

 

Logo Parol
© 1985/2003 Parol - quaderni d'arte e di epistemologia
Per qualsiasi utilizzo delle risorse presenti sul sito contattare la redazione
Site designed and managed by Daniele Dore