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Analisi testuale:

Gli occhi sul samovar di Lorella Pagnucco Salvemini.

Bruno Rosada

Il linguaggio.- La prima cosa che colpisce, lette le prime pagine di questo libro di Lorella Pagnucco Salvemini[1], più ancora della narrazione pur appassionante, è la qualità del linguaggio. Un linguaggio terso e levigato, che si presenta come controllato, controllatissimo, tale da giocare anche sulle piccole varianti rispetto al linguaggio comune col quale ambisce a non confondersi, con un atteggiamento aristocratico, che si addice perfettamente all'io parlante, che è poi il personaggio protagonista, baronessa Tat'jana Michajlovna Mirskaja, sposa al principe Aleksandr Vladimirovič Ivanov. Per fare un esempio (significativo, perché si riferisce ad una circostanza linguistica apparentemente insignificante), ad un certo momento invece di dire, come si fa sempre, "qua e là", dice "qui e là" [p. 19); siamo al "degrée zero" di questo tipo di scrittura; più avvertita l'aggettivazione. Si prenda un passo a caso:

"Le belle - imprudenti - mani di Jurij sulla tastiera: morbidi arpeggi, movimenti brumosi e concitati subito spenti nei rintocchi lenti e gravi di uno struggente pianissimo" [p. 34],

dove l'effetto reale anche lievemente onomatopeico di questi "rintocchi lenti e gravi di uno struggente  pianissimo", non a caso posto in chiusura del periodo, quasi a spegnersi lentamente, lenisce lo stupore di quelle mani "imprudenti" (come possono esserlo, sulla tastiera?) e più ancora di quei movimenti "brumosi" (perché brumosi?). Eppure questa elaborata strategia di scrittura si presenta al tempo stesso col carattere della più assoluta naturalezza, la naturalezza di chi, come la baronessa Tat'iana, ed evidentemente anche di chi l'ha posta in essere, si esprime così per atavica consuetudine. Qualcosa di molto simile a quell' "insieme fortuito di parole capace di far breccia nella sua anima". Dove il "fortuito" è tale per chi parla (o scrive), proprio in virtù della naturalezza con cui vengono scelte le parole, non certo per chi ascolta, vista la "breccia". E così gli interrogativi "perché imprudenti le mani?", "perché brumosi i movimenti?" restano senza risposta, ma nella comunicazione scrittoria lasciano come una sorta di scia di natura emotiva, sensazioni, stati d'animo, la semantica della connotazione. Ecco la "breccia". E quindi questo linguaggio da "sophisticated lady", che potrebbe riuscire difficoltoso ed oscuro, invece, "fa breccia" sul lettore; e la lettura è gradevole e appassionante. Si potrebbe continuare con questo tipo di analisi: dalla elaborazione della materia fonica con l'elegante sapiente ritmarsi di vocali chiare e scure di consonanti aspre e dolci fino alla costruzione del periodo, dove la concatenazione dei concetti sostiene le più divaganti argomentazioni (l'ultima parola di una frase si lega alla prima della successiva), tutto concorre a dare questa sensazione, la naturalezza con cui si sostiene un livello "alto", la naturalezza della raffinatezza, perché questo accade quando la raffinatezza è naturale.

E l'autrice, nella persona dell'io narrante teorizza questa procedura.

".in letteratura può capitare di cogliere, qui e là, una frase pregnante, rivelatrice.  Di capire perché un vocabolo o un verbo siano stati preferito ad altri. Di ascoltare il ritmo, profondo o appena suggerito di un periodo [.]. Vibrazioni d'anima che accendono e si danno, trasformando una combinazione di parole come di note in qualcosa che non serve tanto a designare un concetto quanto a tradire un'emozione". [p. 26]

E le parole di Lorella Pagnucco Salvemini veicolano soprattutto emozioni tanto da dare alla scrittura l'andamento di un poema in prosa.

Ma la messa a punto del messaggio (Einstellung, per usare una tradizionale espressione jakobsoniana) presuppone un messaggio, e se c'è una priorità da accordare, questa va data al messaggio. "Odio il verso che suona e che non crea" diceva il vecchio poeta; e questo vale a maggior ragione per la prosa. E nel romanzo di Lorella Pagnucco Salvemini il ruolo del messaggio è intenso e complesso; e se il linguaggio è controllato, esso è perfettamente aderente alla materia, come la superficie di un corpo al corpo stesso. E la complessità del contenuto, che ancor essa avrebbe potuto essere elemento negativo, e che in ogni caso costituisce per l'autrice una difficoltà da superare, diventa una valenza forte ed un elemento portante dell'elegante armonia dell'opera per il "modo" in cui è costruito. Ma andiamo per ordine perché una complessità va dipanata, i suoi elementi vanno esaminati prima partitamente e poi nelle loro reciproche interazioni.

Il contenuto della forma.- C'è un alitare di immagini e di situazioni immediatamente al di sotto di questo linguaggio, che in qualche misura ne costituisce lo châssis. Immagini e situazioni vanno esaminate separatamente anche se la dimensione diaristica, che viene ad esplicitare la realtà della coscienza dell'io narrante, ne sottolinea in primo luogo la misura psicologica.

"In fondo, noi cantastorie fuori epoca passiamo il tempo creando artifici, tessendo trame, costruendo e distruggendo destini che pendono dalle nostre mani come fossero quelle temibili delle Parche, o quelle giocose e irriverenti di un burattinaio. Per scoprire successivamente, quando caliamo il sipario e tutto è accaduto, la finzione volge al termine e i personaggi, fiaccati dall'illusione di vita che abbia­mo regalato loro, si accomiatano, che invece è sem­pre e solo di noi stessi che abbiamo scritto. Di ciò che è, sarà, avremmo voluto o non voluto che fosse. [p. 25]

".invece è sem­pre e solo di noi stessi che abbiamo scritto ". Questo non significa che sia legittimo parlare di autobiografismo a proposito di questo romanzo: l'autobiografismo nella narrativa, soprattutto contemporanea, c'è sempre e non c'è mai, perché il protagonista è sempre e comunque l'io narrante, che però si oggettiva e si fa personaggio anche frantumandosi in differenti atteggiamenti e caratteri. C'è quindi un distacco, che sempre sussiste soprattutto nei testi in prima persona perché è posto in essere da questa inevitabile oggettivazione, fra l'autore implicito e l'io narrante, che è un personaggio, anche se il primo dei personaggi.

Quanto poi all'autore in carne ed ossa, che sarebbe il motore del carattere autobiografico, esso è sempre un'altra cosa: tanto per fare un esempio il Seneca moralista, la voce più alta della moralità antica, ha ben poco da spartire col Seneca in carne ed ossa, amante di Livia Drusilla, intimo amico di Agrippina e probabile manutengolo di Nerone.

Ma il problema non è questo, di stabilire l'entità della carica autobiografica del testo, quanto di definire ciò che è, sarà, avremmo voluto o non voluto che fosse ". Questa è la chiave di lettura, forse di ogni romanzo, certo di questo romanzo, cioè le immagini e le situazioni. Le immagini sono poche, e si presentano per lo più legate alle situazioni e perciò sono estremamente significative.

"Un disordine sparso di immagini sfuocate, che riaffiorano così, alla rinfusa, senza cronologia e senza nesso". [p. 23]

Sono prevalenti i ritratti, come quello del secondo marito: 

"Quel primo giorno, quando entrai in quel locale sul porto sorpresa da un acquazzone improvviso -ansimante, infreddolita, gli abiti incollati al corpo, i capelli gocciolanti, le scarpe fradicie - non notai nulla: gli apprezzamenti volgari dei marinai, il suo abbigliamento così raffinato e fuori luogo.

Solo quegli occhi grigi e cupi come l'Atlantico d'inverno, affascinanti da far paura. E quella avve­nenza eccessiva e tuttavia con un che di malinconi­co, da dio greco in esilio, che poteva solo commuo­vere o ferire."[p. 9]

Dove la situazione sembra essere puramente ambientale, descrittiva, ma è invece intensamente psicologica, anche perché è immediatamente preceduta da una delle poche metafore del libro.

"Non so perché sposai quel giovane dai modi bru­schi e dal sorriso infantile, incontrato per caso in un bar equivoco di Brest. Se per passione, solitudine, pietà, collera, o se per altri motivi, assieme più pro­fondi e sfuggenti, che non capirò mai perché è sem­pre difficile capire una vocazione alla sofferenza. Mi sarei trovata ad amarlo nello stesso modo con cui amavo le sponde di quel suo oceano così spesso in burrasca, dalle maree abnormi, spaventose, ecci­tata dalla forza della natura quando si ribella e, presto, stremata dalla sua violenza." [p. 9]

Si tratta di una metafora semplice, esplicita: il suo modo intimo, privato, psicologico, di vivere quell'amore messo a confronto con la sensazione di un suo amore per l'oceano con le sue caratteristiche eloquenti e pittoresche.

Anche il rapido ritratto di Ol'ga Petrovna, l'amante di suo padre, è incastonato nel dettagliato ritratto del padre e collegato al ricordo della madre.

"Ma Jurij e io siamo stati a lungo gelosi di una tale contessa Ol'ga Petrovna, una compagna di collegio di nostra madre, donna di una bellezza delicata e come friabile, che sembrava trarre un giovamento sospetto dalla prolungata ospitalità in una dacia non poi abbastanza confortevole." [p. 46]

E anche qui poi è esplicitamente dichiarato lo stato d'animo dell'io narrante.

Le situazioni invece sono molto più esplorate. Si veda per esempio nelle due pagine 72-73, l'accurata analisi della morte della figlia, dall'immediato precedente "Mi trovavo a Ginevra per un ciclo di conferenze."[p. 72]. Anche qui l'esposizione dei fatti è preceduta e seguita da indicazioni di ordine psicologico

"Una di quelle persone, nemmeno rare, che l'incontro con la sofferenza, anziché migliorare, peggiora". [p. 71]

E' detto della figlia, e questa circostanza, unita alla situazione che è in punto di morte, illumina sullo stato psicologico della madre: che si manifesta nella tremenda  serie di "forse, avrei dovuto" dove la virgola posta dopo il forse, è richiesta non già dalla sintassi, ma proprio dalla psicologia, quasi a staccare l'incertezza iniziale dalla definizione, sia pure col verbo al condizionale, dei doveri non assolti.

La forma del contenuto.- La "forma del contenuto" del libro è il flusso di coscienza, una catena di ricordi immersi in riflessioni e considerazioni, una lunga meditazione nella quale una eccellente capacità narrativa si associa alla penetrante introspezione di sé e degli altri, una indagine psicologica che si colloca immediatamente al di sopra di un altro e più profondo strato che è costituito dal plafond filosofico. L'io narrante è un'anziana esule russa fuggita in Occidente al tempo della rivoluzione.

Ma la narrazione è condotta con astuta sapienza: basti pensare che il nome della narratrice e protagonista della vicenda è detto solamente a p. 23. E d'altro canto questo è ovvio; chi scrive nel testo di un diario il suo nome? Ancora una volta la naturalezza prevale in questo delicato equilibrio tra realtà e raffinatezza.

La situazione iniziale è descritta nell'incipit con particolare intensità, così da indicare con consistente precisione l'età e la filosofia della protagonista.

Ieri ho passato tutta la serata a mettere in ordine le fotografie. Poi, a letto, ho sorriso all'idea che, forse, si trattava di un tentativo come un altro per mettere ordine nella mia vita.

Alla mia età, per quanto condizioni di salute ancora soddisfacenti inducano a procrastinare il pensiero della morte, bisogna pure cominciare a prepararsi.

Ho iniziato con un atto di vanità femminile che può stonare in una anziana signora. Volevo distrug­gere le immagini peggiori, quelle che contraddico­no il ricordo di essere stata, un tempo, bella. Ho sempre tenuto alla bellezza come a una qualità dello spirito, un valore che dalla superficie della pelle va dritto alla profondità di una creatura. Leg­gendo nell'armonia di un corpo l'equilibrio di una mente e nell'imperfezione fisica un difetto dell'a­nima.

Così, stanotte, mentre credevo di voler salvare solo ritratti piacevoli, stavo invece cercando di libe­rarmi da quel dolore che le fotografie liquidate per malriuscite mio malgrado svelano.

E incredibile quanto si diventi brutti quando si è infelici. Se alla fine mi sono astenuta dal gettarle nel camino, era per non bruciare me stessa assieme a loro".  [p. 7]

La narrazione, collocata all'incirca negli anni sessanta del Novecento, da quanto è possibile congetturare, si riferisce a vicende e a personaggi di trenta quarant'anni prima. E questo consente alla scrittrice di realizzare una delicata opera di ricostruzione storica: il clima psicologico e culturale di quegli anni. E il rapporto tra avvenimenti storici e vicende personali è strettissimo:

A persone come me, la Rivoluzione farà sapere cosa significa sradicamento, non avere più casa, fratelli, amici, posti e oggetti in cui riconoscersi. [p. 30]

Il telaio della vicenda è costituito essenzialmente dalla natura dei rapporti interpersonali. L'io narrante precisa la sua intenzione che l'ha "votata alla scrittura", quella non tanto di "raccontare gli esseri umani", ma di "rovistare nella loro anima". [p. 32]

I personaggi.- Con una delicatezza estrema la protagonista parla del suo comportamento irregolare e trasgressivo: due mariti, peraltro regolari questi, perché il secondo, omosessuale, lo sposò dopo la morte del primo, molto più vecchio di lei (lo aveva sposato a sedici anni), un certo numero di amanti, una relazione incestuosa col gemello in età adolescenziale, due o tre relazioni lesbiche. Una figlia, Lili Aleksandrovna, morta da poco, con la quale ebbe rapporti quasi burrascosi di una pesante ostilità e di assoluta incomprensione, un nipote mai visto, figlio di questa figlia, Vasilij, omosessuale anche lui e musicista: personaggi inquietanti e perturbanti.

Ed è questo nipote l'oggetto del suo amoroso interesse.

Penso a Vasilij con il rimpianto per tutte le tenerezze mancate. Per tutte le volte che non l'ho stretto al seno, per i baci mai dati e i sorrisi mai ricevuti. Non ho mai sentito il suo pianto, il suono della sua voce, l'odore della sua pelle. Non c'ero a incoraggiarlo quando vacillando azzardava i suoi primi passi, o la prima volta che si è seduto di fronte a un pianoforte. [p. 13]

E Vasilij, finché la madre è vissuta, è stato in contrasto con lei, così come lei, Lili Aleksandrovna, fu sempre in contrasto con la madre Tat'jana, la protagonista della storia, l'io narrante. La storia di Lili meriterebbe un altro libro, tutto per lei, nella sua drammatica inverosimile realissima verità.

Adolescente, educata in collegio ad una avvilente e morigerata normalità, vedeva in me tutto ciò che non avrebbe mai voluto diventare. Credo mi odiasse. Ad affliggerla il  mio uso disinvolto della bellezza, tanto quanto il suo era goffo e mortificante. Poi gli amanti, che infrangevano il suo sogno di un unico ed eterno amore. Il gioco d'azzardo che condannava più per chissà quale notte di lussuria che presumeva seguisse a un incontro di chemin, che non per il denaro perso.

Ma sentivo che il disprezzo di Lili Aleksandrovna non era così puro. Semplicemente, rifiutava di me quanto temeva potesse all'improvviso esplodere in lei. [p. 11]

Eppure proprio questa personcina dedita e devota ad una "avvilente e morigerata normalità",  che "passava algida e distaccata" accanto ad ogni nuovo amante della madre fuggì con l'ultimo di costoro "una bella mattina di una primavera precoce". La madre racconta i fatti, non fa una piega; con superiore signorilità, o meglio con "sprezzatura signorile", come direbbe Alessandro Manzoni. Unica osservazione, questa:

"Mai uno scritto, né una telefonata. Nemmeno il conforto che fosse l'amore a spingerli l'uno fra le braccia dell'altro". [p. 17]

Ebbene questa figlia irreprensibile (quasi), divenuta con questa fuga la moglie di un rampollo dell'altissima aristocrazia industriale tedesca, parente dei Krupp, finisce male.

"Una drogata, una nazista, anzi peggio, l'amante di uno dei massimi esponenti del nazismo" [p. 20]

Il rapporto tra madre figlia e nipote costituisce la struttura portante del sistema dei personaggi. Gli altri sono accessori nella sostanza, ma essenziali per la costruzione di una serie di elementi concentrici, a partire dalla psicologia, ma soprattutto dalla visione del mondo e della vita dell'io narrante, Tat'jana.

Ed essi sono, nell'ordine, il fratello gemello, il primo marito, un fugace amante padre di Lili, principe Aleksandr Vladimirovič Ivanov, "abbastanza vecchio e distratto per non accorgersi, eventualmente, di una verginità perduta, abbastanza uomo di mondo e saggio per non darci, eventualmente, peso".[p. 34],  il secondo marito, André, "troppo bello per desiderare le donne" [p. 9]

Il rapporto col fratello gemello è un amore fortissimo e non propriamente fraterno; la narrazione insinua infatti qualcosa di più di un sospetto, diciamo una certezza appena velata, volutamente mal dissimulata, che ci sia stato da giovanissimi un rapporto incestuoso.

Dicono che i gemelli siano dei fratelli speciali, uguali nel corpo, uniti in tutto e per sempre. Era­vamo due gocce d'acqua, Jurij e io. Mostruosamen­te identici in fasce, in seguito distinti dagli abiti e da qualche sfumatura del carattere. Con un che di ombroso, lunatico, fragile, il suo. Solo un poco meno debole, volubile e riflessivo, il mio. Più fem­mineo lui, più maschile io - un accenno appena - e ancora non ce ne accorgevamo. Vivevamo delle reciproche gioie e delusioni, incuranti della morbo­sità di quel nostro amore che esplodeva cosi natu­rale da sembrarci perfino puro. Come i primi, de­licati versi che gli dedicavo - messaggi di fantasie e desideri altrimenti indicibili infilati sotto il suo cu­scino, attendendo che la notte li trasformasse in vi­sioni, sospiri e vizi del pensiero." [p. 33]

Più eloquente ancora, pur nelle pieghe di uno linguaggio dissimulatore e reticente e tuttavia allusivo, è quanto accaduto il giorno delle nozze di Tat'jana.

"Ci apparteremo. Una manciata di secondi, anco­ra, a sforzarci di resistere all'imminenza di un atto che si imponeva così semplice, spontaneo, da far scordare della sua gravità. Era il mio gemello, quasi un suo diritto sollevare per primo l'abbagliante piz­zo del mio abito nuziale, in cambio del giuramento solenne che sarebbe sopravvissuto [Tat'jana temeva il suicidio del gemello per gelosia, per il dolore di averla perduta]. Eravamo gli identici - stessi occhi, capelli, sorriso, sangue - ri­petuti, verosimilmente, anche nell'anima e nel de­stino."[p. 35]

Finché sarà data soddisfazione alla curiosità del lettore in un contesto quasi casuale, e successivo: quando (e lo si vedrà tra poco) del suo "primo adulterio" fa riferimento all'"unico amplesso" avuto col fratello.

Ma ancora in quella presenza forte di Jurij in lei (qualcosa di più di un ricordo intenso, una vera e propria immedesimazione) lei trova motivazione e giustificazione per la sua prima esperienza omosessuale:

"E, probabilmente, è ancora per Jurij che in una notte di solitudine, non poi tanto più pesante di altre, scoprirò la voluttà in un corpo di donna.

Tutto è accaduto semplicemente, delicatamente. In un momento di distrazione del pensiero, lascian­do la carne a se stessa. Senza avere il tempo di conoscere i dubbi e le perplessità per un desiderio che altri grossolanamente chiamano perversione.

E irritante sentire che atti, che si possono com­piere in maniera così tenera, naturale, perfino poe­tica, siano prigionieri di una pulsione come in una bestia, o risvolti di un deragliamento della ragione come in un folle. Quegli uomini di scienza, che non sembrano provati da altre passioni all'infuori di quella per la loro disciplina, stentano ad accorgersi che, in fondo, la stessa schiavitù e la stessa pazzia si ripetono puntualmente in ogni amore.

Il mattino successivo proverò stupore, anziché rimorso." [p. 37]

Ed il commento riassuntivo a questa esperienza:

"Ho dunque cominciato ad amare anche le donne. Di più: le donne che supponevo Jurij avrebbe amato". [p. 39]

Ma l'amore e la passione, o meglio la passione d'amore rimane l'elemento dominante della personalità di Tat'jana, pur sempre in qualche modo collegato alla passione (insana?) per il fratello gemello. Così (come si è poco fa accennato) accade per il suo primo "inevitabile" adulterio con Boris Petrovič, "ex studente. Di umile lignaggio, povero, con nessun'altra ricchezza all'infuori di quella dei suoi sogni di poesia e di rivoluzione" [p. 40], dal quale nascerà la sua unica figlia, Lili:

"Fino ad allora avevo creduto che l'amore non fosse altro che un sentimento, una malinconia, quell'oscuro e mai più provato consenso della carne che Jurij mi aveva strappato nel nostro unico am­plesso.

Boris mi insegnerà in tutta la sua forza, profon­dità e tirannia, l'amore dei sensi. Scoprirò il deside­rio e i diversi modi per placarlo. Che la voluttà non è che una fantasia, una illusione di possesso, un sospiro e un gemito rubati a occhi socchiusi. Una pelle lucida, leggermente scura e dal sapore un po' acre, delle labbra esperte, delle mani intelligenti che sanno quello che fanno. Che lusso e lussuria procedono di pari passo, e che nulla avrebbe ecci­tato di più quel ragazzo squattrinato che respirare il lusso." [p. 41]

Ma poi la vita di Tat'jana si impasta di una serie di comportamenti, che la morale comune condanna; "noi curvi frequentatori delle case da gioco, la pelle avvizzita dal fumo dall'alcool e dalle notti sterilmente insonni" [p. 51]

Importante, importantissimo il suo amore per Sarah "giovane suonatrice d'arpa, dalla bellezza un po' cupa ed avvolgente delle ebree" [p. 51]. E' un amore descritto minuziosamente, che finisce tragicamente: Sarah si imbarcherà per l'America per sfuggire alle persecuzioni razziali, ma "i suoi grandi, morbidi, attenti occhi di ebrea [e qui c'è l'eco, la citazione voluta di una celebre lirica di Giacomo Noventa] non vedranno mai la Statua della Libertà" [p. 56].

Ma nella seconda parte sempre più la narrazione si affida al flusso di coscienza, la narrazione dell'amore per Sarah, un richiamo ai genitori, alla madre morta di parto nel dare alla luce Tat'jana e Jurij, al padre che pudicamente celava ai figli la sua relazione con una compagna di collegio della moglie, con cui consolava la sua vedovanza precoce.

La vicenda si conclude con la morte della figlia Lili e con la sorprendente e consolante notizia del ritorno dell'amato nipote Vasilij:

Tremo. Sento di là, e per la prima volta, la voce di Vasja.

Riconosco il timbro leggermente altero di noi Mirskij. L'impazienza, il tono delle richieste formu­late come se contenessero già ordini. E la dolcezza a lungo immaginata. Una sfumatura di timidezza, forse residuo di una stanchezza e una esitazione remote. Una certa gravità, che nel suono sembra riecheggiare una inclinazione dell'anima.

Chiede di me. E non l'avrei mai detto che sareb­be stato lui a cercarmi. Ad arrivare fino a qui, in questa casa sospesa sul mare e sui ricordi e come rassegnata a non ospitare più alcun futuro. Lascio cadere la penna su questi fogli ormai inutili. Fra poco si aprirà anche questa porta ed entrerà lui. Ho paura: sono felice. Che portassero il vecchio samovar. Dopo, dopo, potrò pensare alla morte. [pp. 78-79]

Così finisce questo libro perfetto nella sua struttura; dosato equilibrato nei rapporti interni, "Dove ho trovato di tutto e tutto mescolato: bellezza, orrore, lucidità, follia, passioni nobili che fanno innamorare e ignobili che fanno rabbrividire". .[p. 32]

Il pensiero.- E a questo punto sorge spontaneo un interrogativo impertinente. C'erano tutte le premesse per fare dell'erotismo esplicito, al limite della pornografia. Sarebbe stato sufficiente entrare nei dettagli delle scabrose situazioni vissute dalla protagonista e l'affaire era fatto. Questo invece non accade. Anzi è esattamente il contrario. Situazioni così esplicitamente immorali vengono descritte in forma estremamente pudica, con un linguaggio irreprensibile e letterariamente controllatissimo.

Perché? Evidentemente perché l'autrice non intendeva fare non romanzo erotico. Sono altre e ben più alte le sue intenzioni.

Qui bisogna dire intanto che il libro è pieno di riflessioni "filosofiche", soprattutto etiche, che manifestano chiaramente la visione del mondo e della vita che l'autrice presta all'io narrante. Alcune di queste contengono il messaggio più rilevante del libro, e giustificano ampiamente la sua funzione, anzi più decisamente propongono il ruolo, la funzione civile del letterato.

". in questa impudica professione, che cerca di mette­re a nudo le coscienze prima dei corpi, un modo per diventare morali sta nell'attraversamento del­l'immoralità". [p.32]

Ma questo in realtà non si può fermare alla semplice descrizione dell'immoralità. E infatti c'è un discorso più ampio e più profondo che attesta la qualità di questo libro.

 ".  io ho sempre considerato il male parte della vita, e avuto la fortuna di pensare che il rifiuto dell'uno significhi il rifiuto dell'altra. Gli stupefa­centi non mi hanno tentato, non che in questo possa attribuirmi particolari meriti. Nessuna que­stione di carattere o tanto meno, morale. Solamente, non vedevo perché regolarmi secondo la logica dei divieti e delle trasgressioni: nel momento stesso in cui si infrange una norma, implicitamente, le si riconosce il suo potere. Percepivo che non avrei saputo che farmene di un piacere vissuto nell'inco­scienza. L'esistenza ci riserva già tante illusioni che non mi pareva il caso di aggiungerne altre. Poi, francamente, non credo esista spettacolo più peno­so di un essere dalla mente alla deriva."[p. 20]

In condizioni normali, in un mondo normale, la moralità coincide con l'osservanza della legge; ma quando siamo in una condizione di totale sradicamento, quando mancano i punti di riferimento, quando "sovente il tradito è il vero tra­ditore e il traditore il vero tradito" [p. 67], allora ognuno deve fare appello al suo senso morale interiore e deve inventarsi un comportamento minuto per minuto, davanti a circostanze sempre inedite, impreviste e imprevedibili.

La salvezza sta in questo. Ma a supporto di questa concezione ve ne è un'altra, più profonda: ed è il rapporto dell'uomo col suo destino, la libertà del volere.

Ad un certo momento parla della necessità di accettare "l'indifferenza delle stelle ai destini che pure determinano"[p. 32], che è poi la teoria antica dello stoicismo, ripresa dalla metafora dantesca della "nave che per corrente giù discende"; ma quando giudica il suo vizio del gioco Tat'jana sottolinea tutta l'importanza ed il valore dell'autonomia delle scelte e della libertà del volere. E allora denuncia come una finzione il credere

"che quanto in altri si presentava come vizio, a me fosse arrivato nella forma ineluttabile di una tara ereditaria. Qual­cosa a cui rassegnarmi, come una malattia di fami­glia, una predisposizione all'infarto o a una vista debole [p. 47]

L'assoluzione delle eventuali colpe degli uomini non sta nel determinismo:

"C'era dell'altro e, interiormente, sapevo quanto avrei fatto volentieri a meno di sapere. Che la genetica da sola non è sufficiente e ha bisogno delle circostanze per manifestarsi." [p. 47]

L'assoluzione è un atto umanitario dal momento che

"ogni abitudine nociva non è che il segnale esterno e visibile di un radicato e intimo malessere. Di un vuoto, di uno sprezzo della vita e, nello stesso tempo, di una pro­fonda paura di viverla." [p. 47]

E qui si verifica il messaggio etico di Lorella Pagnucco Salvemini, che consiste nel rispetto per la dignità altrui, in un senso quasi kantiano della responsabilità dell'agire espressa dalle parole  già citate:"nel momento stesso in cui si infrange una norma, implicitamente, le si riconosce il suo potere". [p. 20]

Questo significa che ogni peccato, vizio, delitto, ha delle cause, che non sono necessariamente delle colpe, che per lo più sono sofferenze, disagi, avversità, che indicano alla trasgressione e che motivano il perdono, perché l'uomo è libero e responsabile delle sue azioni, perché l'umanità che è in  noi e che è negli altri dev'essere il fine, non il mezzo delle nostre azioni. 

[1] Lorella Pagnucco Salvemini è una giovane signora molto bella, fine ed elegante, discendente per parte di madre dall'illustre studioso pugliese, Gaetano Salvemini, di cui porta il cognome. Da quasi una decina d'anni dirige assieme a Giancarlo Calcagni la prestigiosa rivista "Arte in", alla cui fondazione aveva partecipato giovanissima, nel 1988, quando però già da un anno aveva pubblicato un dotto libro intitolato "Il linguaggio del corpo".

Al lavoro giornalistico ha poi sempre affiancato quello critico scrivendo presentazioni di numerosi artisti contemporanei, tenendo conferenze presso istituzioni pubbliche e private e partecipando a convegni. Un paio d'anni fa ha pubblicato "Benetton-Toscani: storia di un'avventura, 1984/2000", tradotto in più lingue. Si tratta di un ampio saggio dove si fondono insieme acute riflessioni di sociologia dell'arte e vigorose affermazioni di principi estetici. Ma era ancora fresco di stampa questo importante lavoro, quando Lorella Pagnucco Salvemini sembrò avvertire quasi l'inadeguatezza di una attività intellettuale, quale è la saggistica, sempre limitata dal necessario confronto con l'oggettività del dato e col rigore dell'argomentazione, e si sentì irresistibilmente attratta, pur senza trascurare la sua normale quotidiana attività di saggista, ad una attività diversa, forse superiore, senz'altro più completa: si diede a scrivere un romanzo e ne uscì questo piccolo capolavoro, Gli occhi sul samovar, edito dalla casa editrice Marsilio.

 

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