events
themes
call for papers
ideology busters
links
staff

Home

Nanni Menetti

Opera aperta: un libro fertilmente inutile

Può accadere a volte, a compimento di un qualche nostro lavoro, di concederci il piacere di goderne la buona riuscita lasciando il proprio tempo un poco vuoto di nuovi programmi, limitandoci magari a ripulire qualche cassetto da cose inutili o, anche, a passare con noncuranza in rassegna i libri presenti nella nostra biblioteca, sistemandone qualcuno finito fuori posto o magari non ancora sistemato nel suo settore perché di recente acquisto. E può accadere che qualcuno di questi libri agisca in noi da madeleine proustiana e ci riconsegni icasticamente il nostro passato con tutto il suo sapore e il suo spessore di senso.

Ebbene, è stato in uno di questi momenti che mi son ritrovato casualmente tra le mani Opera aperta, il glorioso libretto di Eco di più di quarant’anni fa, e alla ricerca curiosa e divertita delle tracce sulle sue pagine della mia lettura d’allora s’è inevitabilmente sovrapposta una nuova lettura, quella di oggi cui mi sono lasciato andare di gusto, assillato da una, per me, inevitabile domanda:  che ne è oggi di questo libro e dei problemi che allora con così grande risonanza affrontò? Il sapore del passato era avvincente, pieno di direzioni mentali, di voci e, devo dire, di giovinezza, ma non tale da togliere forza al quesito teoretico appena enunciato. Se si è vecchi sul serio lo si è anche per questa capacità di non lasciare ai ricordi della giovinezza il potere di annientare la giovinezza della vecchiaia e così sono riuscito a non lasciarmi incantare dai ricordi e a rileggerlo, credo, con sufficiente distacco. Almeno credo, ripeto, con il distacco sufficiente a lasciare emergere in sincerità di ragionamento il mio giudizio che rimane per allora quello di allora e per oggi lo stesso di allora, ma aggravato da qualcosa che mi proverò qui a indicare.

Allora lo sentii un libro per così dire fertilmente inutile. Scientificamente inutile agli artisti, da un lato, e agli studiosi dei problemi dell’arte, agli estetologi, dall’altro. Fertile però sul piano retorico a far sì che utilmente ci si familiarizzasse, a livello di senso comune, con un problema reale riguardante l’opera d’arte, con un suo paradosso d’esperienza, che sul piano scientifico il libro non riusciva a spiegare. Ma andiamo con ordine.

Intanto quale era il problema riguardante l’opera d’arte con cui si faceva fatica a familiarizzare?

Lo spiegherei con una vicenda che toccò da vicino un estetologo con cui a volte ho qualche salutare scambio di idee e cioè Luciano Nanni.

In quegli anni Nanni ricevette dalla casa editrice Feltrinelli una raccolta dattiloscritta di poesie con la richiesta di scrivere un’introduzione per pubblicarla. Questo libro era un libro di Vittorio Reta. Si intitolava Visas, passaporti. Nanni non conoscevo Reta, non l’aveva mai incontrato. Nanni lesse il libro, scrisse l’introduzione, la mandò alla Feltrinelli, la Feltrinelli gli disse che per loro andava bene e il libro uscì. Uscì il libro e Nanni ricevette dopo pochi mesi una lettera da Reta in cui Reta gli diceva che era in totale disaccordo con ciò che aveva scritto nell’introduzione circa la sua poesia. Non un disaccordino, ma un disaccordo proprio totale. Allora Nanni gli scrisse che purtroppo egli (Reta) non aveva scampo, gli scrisse che sì, capiva, ma non aveva scampo. Ora, in che senso non aveva scampo Reta? In questo senso: non poteva chiedere due cose contraddittorie, non poteva, cioè, chiedere da un lato che la comunità, a cui voleva far arrivare il libro tramite la pubblicazione e di cui nel caso Nanni fungeva da rappresentante, considerasse poesie i suoi testi e nello stesso tempo pretendere che li leggesse secondo il significato, e solo quello, che egli (Reta) dava ad essi, perché se la comunità lo avesse ascoltato egli sarebbe diventato l’assassino delle sue poesie: avrebbe infatti trasformato il suo libro in una circolare ministeriale. E’ la circolare ministeriale e tutto l’uso del linguaggio in senso pratico ad essa assimilabile che ha un significato solo. Nanni Sottolineò che se tutto ciò che le sue poesie significano fosse stato codificato solo nella interpretazione che egli (Reta) ne dava, perché mai la gente avrebbe dovute leggere le sue poesie? Sarebbe stato sufficiente che ne leggesse l’interpretazione che egli, come autore, ne dava. Non altro. Non aveva senso chiederne una lettura unica e nello stesso tempo chiedere che la comunità le considerasse poesie. Doveva scegliere. Se persisteva nel chiedere che venissero considerate poesie, allora doveva rassegnarsi a ridurre la sua interpretazione a una delle tante possibili.

Questo era ed è tuttora il problema centrale nella vita dell’opera d’arte dal punto di vista comunicativo. La gente allora non si rassegnava al paradosso. Vedeva l’opera fatta di segni e s’aspettava che le succedesse ciò che in linea di principio succede ai tessuti di segni nella vita pratica, che cioè fosse un messaggio, con un significato unico di base, difficile fin che si vuole da cogliere ma uno, e che l’autore ne fosse il legittimo depositario. E invece, a livello critico-interpretativo, ne riceveva la sua disseminazione in una pluralità di significati. La gente faceva fatica ad accettare questa sua inattesa polisemia. In particolare gli artisti, con le sofferenze d’incomprensione e le liti con i critici che si possono immaginare.

Ora questa attesa in gran parte s’è fugata, la polisemia dell’opera è vissuta come fenomeno abbastanza normale e grande merito del libro di Eco fu proprio quello di smantellare a livello diffuso questo ostacolo alla vita propria dell’opera d’arte. La gente, e gli artisti, cominciarono a pensare: se lo dice Eco che l’opera è aperta, Eco che sa tutto (perché, intendiamoci, questo era il modo in cui era recepita la parola di Eco, come se fosse uscita direttamente dall’ombelico di Dio) allora ciò che mi vien da pensare non vale. Le cose staranno così anche se non capisco. Anzi, così devono essere e bisogna darsi da fare perché così siano. Grande merito di Eco, questo rovesciamento in positivo della polisemia dell’opera, ma solo dovuto al potere del suo mito, non ad altro, perché ciò che gli artisti si misero a fare, per stargli dietro, rivela tutti gli equivoci del libro a livello scientifico.

Ad alcuni pittori e romanzieri che, letto questo libro, presentavano a Eco le loro opere chiedendogli se erano “opere aperte” Eco dichiara (pesco dalla sua introduzione all’edizione del libro nei “satelliti” Bompiani del 1967) di essere stato costretto a rispondere con evidente irrigidimento polemico, che di “opere aperte” non ne avevamo mai viste, e che “in realtà probabilmente non ne esistono.” E siamo al primo equivoco teorico.

Ora io mi domando e dico: se gli artisti e i romanzieri si sono sentiti di dover chiedere a Eco quanto sopra circa la struttura della loro opera una qualche colpa sarà pure anche di Eco? O vogliam credere che quegli artisti e romanzieri fossero tutti dei minus habens? Se si son sentiti di poter fare ad Eco quella domanda non sarà perché avranno pensato che l’apertura dell’opera fosse un fatto fisico, riscontrabile nell’opera, nella sua struttura, nelle modalità insomma della sua confezione. Che altro se no? E a chi o a che cosa attribuire la colpa di tale fraintendimento?

Mi piacerebbe tanto, per il pensiero di Eco, poterne dare la colpa agli artisti stessi e al loro pensiero così dogmaticamente concreto da arrivare a vedere tutto in e/o tramite la fisicità dell’opera, ma non me la sento, perché può essere, questa è la tendenza degli artisti, ma Eco per questa strada non è loro secondo.

Ne abbiamo la conferma quando tenta il versante positivo della sua risposta agli artisti, quando cioè nella stessa introduzione citata si prova a ridefinire meglio la nozione di apertura che ha in testa e la slega sì dalle opere concrete ma la attribuisce poi come una direzione dell’arte contemporanea al lavoro di varie poetiche. E qui Eco casca dalla padella alle brace: quella struttura che egli riteneva di aver cacciato dalla porta gli rientra dalla finestra, perché se c’è una caratteristica che è propria delle poetiche, anche nella concezione che egli ne ha (vedi ancora quella introduzione citata) è proprio quella di essere un pensiero che ha il fare come fine e che quindi contempla logicamente la struttura come suo traguardo di senso. Senza questo esito essa non potrebbe nemmeno essere detta poetica. Una conferma? Eccola: “Si è ritenuto di poter individuare in diversi modi di operazione – continua a precisare Eco - una comune tendenza operativa, la tendenza a produrre opere che, dal punto di vista del rapporto di consumazione, presentassero similarità strutturali.” Mah! Che dire?

E poi: Una direzione dell’arte contemporanea, egli dice, e allora non la direzione dell’arte contemporanea ed è qui che Eco dopo aver scontentato gli artisti scontentava allora e scontenta ora anche gli estetologi, coloro che provano in qualche modo a interrogarsi sull’identità dell’arte in generale. O che forse la poesie A Cesena di Marino Moretti, scritta in linguaggio quotidiano, è meno aperta di una poesia di Mallarmé e un quadro di Morandi meno di un quadro di Pollock? Certo, sarà, ciascun opera, aperta alla sua maniera, cioè a dire secondo le aperture sensatamente possibili tra ciò che la costituisce come opera e le culture che avessero da incontrarla (nessun interprete può inventarsi un rosso e i suoi significati in un quadro in cui sia assente), ma mai monosemica, nessuna. Paradossalmente appare vero il contrario di quanto Eco diceva agli artisti. Credo che si potesse affermare allora e si possa affermare ancora che oggi nessun opera è chiusa e dire agli artisti: non preoccupatevi di aprire la vostra opera facendola, preoccupatevi semmai di farla entrare nel mondo dell’arte e ci penserà la logica di questo modo a farla funzionare in modo aperto, qualunque sia la sua struttura. L’apertura è una direzione generale della logica dell’arte e non un intento di una qualche direzione parziale del fare degli artisti. Intendo della logica dell’arte in simbiosi con l’epoca cui si caletta secondo i suoi tempi e suoi bisogni, mai in assoluto e in astratto. La storia, quando apre l’opera, non l’apre sempre allo stesso modo. Basti pensare al Medioevo. Il suo modo di aprire l’opera, per quel che ne sappiamo, non è certo quello di oggi. E’ questa logica culturale, che sta oltre e prima delle poetiche e delle opere e ne guida il modo di vivere, che Eco dimentica di far entrare nel suo modello ed è da questa mancanza che derivano al libro di Eco tutti  gli errori e le fumosità indicate, con il contorno di qualche affermazione così incredibile in un esperto dei segni come lui da far sospettare addirittura una volontaria azzeccagarbugliata. Ma si sa, sospettare può diventare, malgrado noi, un vizio, da cui mi auguro il lettore (fosse pure lo stesso Eco) voglia aiutarmi a difendermi.

 

Logo Parol
© 1985/2003 Parol - quaderni d'arte e di epistemologia
Per qualsiasi utilizzo delle risorse presenti sul sito contattare la redazione
Site designed and managed by Daniele Dore