events
themes
call for papers
ideology busters
links
staff

Home

Reading e/o measreading

(Parol 2 - 1986) dibattito a cura di Luciano Lelli: intervengono Joseph Hillis Miller, Guido Guglielmi, Paolo Valesio, ed Ezio Raimondi.

Nella primavera del 1985 i Dipartimenti di Lingue e Letterature Straniere Moderne e di Italianistica dell'Università di Bologna hanno organizzato e tenuto (il 14 maggio) c/o la Sede di Filologia Germanica un dibattito sul seguente argomento: Reading-misreading: problemi di lettura e interpretazione. Il dibattito si è svolto a conclusione di un seminario del prof. Hillis Mller dell'Università di Yale all'interno dei corsi di Vita Fortunati e Giovanna Franci del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere Moderne.

Al dibattito hanno partecipato, oltre agli stessi V. Fortunati, G. Franci e H. Miller (che l'ha aperto con un breve, diretto, intervento di reading-misreadin sulla poesia The Red Fern [ The Red Fern: The large-leaved day grows rapidly, / And opens in this familiar spot / Its unfamiliar, difficult fern, / Pushing and pushing red after red. / There are doubles of this fem in clouds, / lass firm than the paternal flame, Yet drenched with its identity, / Reflections and off-shoots, mimicmotes / And mist-mites, dangling seconds, grown / Beyond relation to the parent trunk:/ The dazzling, bulging, brightest core, / The furiously buming father-fire .../ Infant, it is enough in life / To speak of what you see. But wait / Until sight wakens the slepy eye / And pierces the physical fix of things.] di Wallace Stevens), Guido Guglielmi, Paolo Valesio e Ezio Raimondi. Gli interventi non sono tutti costruiti alla stessa maniera. Alcuni sono stati letti, altri eseguiti a braccio. Ne esce un quadro di problemi estetologici e critici di grande attualità (a sviluppo e complemento dei saggi e dei dibattiti che, in altre sue parti, la rivista pubblica e ha già pubblicato),facilmente decifrabile, nel suo insieme, tra la tessitura lineare degli interventi del primo tipo e la fresca discorsività (anzi la fresca parole, appunto) dei secondi. Gli interventi di Miller sono tradotti a cura di V. Fortunati e G. Franci.

Miller: Il mio breve intervento è su una poesia di Wallace Stevens The Red Fern o, meglio, su un aspetto di questa. E' una poesia sul sole, ma la parola sole non vi appare. Potrei intitolare questo mio intervento: la metafora impossibile. La legge non detta di questa poesia sta nel fatto che, anche se il suo centro è il sole, questa parola non può essere usata, come fosse bandita dai dizionari. Questa convenzione (di)mostra l'impossibilità o l'improprietà di nominare il sole con tante parole, allorché lo si guarda, per così dire, con gli occhi fissi.

La mia domanda è: perché avviene questo? Ci possono essere - secondo me - due risposte che implicano due modi diversi di leggere: uno lo chiamo " lettura " e l'altro " interpretazione ". Se il sole è la fonte di ogni visione, di ogni energia, vitalità e crescita (come, per esempio, quella della felce rossa ecc.), esso non può essere guardato direttamente. Se si guarda fisso il sole con gli occhi, si rimane ciechi. Il sole non appare, nel senso proprio del termine, quando sorge. La condizione del vedere è negata, perché, quando il sole sorge, in realtà non si vede nulla. In questo senso, per definizione, il nominare, alla lettera, è possibile solo se le cose che si offrono ai sensi (e questo è ciò che letteralmente significa " nominare ") sono fenomenologicamente percepibili. Così la parola sole, dal momento che il sole non appare in questo modo, è un paradosso ed è improprio pensare di nominarlo nel modo in cui si nominano le cose che il sole illumina.

Ci sono due modi di rispondere a questo tipo di evasione (o negazione) in The Red Fern, e quindi due modi di leggere la poesia, seguendo l'utile distinzione che ha suggerito un brillante giovane collega di Yale, Andrey Warminski. La poesia, cioè, può essere o interpretata o letta: il primo modo, che si può definire interpretazione ermeneutica presume che il sole sia, in realtà, visibile in sé. Non lo vediamo forse sorgere ogni giorno? E' un problema di non-familiarità, perché è nuovo ogni giorno: la corrispondenza di ciò, in poesia, è la metafora, non tramite l'imposizione del noto all'ignoto, ma usando piuttosto il meccanismo proporzionale della classica metafora aristotelica, in cui si possono vedere tutti gli elementi della sostituzione.

Il " nominare " letteralmente dipende dal vedere e quindi dal conoscere che consegue dal vedere, dal momento che il linguaggio letterale (base di ogni traslazione metaforica) è definito come l'incontro delle parole con le percezioni delle cose. Noi vediamo il sole e lo chiamiamo sole. Oppure, nella prospettiva che io chiamo interpretazione, questa poesia apparentemente dipende dallo scambio fra elementi della catena di tale metaforicità: ci sono due metafore fondamentali. Il sole sorge ogni giorno e spande la luce ovunque, illuminando le nuvole, ebbene (prima metafora) la felce rossa tropicale (come la si può trovare nella Florida dove Stevens soleva andare) cresce, proprio per questo, rapidamente e si riproduce; così ancora (seconda metafora) l'organo maschile della riproduzione diventa eretto. La parola fern (felce) nell'olandese della Pennsylvania significa fallo. Secondo questo tipo di interpretazione, la poesia è generata da un gioco di sostituzioni fra queste tre serie, ciascuna aperta a una percezione: il significato del sole, della felce e del sesso. Così i termini si spostano dal loro significato proprio a un'altra regione, in un incrocio di sostituzioni, che possono andare in due direzioni: per esempio, potete chiamare la felce " fallo " e viceversa. Oppure parole come " sole " sono prese a prestito per denominare il fallo e chiamarlo il " bruciante padre fuoco ".

Le somiglianze, in entrambe le direzioni, sono oggettive, sono nella natura delle cose, le quali, come tali, sono viste e conosciute: il vedere e il conoscere precedono il " nominare " e il conseguente scivolamento dei nomi implicato nella formazione della metafora. Tale movimento adempie alle indicazioni aristoteliche, per cui controllare le metafore rivela la qualità principale (il vero genio) del poeta: chi sa controllare le metafore rivela di essere capace di cogliere le somiglianze. Le somiglianze sono là, non sono inventate dal poeta. Il poeta di genio è un occhio per loro, è un occhio per le metafore. Per questa ragione è sufficiente che qualcuno, per divenire poeta, parli di quello che vede. Se noi ora diamo, invece, un secondo sguardo più ravvicinato alla poesia e la leggiamo, piuttosto che interpretarla, cominciano a emergere problemi riguardo alla chiara organizzazione del suo significato. Se avessi più tempo, parlerei, in proposito, di tre aspetti specifici e anomali del suo linguaggio, che mi sembra di avere identificato. Ma ne esaminerò uno solo, come esempio. Tre aspetti della poesia che, alla fine, ci impediscono di leggerla. Li potremmo definire logocentrici, governati dal logos (nel senso in cui la teoria aristotelica della metafora è logocentrica), ma in negativo: si configurano, in realtà, come anomali, alogici e significano che c'è, in verità, una serie di metafore impossibili. Impossibile qui è inteso nel senso specifico e cioè come una discrepanza fra il linguaggio e ogni fatto fisicamente possibile.

La poesia può nominare (nomina) cose che non esistono realmente. Invece di essere fondato sulla natura, sulle cose in quanto tali, nella percezione che porta alla conoscenza e al nominare e quindi a quello scambio fra nomi così fermamente fondato detto metafora, tale linguaggio a-logico indica la sconvolgente e destabilizzante libertà del linguaggio stesso dal legame con la percezione, e la sua abilità di versare nel crogiuolo del suo modello sintattico e grammaticale delle locuzioni che per il mondo empirico sono, per così dire, senza senso. Come, per esempio, in questa poesia, dove c'è qualcosa che simultaneamente è tutto maschile e tutto femminile, perché ci sono due modi di leggere questa felce, un modo maschile e un modo femminile: siamo di fronte a una sorta di ermafrodito. E' qualcosa che sfida la logica e l'ordine logico di classificazione. Credo, così, di dover concludere cercando di identificare, come detto, uno di questi aspetti.

Riflettiamo sull'assenza della parola " sole ", in questa poesia sul sole: voi non potete guardare il sole direttamente, con gli occhi, senza rimanere accecati e quindi la fonte del vedere e del parlare non può, in sé, essere detta nel linguaggio letterale. Il sole deve essere nominato indirettamente, in un movimento verso il luogo dove il sole potrebbe essere, ma dove non c'è niente da percepire, niente da vedere e niente da nominare. Nella prima strofe della poesia, l'assenza del sole è segnalata dal fatto che Stevens non dice " il sole sorge ", ma " il giorno dalle larghe foglie cresce rapidamente ". Può esserci il giorno o la luce del giorno, anche in assenza del sole, per esempio in un giorno nuvoloso. La parola giorno nella sua astrazione totale, come nome del periodo di tempo che si oppone alla notte, non nomina il sole, ma ciò che il sole comporta. " Giorno " è un nome per tutto quanto sta sotto il sole, tranne il Sole. Il giorno può essere espresso da un vasto cielo vuoto che si estende da orizzonte a orizzonte: un luogo di luce, ma anche un luogo d'assenza di ogni fonte di luce. Il fatto che non ci sia niente là, dove dovrebbe esserci il sole, è indicato dal passaggio a-logico, nei versi di Stevens, della figurazione del giorno stesso, nella sua totalità, come una pianta dalle grandi foglie, nonché dalla sua figurazione come locus del nuovo anno o anche dalla tensione a individuare il luogo dentro il quale il sole invisibile (indicibile) cresce come una felce rossa.

And opens in this familiar spot / Its unfamiliar, difficult ferm, / Pushing and pushing red after red.

Il senso che fa non-senso è la descrizione del fenomeno empirico; è come la descrizione di Proust, in una parte della Recherche, di cui parla Paul De Mari. In una nota di Allegories of Reading [ P. De Man, Allegories of Reading, Yale U.P., 1979.], De Man cita un passo di Proust che parla di un giorno assolutamente privo di nuvole, in cui il sole volge altrove il suo sguardo. Non ha senso dire che, se non ci sono nuvole, il sole volge altrove gli " occhi ". E' impossibile per il giorno, nel nostro caso, essere simultaneamente una grande pianta e nello stesso tempo il luogo nel quale questa pianta (la felce rossa) si apre e cresce. Come rappresentazione letterale di un fenomeno empirico è impossibile, ma come manifestazione di una necessità linguistica è scrupolosamente preciso. Espone o esprime la necessità di presupporre un centro, o logos, dello scambio metaforico, mentre questo centro è sempre assente. Non è, in realtà, una negazione, ma un vuoto, perché non si può dire se c'è o non c'è qualcosa là, per cui non c'è nulla da percepire o nominare. In questo luogo vuoto della sintassi, viene introdotto qualcosa d'altro, attraverso la figura, per esempio, della felce rossa. Le frasi, che formano la prima strofe della poesia, non possono fare altro che nominare ancora una volta qualcosa di derivato e secondario e porlo in luogo di ciò che non può mai essere nominato, perché è la base presunta del linguaggio.

Valesio - Miller, come voi avete sentito, ha cominciato con il notare una difficoltà linguistica, in questa poesia in cui si parla del sole. La parola " sole " è bandita. Ha proseguito, allora, distinguendo fra " lettura " e " interpretazione ". Ha atto di interpretazione soffermandosi sul cominciato con un fatto che la parola " fern " (che io penso si possa tradurre con " felce ", anche se poi non è una traduzione botanicamente troppo precisa) oltre a designare la pianta, che noi intendiamo con questo termine, designa anche il fallo. Miller ha quindi identificato tre domini linguistici abbastanza chiari, anche nelle loro interrelazioni: quello del sole non nominato, quello della felce e quello del fallo. Ciò gli ha permesso di ricordare la famosa indicazione aristotelica che colui che controlla le metafore è il vero genio poetico, perché rivela in questo modo di fare attenzione alle somiglianze.

Fin qui per ciò che riguarda quella che egli chiama " interpretazione ". Parlando, invece, di quella che egli chiama " lettura ", mi pare di aver capito che egli abbia notato una aporia, anzi una serie di aporie, una serie di metafore impossibili, dove per " impossibile " egli intende la discrepanza fra il linguaggio e ogni fatto fisicamente possibile. Ha sottolineato, insomma, la presenza di un linguaggio a-logico, non logico: ha notato, infatti e prima di tutto, che, se si osserva più attentamente la simbologia della poesia, " Fern ", che prima sembrava chiaramente una metafora fallica può anche configurarsi come una metafora femminile, una specie di androginia; ha notato poi che l'assenza del sole è segnalata dal primo verso della poesia, dove si parla del giorno " dalle larghe foglie " (spostamento appunto a-logico, non-logico, questo in cui la parola giorno, figurando il giorno nella sua totalità, figura anche il sole e l'identificazione del luogo specifico, nel quale il sole invisibile e innominabile sorge); ha collegato poi questa poesia a un passo di Proust, analizzato da De Man, in si parla del sole che, in un giorno senza nubi, volge lontano (distoglie) il suo " viso " (anche questa, altra figurazione a-logica, perché, in assenza di nubi, il sole dovrebbe essere visibile).

La sua affermazione centrale a me è parsa essere. se ho capito bene, che, come rappresentazione letterale di un fenomeno, la poesia è impossibile. La poesia sarebbe comprensibile soltanto come descrizione di una necessità linguistica: bisogna parlare come se ci fosse un centro del nostro linguaggio, anche se il centro non esiste, ovvero nominare ciò che non può essere nominato, poiché si tratta della necessaria base, ancorché assente, della nostra designazione linguistica.

A partire anche da tutto ciò, vorrei formulare alcune (poche) osservazioni, che raccoglierei sotto il titolo La soglia dell'illeggibile. Parto da una battuta, probabilmente conosciuta da molti di voi, una battuta di Oscar Wilde (la prendo dal suo saggio The critic as artist), che per molto tempo a me e sembrata soltanto una battuta di spirito e che invece, ripensandoci, mi è poi parsa essere cosa molto più importante. In questo dialogo un giovane molto serio (Ernest) chiede ad un certo punto al suo amico (Gilbert) quale è la differenza tra letteratura e giornalismo. E l'amico Gilbert risponde: " Oh! journalism is unreadable, and literature is not read ". Io partirei da questa battuta, che vorrei prendere seriamente come espressione di una filosofia fin-di-secolo, una specie di filosofia bruciata, aforistica, cui mi sembra dobbiamo pur sempre ritornare.

Basti pensare a come si può tradurre agevolmente in un linguaggio epistemologico di tipo francese questa battuta, apparentemente mondana, che passando dalla letteratura al giornalismo, sostituisce a un tipo profondo un tipo superficiale illeggibilità. In ciascuno dei due casi ovviamente, dicendo illeggibilità, mettiamo in gioco ben altro che l'impossibilità di leggere.

Illeggibilità della letteratura vuol dire che la scrittura letteraria è così densamente lavorata da rendere difficile la lettura. Illeggibilità del giornalismo significa che la scrittura è tanto annacquata che è difficile, per il lettore, convincersi che valga la pena di leggere.

E' chiaro allora che, passando dall'uno all'altro genere di scrittura, la parola illeggibilità ha rovesciato il suo significato. Si è passati, insomma, da un estremo all'altro. Proporrei che fra questi due estremi si situi la critica letteraria. La funzione precipua della critica letteraria, si può suggerire, è quella di rendere mediocremente leggibile, mediamente leggibile, moderatamente leggibile, ciò che nella sua essenza è illeggibile.

Rivendico questa filosofia bruciata, cui ho accennato prima, come il modo più adeguato di render conto di questo rapporto. Ciò coincide con una rivendicazione dell'estetica. Una estetica che io proporrei come modo di fare non solo letteratura (critica e non) ma anche e soprattutto filosofia, anche e soprattutto moralità, moralità ben inteso come attenzione empirica ai mores e non come legislazione intollerante della distinzione.

L'estetica abbraccia l'etica e non viceversa; se voi scrivete la parola estetica, vedrete che essa contiene in sè lettera per lettera, la parola etica. Io vorrei prendere molto sul serio questo fatto. A me tutto questo sembra essere molto di più che un fenomeno casuale, una coincidenza grafematica o fonematica. Se noi, questo fatto, lo prendiamo seriamente il concetto di estetica appare più vasto di quello di etica e questo modo di rivedere il loro rapporto può condurci a rivedere, mutando la, la gerarchia opposta che da Platone in avanti sembra dominare la filosofia in Occidente. A me comunque importa, più che questa revisione generale, la possibilità di riflessione sulla moralità peculiare (intrinseca) all'estetica, la zona etica che è interna all'estetica. E mi pare che l'etica dell'estetica sia soprattutto un'etica di solitudine. L'esteta è solo, perché è privo di ogni rapporto, supporto edificante che immediatamente susciti la simpatia della comunità: solennità di discorsi ufficiali, autocompiacimento, reciproca compiacenza ecc.. La lotta dell'esteta per costruire valori è molto dura e appunto, dunque, molto solitaria.

Piccola annotazione: l'abbraccio dell'etica da parte dell'estetica risulta più chiaro in italiano che in inglese, proprio perché voi sapete che l'ortografia più prestigiosa è quella che adopera il dittongo " ae " nella parola " aesthetics ". Diciamo che la fusione italiana mette insieme due etimi molto diversi: l'etimo del termine " estetica ", che in greco ha a che fare con il verbo che designa la percezione, e l'etimo della parola " etica ", che in greco ha a che fare con la parola carattere. Trovo che questa fusione italiana, questa che vorrei chiamare " filosofia del monottongo ", etica-estetica senza differenze, mette in luce una fertile provocazione, mette insieme l'idea di percezione sensoriale con quella di elaborazione e formazione del carattere. Continuando, per un momento, con i giochi di parole (che io prendo molto seriamente) possiamo dire che (e anche questo funziona in italiano e non in inglese) mi sembra necessario sottolineare le differenze filosofiche, inevitabilmente implicite nel fatto di parlare una di queste due lingue con interesse per tutte e due, e che l'assurditarietà dell'esteta e qualche cosa che implica un sacrificio di solidarietà.

Dicevo, allora, che la critica letteraria si situa fra i due estremi: illeggibilità come sforzo di trascendenza, che è la letteratura, e illeggibilità come eccessivo rilassamento della tensione, che è il giornalismo, e avevo detto che la critica letteraria tenta di rendere mediocremente leggibili questi due tipi di illeggibilità.

Il protagonista della critica letteraria è il professore di letteratura e, su questa figura, vorrei soffermarsi un momento per chiedermi in che misura il professore di letteratura abbia qualche connessione con la letteratura. La cosa non mi sembra completamente ovvia. Per esempio, recentemente, Alberto Parente riesumava una lettera di Croce del'41,in cui Croce proponeva ironicamente (s'intende) quello che avrebbe voluto essere un epitaffio da mettere sulla sua tomba: avrebbe voluto che sulla sua tomba fosse scritto (epitaffio che, poi, non fu mai scritto): " tolse la filosofia e la letteratura dalle mani dei professori universitari ". L'ironia possibile di questa citazione consiste nel fatto che, se c'è una figura professorale nella storia della critica letteraria italiana, mi pare sia proprio quella di Croce. Il fatto che Croce non avesse una laurea e non fosse cattedratico è, direi, relativamente accidentale, e non mi pare che sia su questo che possiamo costruire differenze. Da questo punto di vista mi pare che un'apologia del professore o una critica del professore come tale siano entrambe potenzialmente demagogiche.

Vorrei suggerire una revisione critica delle possibilità del professore un modo per rendersi conto della potenza della professione professorale è rendersi conto della distruzione che può essere operata dal professore; sarebbe interessante vedere, università per università, dipartimento per dipartimento, quanti possibili germogli (se permettete questa metafora un po' leziosa, forse) siano stati distrutti sul nascere da un certo tipo di repressione. Penso in questo senso al sorriso che è necessario sempre avere, soprattutto da parte dei grandi intellettuali, verso se stessi come professori. E, per me, uno degli esempi più importanti in Europa è il sorriso di Rabelais, sorriso che ha ben poco a che fare con l'allegria, che molto poco ha a che fare con il sesso e che molto ha a che fare invece, mi sembra, con la lotta contro un certo tipo di terrore universitario.

ci si, può interrogare, allora, sull'utilità di questa critica interna da professore a professore. La posta in gioco mi sembra importante. Parliamo oggi di lettura, e la posta in gioco nel capire i limiti e la funzione di questo ruolo, di questo lavoro, è quella di leggere bene o male, disleggere o leggere l'epoca in cui viviamo. Mi sembra, allora, importante soffermarci su tale questione, quali che siano le nostre opinioni.

Noi viviamo in un'epoca in cui le ideologie trionfalistiche vanno tutte declinando, ma fanno una feroce battaglia di retroguardia. L'ideologia trionfalistica del professore sarebbe quella che pretende che il professore comunichi l'essenza della letteratura: cosa che non mi pare proprio sia il caso di sostenere. E' chiaro che, per questa strada, io pure rischio di cadere in una trappola tipicamente professorale. Per chiarire questo divergere della funzione del professore dall'identità della letteratura dovrei compiere quel gesto eminentemente professorale che sarebbe la proposta di una definizione della letteratura, cosa che mi guardo bene dal fare. Direi che dopo Sartre è impossibile una definizione positiva (totalizzante) della letteratura. Nella impossibilità di definire la natura della letterarietà, io mi limiterei a dire che la letteratura è un modo di portare alla luce le cose nascoste dentro le cose, le cose nascoste nelle pieghe delle cose. Prendiamo, ad esempio, l'uso che noi professori facciamo del termine " poetico ". Ce ne serviamo, in genere, per designare il punto più alto del valore letterario del testo che stiamo leggendo. Ebbene, spogliamolo delle varie stratificazioni deformanti che lo connotano, soprattutto di quelle dovute a un gusto restrittivo e a moralismi angusti, e che cosa resta? Resta la designazione di una forza, di una energia turbolenta che plasma e riplasma non in chiaro le cose. Io direi che il tratto distintivo delle grandi idee poetiche è precisamente quello di togliere ogni senso a questa alternariva di realtà e rappresentazione della realtà. L'atto stesso, con cui la letteratura porta alla luce le cose celate dentro le pieghe delle cose, è l'atto con cui la letteratura confonde inestricabilmente creazione e percezione. Con questo atto turbolento e direi decisivo, il professore come tale non ha molto a che fare: può illuminarne occasionalmente la natura, ma non lo fa in quanto professore. Sto parlando ovviamente del professore dei tempi moderni. Per la sua nascita si può prendere una data. E' un gioco (certo!) perché non è che io pretenda di indicarvi una data, in cui inizia la svolta o crisi nel concetto di professore, ma, volendo fare questo gioco per un momento, mi pare che sarebbe inevitabile indicare l'anno 1876, anno in cui a 6 anni dall'aver ottenuto il professorato di ruolo, Federico Nietzsche si prende un congedo dall'università che si farà poi definitivo.

Da allora in avanti mi sembra che l'illuminazione sulla letteratura venga primariamente da fuori: penso negli Stati Uniti a K. Burke, in Francia a Sartre, in Germania a Benjamin, nel nostro paese la lista sarebbe molto lunga: mi limito ad indicare Carlo Michelstaedter e Renato Serra. Se il professore non è primariamente il rivelatore della letteratura è però colui che ne può, diciamo cosi, avere cura della vita. Certo molti pezzi di letteratura, che teniamo fra le mani, in una visione fredda e intellettualistica del lavoro del professore, meriterebbe di scomparire. Mi, pare, tuttavia, che il modo più interessante di servire la letteratura come forma di vita, sia rendersi conto del suo - altro - versante, quello della morte (anche la letteratura come ogni forma di vita, cresce all'ombra della morte). Il professore ( non importa se di letteratura antica o moderna) è veramente professore quando si rende conto che la morte di tanti pezzi di letteratura è immeritata, cioè quando cerca di rimediare a questo fatto.

Mi pare dunque che l'unica forma di storia letteraria, di cui valga la pena preoccuparsi seriamente, sia quella che è costantemente revisionistica, cioè quella che lotta contro le forme di cancellazione perversa di testi letterari; intendo per " perversa " la cancellazione o obliterazione, che non deriva approfondito sforzo di perfezione, ma da faziosità o da un approfondito sforzo di perfezione ma da faziosità o malizia o pigrizia o caduta di immaginazione. Chiunque si occupa seriamente di letteratura sa che la obliterazione perversa di testi letterari è purtroppo la regola, piuttosto che l'eccezione. Penso, allora, che la frase " riscattare dall'oblio " meriti di essere recuperata nella sua serietà, anche se l'abbiamo sentita tante volte: è stata così inflazionata che può sembrarci a prima vista puramente convenzionale.

Credo che si tratti di cogliere il momento giusto. Il momento giusto è difficile da definire. Io parlo del momento in cui uno scrittore giovane, giovane in quanto scrittore (anagraficamente può essere anche molto vecchio) oscilla fra l'accettazione integrale (accettazione che può determinare la vocazione o, almeno, la professionalità di ciò che ha appena scritto) e il rifiuto autodistruttivo. E' il momento in cui non riesce più a leggere ciò che ha scritto, come se fosse temporaneamente accecato e ha bisogno degli occhi di un altro, di qualcuno che lo prenda per mano e lo forzi a toccare la sua stessa pagina e a ripercorrerla come un semianalfabeta con la punta delle dita.

Mi pare che questo sia il compito primario del professore: riscattare la letteratura dall'oblio. Se il suo compito si arrestasse, ripeto, a ciò, sarebbe già una cosa grande, ma mi pare che, su questo lavorio empirico di contatto costante con il testo letterario, nasca per lui, e a coronamento della sua attività, un altro compito che è molto più difficile da definire. Ho detto all'inizio che il professore di belle lettere ha il compito di rendere mediamente leggibile ciò che è illeggibile. Possiamo anche dire, nei termini appena indicati, che egli applica alla turbolenza della letteratura una dosatura delicata di moralità e di metodologia. Questa combinazione di per sé non ci giunge nuova, perché mescolare moralità e mitologia è quello che facciamo ogni giorno: è, infatti, su questa mescolanza che si regge la nostra vita quotidiana, non solo di soggetti singoli, a volte singolari, ma anche di membri della comunità.

La difficoltà non consiste tanto nel vedere questa mescolanza, ma nel vedere come la critica letteraria ricrei questa mescolanza spostandola alla seconda potenza. Voglio dire che il professore nazionalizza in forme descrittive le mitologie e le moralità selvagge (intendo non organizzate) dei testi, ovvero, per parlare nei termini della discussione iniziale, il professore addomestica la turbolenza estetica ampliando (e chiarendo) la componente etica, che è racchiusa nell'abbraccio dell'estetica. Un corollario diretto di questa idea è che la critica letteraria non può mai essere più forte di quel che è il tessuto di moralità comunitaria della quale essa è espressione. E qui è il contrasto sottile (ma sensibile e spesso doloroso) vissuto da tutti coloro che insegnano letteratura italiana in un contesto anglosassone, soprattutto americano.

La critica letteraria americana risponde a una comunità sicura di sé, dunque esprime una rete di moralità solide, voglio dire moralità paramitologiche (più moralità, non la moralità); di conseguenza la letteratura americana e inglese può essere insegnata ed esportata con autorevolezza. L'Italia è, invece, un paese dove il tessuto della moralità quotidiana è profondamente incerto e questo causa guasti profondi. [.] Non sto, ovviamente, parlando di distinzioni ontologiche e assolute, ma della maggiore o minore consistenza di una opinione purgata e diffusa, di un modo in cui il cittadino realizza le sue operazioni e attività quotidiane.

La cultura letteraria americana esce da quel grande crogiuolo che fu la riforma, dove tutte le forme di moralità sono state riplasmate, raffinate, messe a prova e in un certo senso mutate. Tali scontri e incontri di fedi e di moralità alla lunga rafforzano la fenomenologia etica della comunità, anche quando, forse soprattutto quando (e qui c'è una ironia tragica), essi provocano lacerazioni nel tessuto della comunità. La differenza italiana è flagrante: tepida ortodossia cattolica prima, tepida ortodossia laicistico-laburistica poi, sono accomunate dallo sforzo, direi in larga parte riuscito, di mascherare una profonda incertezza. Da questa incertezza di fondo e non certo da mancanza di intelligenze singole, che al contrario fioriscono, nasce la persistente difficoltà che, nonostante le brillanti eccezioni, la critica letteraria italiana ancora trova a parlare con una voce propria [.].

Negli Stati Uniti le discussioni professorali sono salvate dalla frigidità grazie a quelle fortemente rilevate differenze di fedi e tradizioni a cui accennavo. Non è difficile distinguere matrici religiose diverse nella maggior parte delle voci forti della critica nord-americana contemporanea. E dico religiose, sia come presenza accettata e coltivata di matrici religiose nel senso tradizionale, sia come una ripresa forte di quella religione moderna di laicismo materialista che è il marxismo. In Italia, invece, la situazione è, direi, diversa. Il vecchio motto di non parlare male di Garibaldi permane nella critica letteraria italiana; permane, voglio dire, troppo conformismo. Il conformismo genera incertezza, cosa che non è facile vedere, perché l'effetto superficiale del conformismo è precisamente l'opposto, quello cioè di offrire un'ingannevole impressione di sicurezza, ma l'incertezza generata dal conformismo genera a sua volta un miscuglio di disperazione e cinismo [.]

Non ho alcuna ricetta da offrire, ma una qualche indicazione può sorgere dalle pochissime osservazioni che ho fatto e che sto per concludere e che puntano verso l'etica dentro l'estetica. La critica italiana ha avuto una voce teorica forte, quando si è assunta precisi rischi sul piano etico (io penso a tutti i nomi che ho già fatto) e mi sembra allora necessario porre un limite, un termine a quella che forse è stata un'orgia un po' troppo formalistica e metodologistica della modernità, per ritornare a responsabilità etiche, che sono individuali e dunque nulla hanno a che fare con ideologismi da partito preso.

Tra l'altro non va dimenticato che, anche se il movimento della critica non deve essere confuso con quello della letteratura, i rapporti fra i due discorsi sono cruciali. Un solo esempio, che mi sembra rivelatore: la decadenza del racconto breve nella letteratura italiana contemporanea. Per il racconto, io direi, la drammatizzazione delle differenze etiche, che si deve giocare su poche pagine, è ancora più importante che per la lirica o le forme più distese di narrativa. Mi sembra chiaro che esiste un nesso causale e non casuale tra l'involuzione intellettualistica e formalistica della critica, da un lato, e l'impoverimento del racconto breve dall'altro.

Ogni progresso è possibile, io direi: nel campo di cui sto parlando passa attraverso la coltivazione dell'individualismo e siamo così tornati all'etica della solitudine come compito dell'esteta. "Esteta", che spero sia emerso dal mio discorso come un concetto teorico serio e forte. Direi, per finire, che non si tratta però di una solitudine passiva, ma della elaborazione di un discorso che può anche sfidare la comunità (sul momento), perché il suo scopo è parlare (oserei dire) all'umanità, sia nel senso del concetto generale di umanità, sia nel senso dell'agglomerato più vasto delle varie nazionali comunità.

 Raimondi - Dato l'argomento del dibattito e dopo tutto ciò che è stato detto, devo riconoscere che non è facile intervenire. Mi trovo, infatti, in qualche modo spiazzato o, meglio, " decentrato " (il che non è un male), giacché pensavo di dovermi riferire un poco, per quel che ho potuto vedere di recente, alle prospettive di Miller. Così farò. Ma ciò che ha detto Valesio mi costringe preliminarmente a dichiararmi subito come " Ein Professor in durftiger Zeit ". Se impiegata in senso ironico, la formula può portare a queste considerazioni: il professore può anche essere una maschera (la grande poetologia romantica insegna); diversamente, se prescindiamo da Nietzsche, è un professore " vecchio stampo ".

Il problema dovrebbe essere analizzato a lungo, perché le vie dell'ironia sono infinite e, si sa, l'ironia può nascere anche dove non sembra dichiararsi tale. In ogni caso non è poi un male dire che il professore attraversa un tempo di malaise e di difficoltà. Se ho capito bene, anche nei saggi introduttivi di questo seminario di Miller si parla proprio di una crisi, nel senso di distinzione, revisione, che forse, di là dalle tante differenze illustrate da Valesio, può accomunare nella diversità i poveri e i ricchi, cioè la situazione italiana e quella anglosassone, più viva forse in America, per quello che posso capire (ma sono pronto a essere subito smentito) che non nel mondo strettamente inglese.

In ogni caso, cerco di tenere insieme le due cose, dopo aver dichiarato che Valesio mi ha spiazzato ancora di più quando ha fatto il nome di Serra, sul quale, di recente, mi è avvenuto di fare tutta una serie di osservazioni riguardanti proprio il problema dell'etica del leggere, più precisamente, nei miei termini, la filosofia del leggere. In quest'ultima trovano poi collocazione anche altri personaggi italiani come il giovane Cecchi e Boine, senza dimenticare, spostando lo sguardo sul mondo francese (gli incontri si danno anche tra autori che non si sono mai visti), da una parte Péguy, dall'altra Rivière, e per un altro verso Bergson. Mi accadeva così di scoprire (ironia della sorte) che il Bergson di Serra si chiamava Francesco Acri. Sembrava solo un professore universitario, ma era un caso di professore platonico e quindi veramente ironico. Recitò per tutta la vita la parte del vecchio, mentre invece era probabilmente, come aveva compreso Serra, all'altezza dello stesso Bergson e del contingentismo francese. Questa, però, è un'altra questione, che qui è necessario lasciare da parte.

Anch'io polemizzavo, per altro verso e secondo la mia energia, nei confronti di un certo tipo di interpretazione su cui condivido il pensiero di Valesio. Noi, in Italia, siamo così spregiudicati da non esserlo mai veramente e quindi non abbiamo la mentalità sperimentale per provare a battere strade diverse da quelle usuali. Siamo contemporaneamente cinici e puristi del metodo, senza peraltro che si sappia bene dove esso sia. Nell'incertezza, conviene sempre attenersi al unto di partenza, al Discorso sul metodo di Cartesio. La ricerca di Cartesio nasceva da ragioni etiche e da quelle si irradiava in direzioni diverse, mettendo capo a conclusioni provvisorie. Non credo a nessun metodo che non finisca nella serietà del provvisorio: mi riesce difficile concepire le cose in altro modo. Vorrei prendere le mosse da una serie di citazioni, non da Nietzsche, ma da Federico Schlegel che in parte attende ancora di essere scoperto. Leggo alcune battute dei suoi Diari dirigendole anche, se così si può dire, all'amico Hillis Miller: " Senza totalità etica la retorica è sofistica "; " La ricerca degli elementi è una distruzione "; " In un'analisi storica questo è ricerca della dominante " e " la spiegazione della dominante è del principio ironico "; " Il motto di spirito e la retorica sono gli angoli della filosofia pragmatica ".

Ho scelto una serie di battute che potrebbero appartenere a un lessico non necessariamente del 1795 e 1796, pur con la speranza di continuare a sottrarre, come suggeriva Valesio, qualcosa all'oblio. lo credo che leggere voglia dire tornare a leggere ciò che, a un certo punto, si era tralasciato dirigendosi verso le sue zone vuote o buie.

Ora, la domanda che potrei fare a Miller è questa: qual è la parte profondamente romantica, in senso forte ovviamente, che entra nel movimento in avanti del suo discorso? Discorso che va sempre più verso quello che egli chiama il momento etico del leggere, scagliandosi anzi (credo a ragione, soprattutto nel suo caso) contro coloro che riducono la parola " deconstruction " a un esempio di nichilismo: si tratta, a suo avviso, di " misunderstanding del momento etico del leggere ".

Non sono ricorso a Federico Schlegel a caso, anche se poi è vero che ci sono tante divergenze sul modo di intenderlo. Un notevole scrittore come Martiri Walser ha contrapposto Schlegel a Kierkegaard: è probabile che noi non riusciamo a leggere Schlegel senza Kierkegaard, Nietzsche e così via. Del resto lo stesso Miller, in più di un saggio, parla sempre di due strade. Dice per esempio: " two forms of repetition "; in un altro saggio parla di due tipi di allegoria, passando magari attraverso Benjamn.

E' necessario cercare di capire, in alcuni casi, quali sono le matrici profonde del nostro operare e situarsi a una distanza lunga, essere, cioè, ironici. Quando ci si pone troppo vicini non si può fare ironia, quindi la distanza (la prospettiva) è sempre eminentemente ironica. Ebbene, nella distanza, ecco le due strade. Mi pare che questo fosse il senso di quanto diceva Valesio e credo anche che ciò si possa dedurre da alcune delle cose che sono riuscito a leggere di Miller. Ho l'impressione che nel fondo noi siamo ormai arrivati, anche dentro la critica letteraria (da noi molto meno: qui ha ragione Valesio e molte sue ragioni sono assolutamente fondate), a due modelli: il modello che io chiamerei unitario-totalizzante, dunque monologico, per dirla con Bachtin, e il modello invece del pluralismo, che è un modello dialogico. A questo riguardo io mi porrei più dalla parte di Miller che non da quella di Valesio, perché, se non fraintendo, Valesio afferma che l'etica è una parte dell'estetica, mentre Miller compie - sempre se comprendo bene - l'operazione opposta: l'estetica è una parte dell'etica. Capisco poi anche che da noi, dopo Croce, ci si muova di solito verso la prima soluzione, ma in un mondo come quello anglosassone, con Arnold e tanti altri, è giusto che si proceda verso la seconda. Sia consentito anche a qualche italiano di usare il secondo modello contro il primo.

Quando Valesio contrappone i due modelli (al pluralismo etico un pluralismo non etico, tanto per intenderci), non so se abbia in mente certi filosofi, quelli che ha in mente Miller, ma, da parte mia, vorrei introdurre un personaggio che non so quanto circoli in America (in Europa molto). Non penso tanto a Rosenzweig, così importante per Benjamin, quanto piuttosto a Emanuel Lévinas, perché in Lévinas l'estetica è una parte dell'etica. La domanda che io vorrei fare a Miller è questa: Derrida ingloba Lévinas oppure Lévinas ci costringe a mettere lo stesso Derrida in una luce ironica?. E', Miller stesso che mi ha suggerito questa domanda quando, anche oggi, parlava del viso. Le pagine più straordinarie sul parlare e il guardarsi, le pagine più alte sulla violenza e sul volto irriducibile alla violenza sono state scritte sicuramente da Lévinas, certo con una moralità diversa da quella tradizionale italiana, ma non è detto che non siano possibili rapporti. La domanda che potrei fare a Miller è dunque: Lévinas potrebbe entrare nel suo " ethical moment of reading "? Mi pare, infatti, che l'idea di allegoria di Lévinas non sia, poi, lontanissima da quella di Miller.

Non stupiamoci di questi tentativi di aggiustamento. Una delle cause della crisi del professore è che i lessici sembrano muoversi in tutte le direzioni e bisogna, a un certo punto, tentare di scoprire se esistono dei modelli sottostanti per poi istituire una rete di rapporti, piuttosto che sulle variabili lessicali, proprio su tali modelli. Ecco perché tento faticosamente di dire: " questo può andare d'accordo con quello ": si tratta già di un'etica del leggere in atto. Ci può essere l'etica del leggere come sanzione, quindi di tipo legale (le cose stanno così e basta) e ci può essere un'etica del leggere che dice: " le cose possono stare così, mi sembra ", aggiungendo: " - vi interessa ? Se non vi interessa, beh, pazienza... - ". Operazione, quest'ultima, che sta tra lo sperimentale e il mercantile, dove però tanto " sperimentale " quanto " mercantile " hanno un fondo etico, perché stanno a certe regole. Regole, certo, di autolimitazione, non per limitare gli altri. Non credo che ci sia un pluralismo vero - se non è facile eclettismo - che possa esimersi dalla definizione del proprio campo, come fanno del resto gli animali, ci dicono gli etologi, gli uni nei confronti degli altri. Bisogna, però, seguire sino in fondo questa regola e ciò vuol dire probabilmente, ancora una volta, ironia.

E', una mia sensazione: se portiamo il leggere in primo piano noi andiamo, anche nelle operazioni della critica, verso modelli di filosofia pluralistica che richiedono però dei complessi sistemi relazionali, molto più vicini di quanto non paia a situazioni scientifiche di altro tipo. Voglio dire che esistono modelli comuni, anche se poi le operazioni sono profondamente diverse e profondamente diverso è il grado di probabilità e di incertezza. Quando affermo che nel leggere sono un pluralista intendo indicare che accetto un margine di incertezza, che mi colloco, cioè, all'interno dell'operazione. Non faccio esattamente quello che fa l'osservatore nella scienza? Egli calcola il suo margine di approssimazione. Le mie piccole verità sono legate a tutto questo.

C'è per caso, di là dall'ovvia polemica (un testo ha una sola interpretazione o ne ha molte?), un'idea forte di pluralismo quando parliamo di momento etico del leggere? Io direi di sì. Bisognerebbe però riflettervi a lungo, ma riflettendovi a lungo ho la sensazione che si arrivi necessariamente a ripensare ciò che chiamiamo etica. E a questo proposito è forse necessario introdurre un termine diverso (ma mentre polemizzo con Valesio, rientro nei termini da lui proposti), perché ho la sensazione che tra etica ed estetica ci siano stati sempre dei contrasti. La parola " estetica " è, dopo tutto, recente: nasce da una crisi e si tratta di vedere se è la risposta definitiva o è soltanto la sanzione di questa crisi. Il termine diverso è quello di " retorica ". Il problema finale, anche nella critica, è quello di essere creduti, di ottenere il consenso. Non si tratta necessariamente di un fatto negativo, ma della ricerca di un fondamento, secondo l'originaria idea aristotelica sulle verità di tutti. C'è un linguaggio generale, che parla delle verità accessibili a tutti; sono le verità correnti, magari anche i miti. All'origine, dunque, etica e retorica sono abbastanza collegate. Ed è possibile a questo punto distinguere la retorica in una dottrina dei tropi e in una pragmatica dei comportamenti. Se vedo bene, Miller dice: a una retorica della persuasione bisogna sostituire una retorica dei tropi, e in parte questo è giusto. Ma mi chiedo, anche rispetto alle sue operazioni, se dietro la retorica dei tropi non ci sia una retorica della persuasione, anche se parziale, non assoluta né definitiva, per così dire indiziaria, solo su tracce, per esprimermi con il termine di Heidegger prima che di Derrida. Una pragmatica (una filosofia pratica) ha rapporti con la retorica; se ne è accorto anche Gadamer, che pure aveva tentato, in un primo tempo, di separare le due cose. Ne viene allora una doppia domanda: a Valesío - è possibile sostituire a " estetica " " retorica ", come termine più ampio, senza far cadere il problema dell'etica contenuta nell'estetica secondo la sua elegantissima dimostrazione grafica? E a Miller - dietro la retorica dei tropi, da cui anch'io penso si debba prendere le mosse, non si ripropone anche il momento della persuasione, (certo, come la pensiamo noi oggi, cioè come situazione difficile), il momento, in ogni caso, dell'argomentazione, il momento della credibilità sul probabile? I dialoghi platonici, che sono sempre un grande modello, finiscono nell'affermazione o nelle domande. Quando sono veri finiscono nelle domande. Io ho la sensazione che le verità vere della critica letteraria, quando è tale, stiano nel porre delle domande, poiché sono loro le vere risposte. Il linguaggio corrente non si interroga mai su se stesso, mentre il linguaggio letterario, per definizione, interroga se stesso.

E chi, professore o meno (qui è un altro problema: custodi di Sion e no, uomini dei confini e uomini che oltrepassano i confini, trasgressori o picari, bucolici od eroi; i professori non mancano di maschere e travestimenti), si muove dentro situazioni di questo genere, deve interrogare il momento interrogativo del linguaggio: l'ironia è in realtà una interrogazione. In altri tempi l'etica, che non contemplava la retorica, faceva dell'ironia un male. Hegel diceva che essa era la cattiva infinità e nulla più, ma se per caso, invece, quella che Hegel definiva " cattiva infinità " fosse poi la buona, cioè quella densa di nebbie, di problemi, di tracce, di induzioni, di congetture, di relazioni complesse, che non si possono mai definire in anticipo, ma che si pongono via via, cammin facendo? A questo punto chiedo: il pluralismo, quello che Lévinas, meglio di altri (ma insieme con lui potrebbe andare anche certo Wittgenstein, certo Rosenzweig, persino E. Bloch, forse, in certe pagine) definisce come filosofia forte, antitotalizzante (il che non significa rinunciare alle relazioni, ma solo cercarle in modo più complesso) sarebbe forse una sorta di " pattern " sotterraneo per molte prospettive, che oggi si pongono così acutamente il problema del leggere come questione speculativa e non semplicemente come esercizio di sensibilità?

Non è venuto il momento, di là da tante varietà, da situazioni così profondamente diverse (noi italiani poi, abbiamo una storia troppo lunga e mores privi di concrezione e consolidamento veri: siamo vittime di una contraddizione gravissima) non è venuto il momento, dicevo, di pensare a quali sono le filosofie del leggere? E a quali sono, d'altro lato, le riflessioni profonde che fanno del leggere un semplice strumento?

Croce faceva dei leggere un mero strumento. Serra pensava, ma lo diceva con ragioni profonde, che invece bisognava riproporre Quintiliano. Dopo Tolstoi, Nietzsche, magari Péguy e altre letture " tragiche ", non si trattava certo del recupero nostalgico di un classicista. E non ho pronunciato la parola " tragico " a caso. Noi siamo di solito avvezzi a percepire il leggere come esercizio dell'impressionismo blando all'Anatole France (del resto, un personaggio forse più complesso di quanto crediamo). Ma se per caso ci fosse un elemento tragico nel leggere? Se ci fosse sempre il problema della separatezza? Della difference? Non della conciliazione, ma del contrasto? D'altro canto, non si deve dimenticare che il primo a parlare di misunderstanding fu Humboldt, allorché disse che per capire bisogna sempre fraintendere. Ed egli aveva in mente l'individualità dell'operazione, in quanto pensava che se B " colpisce " A fa diventare ciò che dice A un'altra cosa: diversamente non si ha un'esperienza. C'era quindi, alla base, l'idea dell'individuo come irriducibile al sistema.

Voglio presentarvi allora un piccolissimo esercizio a proposito appunto del rapporto tra narrare e capire, mostrando su un testo, che noi abbiamo dolorosamente imbalsamato, i Promessi sposi, come i testi letterari siano terribilmente complicati; non solo ironici, come è ovvio, ma proprio terribilmente complicati. Non si esce più dal testo: c'è una sorta di chiusura a tagliola (a questo proposito, Miller citava Paul de Man, lo accettava e nello stesso tempo gli sostituiva uno sviluppo molto interessante. Certo, in Miller c'è una cadenza etica che in Paul de Man, per quello che ricordo, non è della stessa intensità, forse perché i testi alla base delle rispettive operazioni sono altri, con diversi nutrimenti e moventi). E allora voglio rapidamente presentarvi un modello. Nei Promessi sposi il romanzo, a un certo punto, produce il proprio modello e, per questa via, crea una situazione ermeneutica quasi inestricabile, cioè introduce dentro di sé un margine non risolubile di approssimazione, al limite la propria distruzione in quanto scrittura.

Nel cap. XXVII, ci sono due personaggi che debbono comunicarsi le loro avventure. Da una parte c'è Agnese, che rappresenta Lucia, e dall'altra c'è Renzo. Renzo si mette in comunicazione con Agnese. Attenzione, però! Nessuno dei due sa leggere e scrivere, quindi siamo di fronte a una prima operazione straordinariamente singolare, a una presa in giro indubitabile del romanzo epistolare. Se questi personaggi non sanno né leggere né scrivere, che cosa sono le lettere e chi le scrive per loro? Se le cose stanno così, non è detto che le lettere arrivino. E se non arrivano? E' il problema della comunicazione. A questo punto Renzo cerca un " letterato ": è la parola usata dallo scrittore in contrapposizione a " illetterato "; man of letters, traduce il testo inglese, ma " letterato " è molto più ironico, perché prevede " illetterato ": letterato è definito da " illetterato ". Si tenga conto che la formula ha un suo senso, perché il letterato è il figlio del potere, mentre l'illetterato è fuori del potere: si tratta già di una contrapposizione di tipo etico Molto importante.

E' un testo esilarante proprio per la sua intensità ermeneutica. Renzo deve raccontare una parte del suo romanzo, quella già nota al lettore. La deve raccontare a un altro personaggio, quindi i personaggi si raccontano il romanzo, di cui sono gli attori quando il romanzo è già scritto, non prima. E', già un problema abbastanza interessante: al limite, il personaggio è il copista del romanzo di cui è il protagonista. Non è un gioco di parole. Rientra, però, in quel gioco di specchi di cui Miller ha offerto tanti esempi, ma lo scherzo è appena incominciato, perché il letterato non scrive secondo quanto gli viene detto: ha le sue regole; anzi, si dice, " mette in forma letteraria " e, in tal modo, trasforma, giuoca sui registri e le tonalità, sopprime, aggiunge... Si introduce, con ciò, la convenzione letteraria e tuttavia senza di essa Renzo non riuscirebbe a scrivere, non riuscirebbe a mettersi in rapporto con l'altro.

Ci si rivolge dunque a un personaggio " letterato-scrivano ". A questo punto, chi ha scritto ha capito e insieme frainteso quello che gli è stato detto, ma non lo ha capito e frainteso solo per una dinamica corrente, bensì perché ci si è messa di mezzo la letteratura come sistema di convenzioni in proprio, con una dimensione diversa dalla realtà. Quando tutto questo accade, all'altro polo del processo comunicativo c'è un interprete (è la parola manzoniana, anzi la parola è ancora più singolare: oltre a " interprete " si dice " turcimanno ", che è una presa in giro straordinaria, non per la parola, si capisce, ma per quello che ci sta sotto) che, privo del contesto di chi ascolta, legge in un certo modo, sbagliato rispetto a chi ascolta; non solo, ma il cosiddetto narratore ci avverte addirittura che egli lo fa per la sua pratica della composizione. Detto in termini tecnici, mentre chi raccontava raccontava la fabula, colui che scrive e colui che interpreta stanno nell'intreccio, né più né meno. E c'è un contrasto profondo, vitale. A questo punto moltiplicando l'operazione, ci si avvede che qui il dato ermeneutico fa parte del racconto, è un momento dell'azione, e un di più dell'azione. Ma, a ben guardare, se ne tiriamo tutte le conseguenze, il narratore del romanzo sta facendo la stessa cosa rispetto ai suoi personaggi. In altre parole: è lui lo scrivano, il " turcimanno " e l'" interprete ". Dentro al romanzo c'è una sorta di rappresentazione, che non è la neutralizzazione di ciò che viene fatto, è la denuncia, il facimento della cosa e nello stesso tempo la sua messa in crisi. Ma poi, che cosa vuol dire " mettere in crisi "? E a questo punto come ci si muove nei labirinti del linguaggio?

Ecco un caso in cui ho la sensazione che, se non si va alla decostruzione (diamole pure tutti i significati che vogliamo), non si sia in grado di leggere. E ciò è così vero che, di fronte a un testo come i Promessi sposi, così delegato all'ideologia, noi siamo sempre partiti da risposte preordinate al testo per risolvere il testo. Siamo partiti dall'alto, cioè dalle totalizzazioni. Se invece partiamo dall'altra parte, che pure è una filosofia, che cosa avviene? E allora ecco che potrebbe darsi un caso paradossale: non soltanto ci sono le cose che non vengono dette, come il " sun " nella poesia di Stevens, ma ci sono le cose che vengono dette e vogliono dire un'altra cosa. Un esempio per tutti: siamo sicuri che una parola così facile e terribile, quando nel romanzo si parla delle cose del mondo, la parola " provvidenza ", sia davvero il toccasana o non sia piuttosto il segno di altro?

Leggere significa porre delle interrogazioni. Qualcuno potrebbe dire che questo è nichilismo; ed è vero che dopo Nietzsche si possono dare al problema tante risposte, ma ora, per concludere, vorrei porre un'ultima domanda: dietro operazioni come quelle che vanno sotto il nome di decostruzione esiste una filosofia forte del pluralismo? E questo comporta allora una scelta di decisioni etiche oltre che epistemologiche come sostiene Miller? E' possibile considerare il termine retorica o pragmatica come sostitutivo di estetica (come inglobante, non già come oppositivo) proprio per ricostituire la tensione con il discorso etico e il suo momento finale? Non dobbiamo convenire che occorre distinguere tra un'ermeneutica della contemplazione e una ermeneutica " as act ", come sembra proporre Hillis Miller?

L'ermeneutica della contemplazione è monologica, affermativa, non dubitativa e parte dal modello della perfezione; l'ermeneutica a cui mi riferisco è invece imperfetta (vuole essere imperfetta), è dialogica, dubitativa, perché pensa che le parole che contano sono in fondo delle domande, visto che di solito, nel nostro linguaggio corrente, le domande hanno un peso limitatissimo. Esse invitano a riflettere e creano degli spazi che potremmo chiamare di ironia. Non so se sono riuscito a mettere insieme una serie organica di domande. Lo spero.

 Valesio - Ringraziamo il prof. Raimondi, il quale ha posto, forse, le domande più esplicite, ma sotto la pressione del tempo converrà continuare con gli interventi e poi, magari, sentire anche il pubblico e infine provare a rispondere.

Guglielmi - Si è chiuso questo giro di interventi sul punto in cui è incominciato. E' incominciato con un problema di interpretazione di The Red Fern di Stevens e si è chiuso sul problema dell'interpretazione, allargato a un punto di vista teorico.

Ora mi pare che nel modello di Miller siano presenti (se ho capito e seguito bene) due linee: una linea, che potremmo chiamare di decreazione o di deconstruction, e una linea, invece, costruttiva tendente a dare una grammatica del testo. Sicché l'elemento sovversivo-decostruttivo trovava un equilibrio e una composizione provvisoria in una metafisica, da intendersi in senso nuovo, in una grammatica appunto. E questo mi pare sia proprio il problema principale riguardo al rapporto tra lettura e misreading, tra interpretazione e fraintendimento. Che è un rapporto, diciamo così, di tensione tra due testi: il testo della critica (la critica è appunto un testo) e il testo letto. In che senso quindi un misreading è un reading? in che senso, cioè, il fraintendimento (un fraintendimento giustificato da un'interpretazione) è un intendimento legittimo del testo?

Vorrei, per rompere un poco l'astrattezza e forse la fatica della mia formulazione, riferirmi a un testo ben noto di Borges il quale, nel racconto appunto Pierre Menard, autore del " Chisciotte ", scrive: " Menard (forse senza volerlo) ha arricchito mediante una tecnica nuova l'arte incerta e rudimentale della lettura: la tecnica dell'anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee, Questa tecnica, di applicazione infinita, ci invita a scorrere l'Odissea come se fosse posteriore all'Eneide, e il libro Le jardin du Centaure di Madame Henri Bachelier, come se fosse di Madame Henri Bachelier ". Leggere l'Odissea di Omero come se fosse l'Odissea di Omero: ecco l'attribuzione erronea. Io direi che gran parte delle discussioni che si sono avute in Francia, o in Inghilterra, in America, e anche in Italia sul problema dell'interpretazione, del misreading ecc., sia abbastanza bene contenuta nei paradossi di Borges. Che cosa ci dice in fondo Borges? E' chiaro che l'apparizione dell'Eneide rende necessaria un'altra lettura dell'Odissea e che quindi non esiste una figura permanente, definitiva, metafisica dell'opera, da raggiungere per approssimazioni (sarebbe il modello Omero), ma esiste una pluralità di interpretazioni: ogni reading autentico è un misreading. La novità dell'idea di Menard consiste in questo: che mentre una certa tradizione strutturalistica rigida (per esempio Lévi-Strauss) ci dice che tutti i miti sono uno stesso mito (i miti si pensano), egli ci invita a leggere in un unico libro infiniti libri. Menard con infinita industria è riuscito a ricostruire alcuni frammenti del Chisciotte. E tuttavia, benché identici, i brani non sono gli stessi. A una sola condizione Menard potrebbe riuscire nella sua impresa, alla condizione di essere immortale (" Mi basterebbe essere immortale per condurla a termine "). Borges in sostanza viene a dirci che una dimensione fondamentale della scrittura è la temporalità e che lo stesso discorso vale evidentemente per la lettura.

Ogni lettura, infatti, è sempre un incontro tra due temporalità. Benjamin ci ha ricordato che leggere un libro significa leggere il proprio tempo nel tempo del libro. Ed è chiaro che ogni nuova lettura è una lettura creativa, solo se corrisponde a una nuova cultura, al nuovo tempo di una nuova cultura. La lettura è rapporto tra due mondi: il mondo letto (il mondo oggetto) e il mondo che legge: ed è evidente quindi che sarebbe un errore attribuire Le jardin du Centaure di Madame Henri Bachelier a Madame Henri Bachelier, quasi che fosse un'entità immobile, e non, invece, un'entità che si dirama nella pluralità di reti della lettura, che è una pluralità di tipo temporale, storico-temporale.

In questo senso mi pare che sia interessante, nell'ambito degli studi americani, della critica americana, l'indicazione di una duplicità dei testi, che mi pare di cogliere negli scritti di Miller. Penso, per esempio, al saggio introduttivo a un suo libro recente: Fiction and Repetition, in cui appunto si parla delle due forme della similitudine, quella platonicamente di tipo logocentrico e l'altra che io chiamerei di tipo retorico: quella cioè che istituisce una distanza del testo da se stesso. Grazie a quest'ultima, la temporalità diventa costruttiva del testo, è nel testo, e leggerlo significa trasformare e inserirsi nella corrente del tempo.

Il testo del res non è altro che la sua tradizione storica. Non esistono astrattamente Dante e la Divina Commedia. Esiste l'opera di Dante nella serie delle sue interpretazioni: l'ultima delle quali, particolarmente importante, è magari quella che nella letteratura di lingua inglese è stata data da Eliot e Pound. E' vero insomma che il grande problema della lettura è il fraintendimento, ma tale " fraintendimento " si deve concepire come una forma di " intendimento ". Bisogna cioè guardarsi dall'irrigidire l'opposizione tra i due termini, mantenendo il mito di una possibilità, sia pure teorica, di esaurimento del testo, e scartando come fraintendimento ogni altro tipo di lettura. In realtà non c'è intendimento senza fraintendimento. Si tratterà, caso mai, di distinguere tra l'una e l'altra lettura, e la distinzione sarà sempre una distinzione - vorrei dire - di tipo politico, cioè etico - in senso largo - e temporale. Il miglior reading sarà quello che meglio riuscirà a giustificarsi, e, beninteso, non in senso puramente formale - benché anche questo sia importante - bensì in rapporto alle tensioni di un certo tempo e di un certo mondo storico.

Così (se mi permettete di insistere in una sommaria esemplificazione) quando Eliot in The Waste Land riprendeva l'Inferno di Dante, è chiaro che riempiva di nuovi contenuti, riattivava in una forma (secondo una nuova direzione del tempo), riproponeva la presenza di Dante nel Novecento. Eliot e Pound hanno fatto di Dante un autore del Novecento, un autore che appartiene alla letteratura del Novecento, che rientra nel canone del Novecento: e con loro quanti li hanno aiutati a leggerlo assicurandone la tradizione, e allora anche (credo che Valesio su questo punto possa essere d'accordo con me), i comuni lettori, gli esegeti, i professori.

Ho, promesso di non rubare molto tempo. Non me ne sono dimenticato. Ma, visto che ho cominciato con una citazione, vorrei finire con un'altra citazione, che è interessante anche per la nostra letteratura, perché vi si potrebbe riconoscere il programma di un movimento artistico importante in questo secolo, quello dei pittori e degli scrittori metafisici. La citazione (che riconoscerete subito) è la seguente: " Oggi è per noi solo questione di decoro non voler tutto nella sua nudità, non volere intrometterci in tutto, tutto comprendere e 'sapere'. E', vero che il buon Dio è presente in ogni luogo? Chiese una bambina a sua madre, e: 'Ma io trovo che questo non sta bene'. Un avvertimento ai filosofi! Si dovrebbe onorare maggiormente il pudore con cui la natura si è nascosta sotto enigmi e variopinte incertezze ". E vorrei allora porre conclusivamente un rapporto tra retorica e grammatica. Considero la grammatica una configurazione provvisoria della retorica, non più che una interpretazione da cui per altro non si può prescindere. Ed in questo senso mi pare che si sia mossa la critica americana dal New Criticism, a Paul de Man, a Bloom, a Miller e ad altri. La grammatica, cioè, è solo la messa in forma di un materiale, in sé polideterminato, e in attesa di una organizzazione, insieme necessaría e mutevole.

E', la grammatica insomma che è una variante della retorica. E tuttavia non secondo una chiave idealistica (intendo idealismo nel senso generico, ma anche preciso, della sua tradizione da Platone a un Benedetto Croce e oltre). Le opere della letteratura (e dell'arte), infatti, sono mortali come tutti gli organismi, e naturalmente noi inseriamo la nostra temporalità nella temporalità della storia, fissando dei momenti, delle unità di comunicazione, che non sono altro che delle interpretazioni variabili o delle stazioni provvisorie di un percorso e di un uso, non sappiamo quanto illimitato - del segno letterario e artistico. Come dire che solo finché sapremo fraintendere potremo produrre senso: o, detto altrimenti, che ogni decisione di senso comporta un campo di possibilità interpretativi destinato a restare implicito.

 Miller - Non Pensavo di essere così provocatorio nel proporre il titolo, Etica della lettura per il mio seminario. Mi sembra però talvolta di non essere in chiara sintonia (o è un problema di termini), con quanto qui si è osservato.

Tenterò brevemente di replicare a Raimondi. Schlegel, Levinas, Derrida: intelligente connessione. Ma c'è più di uno Schlegel. Per esempio, quello arrivato a noi attraverso la rilettura o la risposta di Hegel e Kierkegaard. E', poi importante ricordare la connessione-opposizione fra Levinas e Derrida: fondamentale per me e per il nostro pensiero. Ci sono moltre due parole che hanno bisogno di precisazione: dialogo e pluralismo. Il pericolo è che i due termini siano intesi retoricamente nel senso in cui li usa Wayne Booth.

Raimondi - No, Il mio referente non è Booth, ma sono Levinas (ciò che viene dopo Levinas) e Bachtin.

Fortunati - Innanzitutto mi sembra interessante sottolineare che oggi, a distanza di un anno, ci siamo ritrovati a parlare assieme con Miller e altri colleghi di un problema quale la lettura-interpretazione, che era già emerso, anche se da differenti angolazioni, durante il Convegno sul Sublime con Harold Bloom [Convegno tenutosi a Bologna nei giorni 30-31 maggio 1984 a cura di V- Fortunati e G. Franci. Gli atti sono apparsi in " Studi di estetica ", nn. 4/5, nuova serie, 1984.]

E non è, a mio avviso, un caso che se ne parli proprio in questo periodo in cui la critica si interroga, riflette su se stessa, sulla propria origine. Nel panorama confuso e nebuloso della critica post-strutturalista e decostruzionista, nel quale, come dice Culler, non si può più pensare alla critica come ad un'unica attività, il problema della lettura-interpretazione è diventato predominante e si carica di varie valenze.

Anche per Miller, uno dei più prestigiosi diffusori della dottrina di Derrida in America, l'atto della lettura è sempre stato centrale nel suo pensiero critico, fin dai primi saggi in cui appare influenzato da Georges Poulet. In questi giorni, durante il seminario dal titolo quasi provocatorio Ethics of Reading, Miller ha, in più occasioni, sottolineato che il leggere è un " hard work ", un lavoro duro e che è difficile stabilire ciò che esattamente accade nell'atto della lettura. E ancora una volta, come aveva già fatto in passato nelle sue pagine critiche, Miller si è servito, per tentare di spiegare il complicato meccanismo della lettura, di una metafora: " l'atto della lettura è un evento le cui tracce si trovano sparse qua e là in una forma scritta, simili a quelle lasciate dalle particelle sub-atomiche, quando entrano in una camera a bolle ". E commentando la frase di Nietzsche " ... forse si è ancora filologi, cioè amanti della lettura lenta ", Miller ha posto l'accento sul significato della filologia come amore per le parole. Per un buon lettore, ha ripetuto con insistenza, le parole sono le uniche cose che contano (" words are the only thing to be accounted for ").

La centralità dell'atto della lettura nel pensiero di Miller è conseguente alla premessa che, per lui, un buon critico non può essere un buon lettore e viceversa: una buona lettura è sempre lenta, accurata, deve rivelare l'eterogeneità del testo le sue fessure, i suoi anacoluti. Per Miller, come per Derrida, decostruire un testo non vuole dire de-strutturarlo, ma evidenziare la decostruzione che vi è implicitamente nascosta. In tale prospettiva il compito del lettore-critico è quello di " identificare un atto di decostruzione che, anche se in modo diverso tutte le volte, è sempre già stato attuato dal testo su se stesso " Hillis Miller, Deconstructing the Deconstructors). Il lettore-critico decostruzionista deve come un " detective " rinvenire nell'ordito del testo quel " filo di Arianna " che può disfarlo, sfilacciarlo o identificare quel mattone capace di far crollare tutto un edificio.

Per Miller, come per De Man, si parte sempre dal testo (ed è questa a mio avviso l'eredità più forte del " New Criticism "), un testo aperto alla mise en abime dei significati, alla disseminazione semantica, al libero gioco delle parole. I testi sono fondamentalmente " illeggibili ", perché permettono una catena di potenziali mis-interpretazíoni: la lettura è un atto coinvolgente e totale in cui il lettore-critico e il testo vivono una reciprocità conflittuale e perturbante. Non potendo trovare un principio sovrano alla " spiegazione ", fisso nel testo come una roccia, il lettore si muove a fianco del testo in modo obliquo, compiendo una " danza laterale ", muovendosi da una figura rimossa ad un'altra, in un movimento senza fine che non può mai raggiungere il movimento originale e originante. Il testo si presenta come un grande arazzo formato da fili intrecciate che rappresentano le parole, i temi, i personaggi; nel testo non esiste alcun elemento prioritario, nessun ordine gerarchico, nessuna chiave unica di lettura. Miller, come gli altri decostruzionisti, è consapevole che l'opera è eterogenea, plurima, che vive vite diverse ad ogni lettura-interpretazione.

In Miller è sempre stata presente la volontà di non racchiudere il testo in una " interpretazione univoca ", ma di aprirlo, di fargli assumere forme diverse ogni volta che viene letto.

Nel saggio The Crític as host, raccolto nell'antologia Deconstruction and Criticism, Miller si era servito, per delineare la posizione del lettore-critico decostruzionista, della metafora ospite-parassita con la sua logica complessa: il testo è cibo necessario per il critico e il lettore-critico si nutre dell'opera, l'uccide, ma al contempo l'aiuta a vivere e a ripetersi ad ogni lettura. Il lettore-critico decostruzionista compie un atto contro l'opera, ma al solo scopo di fare qualcosa per l'opera: la slega, la decostruisce, scava nelle sue fessure, le toglie l'immagine di solidarietà e pienezza per permettere alle parole (" la proprietà comune a tutti i lettori ") di produrre echi che si imprimono nella mente dei lettori. L'atto della lettura induce il lettore ad entrare nella retorica del linguaggio, a capire i movimenti della lingua, la differenza tra linguaggio referenziale e figurale. Si tratta di un momento fondamentale, perché per Miller non è tanto importante che cosa le parole significano, ma come si origina il significato " ... how does the meaning arise from the reader's encounter with just these words on the page? " (j. Miller, Fiction and Repetition).

La retorica per Miller non è un modo di persuasione, " ma ciò che disciplina il lavoro dei tropi, cioè tutti i movimenti della lingua che l'allontanano dal significato strettamente referenziale ".

Ma parlando della retorica, mi sembra che si tocchi un punto molto importante, che anche oggi è emerso nel dibattito. Nell'affascinante lettura che Miller ha proposto della poesia The Red Fern di Stevens,,si è presentato lo stesso problema che appare in uno dei suoi libri più recenti Fiction and Repetition: la lettura retorica di un testo dipende necessariamente da un momento ermeneutico e quanto si può tenere disgiunta la retorica dall'ermeneutica? A me sembra che in Miller vi sia, nelle acute analisi che compie sui testi letterari, una tensione mai risolta tra il momento retorico e quello ermeneutico. In Fiction and, Repetition, nell'analisi di alcuni romanzi, ha sottolineato come in un testo possono convivere due tipi di ripetizioni: quella " iconica ", " normativa " o " platonica " (" solo ciò che si somiglia differisce ") e quella nietzscheana onirica e fantasmatica " solo le differenze si somigliano "). I due concetti di ripetizione ripropongono, all'interno del testo, la stessa strategia del lettore-critico, ospite-parassita, un accostamento che ancora una volta scopre il continuo decenteríng, " displacement " del testo. Da questo punto di vista la critica di Miller, come ricordava Raimondi, è una critica che si interroga, dialogica, antitotalizzante. L'atto della " dislettura " sovverte l'idea di identità, allontanando all'infinito la possibilità di raggiungere un'interpretazione globale totalizzante. L'opera rimane estranea " anomala ", ma la dislettura porta alla luce il significato dell'opera proprio nello spazio vuoto e spettrale che si insinua tra le due forme inter-agenti di ripetizione.

A mio avviso, nonostante la distinzione che anche oggi Miller ha fatto tra " lettura " e " interpretazione ", in lui sono presenti queste due istanze: il momento retorico infatti non esclude quello ermeneutico. La lettura è un'attività intersoggettiva che instaura un dialogo tra lettore e testo, una situazione che è archetipica dell'ermeneutica. Come Fiction and Repetition è a mio avviso, dominato da una duplice tensione tra il momento retorico e quello ermeneutico, così mi è sembrato in questi giorni, ascoltando il seminario sull'Etica della lettura, di cogliere una serie di nuove ambivalenze.

Innanzitutto Miller, come molti altri critici oggi in America, cerca di fare una sorta di bilancio sul significato che ha avuto per lui la " decostruzione " nel panorama della critica americana ed europea. La " decostruzione " non è stata una scuola critica dai contorni ben definiti e delimitati, ma ha avuto il merito di mettere in discussione alcuni presupposti e assiomi nello studio della letteratura, di sottolineare la centralità dell'aspetto figurale del linguaggio letterario, la sua indecidibilità.

Ma Miller, ponendo oggi sul tappeto il problema dell'etica della lettura, mette in risalto alcuni punti che la " decostruzione " aveva accantonato o per lo meno non affrontato. In primo luogo sente la necessità, anche per difendersi dagli attacchi dei suoi denigratori, di gettare un ponte tra teoria e prassi, di uscire dalle strozzature di un pensiero nichilista. Così, in questi giorni, l'abbiamo sentito parlare della sua funzione di insegnante di letteratura, di " teacher " che svolge un compito preciso all'interno dell'istituzione accademica: insegnare la letteratura secondo programmi ben definiti. Miller ha sottolineato il doppio impegno morale dell'insegnante: il primo è la fedeltà al testo e alla sua legge, il secondo è la fedeltà nei confronti degli studenti, la sua responsabilità morale come insegnante. Due impegni morali, due " moral compuisions " che possono entrare in conflitto ed è per questo che diventa essenziale il problema di come coniugare l'estetica con l'etica.

Miller, dopo anni in cui era stato definito il " distruttore nichilista ", rivela oggi le sue mai dimenticate origini puritane e umaniste ed ha il coraggio di riproporsi problemi, che lo ricollegano alla tradizione arnoldiana, filtrata attraverso la lezione della filosofia tedesca (Schiller e Kant). In un suo recente saggio The Search for Grounds in Literary Study afferma che " il critico oggi non può non porsi una serie di domande fondamentali: qual è la funzione della letteratura e della lettura in una società dominata dai 'mass-media' e dalla temologia? E, di converso, qual è la responsabilità etica e politica dell'insegnante? " L'arte, la letteratura - si chiede Miller - potrebbero far da ponte tra l'epistemologia e l'etica? Questi, non sono certo problemi nuovi: da sempre nella tradizione critica americana sono presenti queste due tendenze: da una parte la contemplazione estetica, disinteressata, dell'oggetto artistico; dall'altra la concezione che l'opera d'arte è capace di esercitare una forza morale sulla storia. Ma Miller si rende pure conto che il post-strutturalismo e la decostruzione non sono passati invano e che il porsi questi problemi, oggi, assume inevitabilmente nuovi significati. Si tratta infatti, per Miller, di vedere se è possibile incorporare lo studio retorico della letteratura con quello sociale e storico. Così l'atto della lettura non disvela solo l'aspetto figurale del linguaggio, ma diventa un evento che costringe il lettore ad una scelta: non è un caso che gli autori che Miller provocatoriamente ripropone per una lettura " non canonica " siano i grandi romanzieri vittoriani da lui tanto amati, A. Trollope, G. Eliot, H. James. Autori che pongono il lettore di fronte ad una scelta, ad un dilemma. L'atto della lettura quindi come evento esemplare, come atto che spinge all'azione.

Infine vorrei concludere sottolineando, come ha già fatto Valesio, quanto sia importante tenere presente le diverse valenze che i problemi acquistano in rapporto al differente contesto culturale e sociale. Parlare d'etica della lettura in Italia, in un paese come accennava Raimondi privo di quella sana mentalità empirica, può acquistare un significato negativo: il " teacher " come colui che sanziona, stabilisce l'autorità e che, proprio per questo suo ruolo istituzionale, non può operare sul testo quel processo di " revisioniamo ", quella critica " antitetica ", che mi sembra essere stata una delle istanze più stimolanti di Miller e della decostruzione americana.

Valesio - Io non volevo tracciare un fossato tra l'atmosfera anglo-americana e quella italiana. La mia indicazione era molto semplice. Mi premeva sottolineare l'importanza di una ripresa dell'etica nella critica italiana; decidere quale poi debba essere questa etica (se nichilistica, cristiana, guidaica o una loro mescolanza) direi che spetta appunto ai singoli.

Il problema che ha sollevato Raimondi del pluralismo è un problema grosso, secondo me, e non è più soltanto un problema etico. La mia preoccupazione circa l'individualismo è che l'individualismo corre ovviamente un pericolo di solitudine e di non comunicazione, mentre il pericolo del pluralismo è l'eclettismo. Non credo che Raimondi avesse in mente ciò che correntemente si intende con questo termine, ma il rischio del pluralismo, mi sembra l'eclettismo. In questo senso la critica italiana non ha nulla da imparare. Diciamo che il pluralismo oscilla fra l'eclettismo da una parte e il rifiuto della comunicazione dall'altra. E' forse il ponte più giusto. La parola, per me, è gravida di problemi, in questo senso. Il rischio dell'esteta, nella sua tragicità, è appunto quello di rimanere completamente solo (Wilde, in tal senso, è una figura tragica). Da un lato c'è un pericolo di tragica solitudine, dall'altro il pericolo, non praticato da Raimondí, ma che può essere misletto, è l'eclettismo.

 Raimondí - Certe parole vanno sottratte al nostro cattivo uso. " Pluralismo " è una parola che l'ideologizzazione italiana ha sempre negato; naturalmente in questo caso io citavo Levinas e Rosenzweig, perché non lasciavano dubbi sul fatto che è il pluralismo che protesta la violenza. Non sono, certo, dalla parte di un pluralismo pacifico, che è l'accomodamento di tutto. E' chiaro poi che io sono sottoposto, a mia volta, ai costumi e alla nostra tradizione, ma dovremmo pur anche sottrarre certe parole al consumo che una certa tradizione ne ha fatto per liberarsi anche dalla loro minaccia. La cosa migliore per liberarsi dalla loro minaccia è di renderle inoffensive con questa edulcorazione.

E' lo stesso per il dialogo: se io sottolineo il termine dia è chiaro che parlo di una cosa che non invita a unire, ma intende sottolineare la distanza e la differenza. Con ciò non viene meno il dovere delle relazioni, certo, ma non sono mai relazioni facili: sono conflittuali per definizione. Ciò dico, se non altro per salvare l'anima o quello che voi volete, insomma.

Franci - A cinque anni di distanza dalla pubblicazione di Deconstruction and Criticism, che fu considerato a torto o a ragione il manifesto della decostruzione di Yale, si possono fare alcune riflessioni e tirare alcune somme. D'altra parte, come diceva giustamente Vita Fortunati, lo stanno facendo loro stessi, i decostruttori, e Miller ce lo sta dimostrando.

Che cosa ci pare di notare nell'evoluzione del discorso critico di questi ultimi anni? Prima di tutto non si parla più tanto di critica (che presuppone un metodo, dei metodi, un rapporto relativamente chiaro fra testo, autore e lettore-critico) e di letteratura come entità separate e distinte. Si parla invece piuttosto di lettura, privilegiando, come in una sineddoche, l'atto parziale rispetto al concetto generale. La lettura è la " critica senza nome ", non fondata, non rappresentativa né legata alla rappresentazione. La lettura è la critica come finzione che, attraverso la figurazione (il linguaggio figurale del tropo), dice o tenta di dire - come ricordava prima Valesio - ciò che non si può dire. Per questo, legandosi al problema dell'interpretazione e dell'ermeneutica classica, è più vicina alla filosofia e alla teologia che non alle scienze del linguaggio. Per questo il critico-lettore, che coniuga etica e estetica, vita e letteratura, è di nuovo vicino al prete, al predicatore, solo che non ha più una verità da propugnare, esaltare o insegnare. Il suo linguaggio assume lo stile interrogativo e se di ermeneutica si può parlare, è quella del dubbio, dell'incertezza. Lettura-interpretazione-ermeneutica: come il circolo ermeneutico poneva il problema, attraverso il testo, dell'interpretazione di se stessi, così la critica oggi si interroga su di sé, si fa auto-riflessiva e le cose si complicano. Se Frank Kermode, nel suo libro sulla Bibbia come modello di narrativa The Genesis of Secrecy [F. Kermode, Tbe Genesis of Secrecy, Harvard U.P., 1979.] scriveva che la critica è diventata " interpretazione dell'interpretazione ", noi, parafrasando Montaigne, possiamo aggiungere che " è più difficile interpretare le interpretazioni che interpretare le cose ". La lettura, quindi, non punta più tanto l'accento sulla ricerca di un e significato interno al testo, ma sull'atto della lettura in sè, sul suo significato o meglio sui suoi fini.

Ecco perché parlare di " etica della lettura " oggi, al di là di un nostro iniziale sconcerto o preoccupazione, è così importante. Anche se non tutti sono d'accordo su cosa significa etica, tutti sottolineano l'intreccio di nuovo cruciale fra etica e estetica, come si è visto nel dibattito odierno. Fra i critici di Yale, G. Hartman, riprendendo il termine di ermeneutica, parla di una " ermeneutica negativa ", dell'indeterminatezza, nella quale non c'è alcun senso da ricercare; ponendo poi l'interprete di fronte ai vari ruoli o maschere che di volta in volta viene ad assumere (quello del commentatore, del parassita, del teacher o del critico), lo invita a calare la maschera: " Interprete, definisci te stesso ". Anche H. Bloom in Agon [ H. Bloom, Agon, Oxford U.P., 1982.] commentando l'attuale situazione di incertezza e crisi, parla di " anarchia interpretativa ": " L'anarchia interpretativa è un'espressione che dice la necessità della dislettura (misreading) " - poi aggiunge - " è forse necessario precisare che con il termine dislettura non intendo la dislessia? ". Leggere è disleggere, fraintendere, tradurre, tradire: l'atto della lettura non è mai innocente. Ammesso ciò, c'è chi sente il peso di questo " peccato originale " e cerca di espiare, ammettendo la colpa: potrebbe essere il modello etico-sociale di Miller. Oppure chi, partendo dall'ansia del lettore, reprime la colpa e reagisce, distruggendo o occultando ciò che e la ricorda: è il modello agonico di Bloom, individuale e solitario.

Il problema del pluralismo dialogico, di cui parlava Raimondi, o della Babele delle letture (Borges citato da Gugliehffi), si metamorfosa nel riconoscimento dell'inevitabilità del misreading. Anzi, l'unica buona lettura risulta essere la dislettura: " leggere bene è un lotta ", scrive Bloom; e Hartman: " dislettura come illeggibilità non debbono essere intesi in senso negativo, perché mai come oggi si è presa la lettura così seriamente ".

E', la strategia del fraintendimento; ma, mentre per De Man e Miller la decostruzione è preesistente nel testo e l'atto del misreading è una funzione costitutiva del linguaggio figurale, per Bloom essa è una conseguenza di derivazione psicologica, una reazione alla sensazione di tardività (belatedness) tipica del moderno. E in lui, più che negli altri critici di Yale, mi pare che il problema della lettura diventi una condizione experiential, di vita. Se Miller, come sottolinea Vita Fortunati, è oggi soprattutto preoccupato del rispetto di fronte alla legge del testo, da una parte, e della responsabilità del critico-teacher nei confronti della società dei lettori-pupils, dall'altra Bloom fa una scelta decisamente tardo-romantica, una scelta soggettivamente forte. La lettura, come la creazione, è un evento catastrofico in quanto ogni volta rimette in scena l'atto originario della ribellione; e la tradizione non vuol dire semplicemente il passato, ma la ripetizione dell'evento catastrofico, o meglio un campo di battaglia psichico come scontro di letture. La scena originaria - scrive Bloom fondendo Freud con Derrida - è " la scena dell'istruzione " che mette l'efebo di fronte al precursore. Dal momento che noi veniamo " dopo l'Evento " (la Prima Parola è già stata scritta), tutto è ripetizione: cerchiamo quindi di reagire al senso di tardività con un'edipica uccisione del padre. " Interpretare una poesia - scrive Bloom - vuol dire interpretare la sua differenza dalle altre poesie ". La lettura è ritrovare il poeta dentro il poeta e la scrittura nasce solo da un atto di repressione e di oblio. Se qui troviamo la dimensione gnostica della creatività come catastrofe, si trova anche, in Bloom, la lettura come gnosi, atto di auto-conoscenza, esperienza interiore di libertà; quell'atto di inabissamento di cui parla anche Blanchot, vicino in questo ai decostruttori americani non meno di Derrida. E'quello che Emerson, il grande predecessore di Bloom in America chiamava " fiducia in sé ". Ma in Bloom, romantico ed emersoniano tardivo, che vive - come scrive Rorty - nella condizione post-filosofica dell'arte senza fondamento di verità, ritorna il pragmatismo dei fini. La verità è sostituita dalla morale: è il bisogno di un'illusione, nietzscheanamente la volontà poetica. L'agonismo è dunque una questione pratica, morale, anche se Kant viene ricordato certo più da Miller che da Bloom, in una rilettura, a mio parere, tutta americana. La differenza fra la riflessione, ormai possiamo dire, post-decostruzionista (in Europa e in America) sta nel fatto che Derrida (con gli altri pensatori heideggeriani) è più vicino all'ontologia, mentre Bloom e Miller sono più vicini alla vita. Nel testo si rivela, attraverso il misreading, una extratestualità emotiva del fare più che del conoscere. E l'atto della lettura, non presupponendo un metodo formale né una verità, non applica strumenti conoscitivi, ma è practical perché ci fa agire. La teoria del revisioniamo di Bloom, la sua " mappa della dislettura ", diventa in un certo senso la neo-religione americana, pragmaticamente un re-aiming. Ma senza trionfalismi e con tanta ironia: il nichilismo non è passato invano.

Una domanda, infine, a Hillis Miller, qui presente: in questo tipo di lettura " etica " dove va a finire il piacere del testo, che ci ha insegnato Barthes, la lettura come gioco (ma gioco " serio " come diceva Oscar Wilde)? Non rischia di venire soffocata eticamente o agonisticamente da un super-io repressivo?

Miller - Si è parlato di lettura come gioco. Certo. Per me questo atto della lettura è giocoso; anche se è etico è gioco, divertimento. Se non lo è, non mi interessa. L'altro punto è più serio. Tornando al pluralismo, se non si precisa bene, il pericolo è che si rimetta tutta la responsabilità al lettore. Allora chiarisco che la Decostruzione è diversa dalla teoria del Reader Response, perché nella decostruzione c'è la gioia di rispondere a qualcosa che è nel testo.

 

Logo Parol
© 1985/2003 Parol - quaderni d'arte e di epistemologia
Per qualsiasi utilizzo delle risorse presenti sul sito contattare la redazione
Site designed and managed by Daniele Dore