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Lo sguardo astratto: rappresentazioni sinestetiche e manifestazioni del sublime
di Marco Rinaldi

L'occhio, del quale la bellezza
de l'universo è specchiata dalli contemplanti,
è di tanta eccellenzia che,
chi consente alla sua perdita,
si priva della rapresentazione de tutte l'opere della natura
per la veduta delle quali l'anima
sta contenta nelle umane carceri mediante gli occhi,
per li quali essa anima si rapresenta
tutte le varie cose de natura.

Leonardo da Vinci, Il paragone delle arti

Una delle strade maestre percorse dall'avanguardia è stata il perseguimento di una "sintesi delle arti" che, conducendo a un progressivo assottigliamento dei confini di competenza fra pittura, scultura, architettura, musica, teatro, danza, letteratura, almeno nel senso della ricerca di un principio compositivo e strutturale (anzi costruttivo) comune, ha anche tentato di ricucire lo strappo ottocentesco fra arte e vita, infrangendo le tradizionali barriere tra spazio virtuale dell'opera d'arte e spazio reale dell'uomo, tra sfera estetica e sfera fenomenologica.

La ricerca di questa sintesi, in pittura, si è così frequentemente espressa attraverso l'uso di una figura retorica quale la sinestesia, come restituzione di una globalità di percezioni sensoriali diverse e simultanee, percezioni tuttavia sempre coordinate dalla facoltà superiore della visione, intesa come facoltà conoscitiva in grado di compiere un'operazione di sintesi e di ricognizione appercettiva. Viene così ribadito il primato dell'occhio, della vista e della visione, che può anche giungere a ribaltarsi da frastuono percettivo in silenzio meditativo, in visione interiore o (e ciò sembra costituirsi come tendenza estrema e radicale dell'astrazione) in manifestazione del sublime.

Tale primato del resto pervade la teoria dell'arte e l'estetica tra la scorcio del secolo XIX e l'inizio del XX, con l'affermazione del pensiero purovisibilista di Konrad Fiedler e della contrapposizione tra "valori tattili" e "valori ottici" da parte di Alois Riegl. Proprio secondo Fiedler la visione "è una facoltà conoscitiva e creatrice di forme (visive), operante nell'attività artistica in modo assolutamente indipendente sia dall'intelletto, creatore di forme concettuali, sia dal sentimento e dalla sensazione; indipendente quindi anche dalle concezioni filosofiche, scientifiche, religiose"[1].

L'astrazione, come processo mentale caratterizzante il XX secolo in tutte le sue manifestazioni, dall'arte e dalla filosofia alle scienze, incarna questa possibilità di ricondurre il reale a una visione sintetica e globale, a una struttura combinatoria di elementi costanti che danno luogo a un modello rappresentativo di tutti gli accidenti possibili, espressione di un neoplatonico mondo delle idee e paradigma ordinatore delle apparenze: è la ricerca dell'assoluto nell'epoca della relatività. Il concetto di astrazione (da abstrahere, cioè staccare, separare, rimuovere) implica l'operazione di individuare ed estrarre alcuni elementi, ma anche il necessario "distacco" del soggetto nei confronti dell'oggetto (natura). Solo tale distacco può dar luogo a una sintesi della visione dopo l'analisi della percezione, coincidendo in parte questo processo con il polo cui Wilhelm Worringer, nella sua teoria estetica, ha opposto quello dell'empatia.

Proprio per Worringer (che ha in mente l'arte ornamentale) l'astrazione si costituisce come tendenza sovrastorica riscontrabile in diverse epoche; e nell'arte moderna tale processo, in misura maggiore o minore, è frequentemente verificabile in nuce anche nelle poetiche naturalistiche, almeno a partire dall'impressionismo, mentre è alla base di quelle tendenze che, scomponendo le strutture narrative e le catene sintagmatiche, isolano o decontestualizzano singoli oggetti, figure e immagini, quali la pittura metafisica o il surrealismo, oltre che, naturalmente, dell'astrattismo vero e proprio. L'impulso all'astrazione sembra scaturire dalla necessità di approdare a una struttura assoluta e regolatrice del reale, a un modello rappresentativo e non imitativo, dove "l'elemento primario non è il modello naturale, bensì la legge che da esso si astrae"[2].

Visione, come facoltà conoscitiva e intuitiva, e astrazione, come operazione mentale e razionale, muovendo da una Anschauung der Welt (immagine "visiva" del mondo) attraverso un rinnovato Weltgefühl (sentimento del mondo), approderanno nella cultura del Novecento a una radicale Weltanschauung (visione del mondo): già la scienza positivista ad esempio, recuperata da alcune avanguardie artistiche come il futurismo e principalmente da Giacomo Balla, elabora la nozione astratta di "tempo spazializzato", inteso cioè come successione di attimi e facendo incarnare un'entità invisibile come il tempo in porzioni di spazio; Henri Bergson, che rifiuta tale modello rappresentativo, riconduce il tempo al concetto di "durata", il tempo cioè concretamente vissuto dalla coscienza e che la memoria (con il suo bagaglio di immagini) dilata oltre il presente della percezione; Arnold Schönberg, nella sua teoria musicale dodecafonica, tenta utopicamente di realizzare un'inversione del tempo (come fotogrammi proiettati a ritroso) attraverso la serie per moto retrogrado, inversione affidata in realtà più alla percezione visiva della grafia musicale che all'ascolto; Ferdinand de Saussure, nel suo procedimento di astrazione volto a delineare un modello rappresentativo del linguaggio, definisce il significante (usando tra l'altro una sinestesia) come "immagine acustica"[3].

Sono le condizioni percettive nuove dello spazio e del tempo imposte dalla scienza e dalla tecnologia, prima ancora che mutati atteggiamenti intellettuali e filosofici, a determinare nuove visioni del reale nell'uomo del XX secolo: la velocità dell'automobile e delle onde elettromagnetiche, il volo aeronautico e lo "sguardo dall'alto", la trasparenza dei corpi attraversati dai raggi X e la possibilità di riprodurre la realtà ventilata dalla comparsa del Cinematografo Lumière, la solitudine dell'uomo di fronte al macrocosmo teorizzato da Einstein e al microcosmo scoperto da Freud, la solitudine dell'uomo messo a nudo di fronte a se stesso e alla sua follia.

Il processo di astrazione implica sempre un'operazione di riduzione e sintesi degli elementi del reale attraverso la loro sostituzione con segni convenzionali: così le "parole" sostituiscono le "cose" nel linguaggio, una formula fisica si pone come modello rappresentativo di un fenomeno naturale e una statistica di un fenomeno sociale. Si tratta quindi di un processo indispensabile per la formazione di strutture linguistiche (e, in senso più ampio, semiotiche) la cui condizione necessaria è quella di fondare i propri codici su un sistema di norme convenzionali. Anche l'arte quindi partecipa a questo processo, con modalità applicative diverse nelle varie epoche, a seconda cioè dei differenti gradi di riduzione e sostituzione che vengono applicati diacronicamente e sincronicamente e che fanno naturalmente parte degli sviluppi e delle mutazioni di tutti i sistemi semiotici, primo fra tutti la lingua. Ma è solo con l'astrattismo che si attua una rottura radicale nei confronti del codice naturalistico plurisecolare della tradizione figurativa occidentale, rottura causata dalla globale sostituzione dei segni iconici convenzionalmente accettati con altri integralmente nuovi. La sostituzione non riguarda più gli oggetti e gli elementi della realtà, ma gli stessi segni del linguaggio artistico: è un processo di astrazione che agisce all'interno del codice, ponendosi su un piano decisamente metalinguistico.

In questa sede si intende comunque circoscrivere il discorso solamente ad alcune manifestazioni dell'arte astratta: quelle che si muovono sul versante della sinestesia come modello rappresentativo globale del reale, in cui l'"eccesso" di percezione è affrontato con un atteggiamento positivo di adeguamento linguistico, espresso attraverso una sovrabbondanza di segni, e quelle che, ripercorrendo il sentiero interrotto di un'estetica del sublime, a tale eccesso reagiscono con una perdita dell'Io e con la denuncia di uno scarto linguistico nei confronti del reale, tradotto in termini di rarefazione dei segni, svuotamento dello spazio e tendenza al monocromo. Sul piano della risposta linguistica alle nuove condizioni percettive sembra cioè di poter individuare due visioni del reale espresse dall'astrazione che articolano la dimensione estetica in un polo sinestetico e in uno che, per simmetria, si potrebbe definire anestetico.

* * *

Preliminarmente a questa ipotesi si rende però necessario recuperare alcuni approcci analitici della linguistica strutturale, per comprendere meglio le modalità operative del processo di astrazione e sostituzione[4].

Roman Jakobson, in un saggio intitolato Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia[5], pone in rilievo come l'atto linguistico si fondi su un processo di "selezione" e uno di "combinazione": si sceglie cioè una parola piuttosto che un'altra dal lessico di una lingua e la si combina sintatticamente con un'altra parola per formare proposizioni e periodi. Tali modalità intervengono in realtà anche nella precedente fase di selezione e combinazione dei fonemi: ogni messaggio è costituito quindi da segni selezionati e combinati, in cui la selezione avviene in base a un rapporto associativo o di "similarità" tra segni di uno stesso codice, mentre la combinazione si svolge per nessi causali o di "contiguità" legati alla sintassi.

Si può aggiungere che tale duplice processo regola anche altri sistemi di segni diversi dal linguaggio, come lo stesso Jakobson non esita a rilevare quando, indicando le due direttrici semantiche lungo le quali si sviluppa un discorso, quella "metaforica" (per similarità) e quella "metonimica" (per contiguità), ed evidenziando come in un disturbo del linguaggio come l'afasia l'uno o l'altro di questi due processi viene a mancare, estende la sua analisi anche alla letteratura, alla pittura e al cinema, in cui l'oscillazione da un polo all'altro si manifesta come vera e propria scelta culturale e stilistica: "La preva-lenza alternante dell'uno o dell'altro di questi due procedimenti non è affatto un fenomeno esclusivo dell'arte letteraria: la stessa oscillazione ap-pare nei si-stemi di segni diversi dal linguaggio. Un esempio significativo tratto dalla sto-ria della pittura è costituito dall'orientamento evidentemente metonimico del cubismo che trasforma l'oggetto in una serie di sineddochi; i pittori sur-realisti hanno reagito con una concezione chiaramente metafori-ca. Dalle produzioni di D. W. Griffith in poi, il cinematografo, con la sua sviluppatissima possibilità di variare l'angolo, la prospettiva, e il centro delle inquadrature, si è distaccato dalla tradizione del teatro e ha usato una gamma senza precedenti di primi piani sineddochici e di montaggi metonimici in generale. In pellicole come quella di Charlie Chaplin questi procedimenti sono stati soppiantati da un nuovo tipo metaforico di montaggio, con le sue 'dissolvenze graduali', autentiche similitudini filmiche"[6].

Un qualsiasi messaggio (verbale, visivo, ecc.) costruito esclusivamente se-condo la direttrice metaforica o quella metonimica è indubbiamente un messaggio "simbolico". In entrambi i casi si sostituisce un segno (verbale, vi-sivo, ecc.) con un altro segno legato al primo da un rapporto di similarità o di contiguità: si sostituisce cioè un segno con il suo "simbolo". Nel caso del linguaggio artistico, sostituire in un dipinto la totalità dei segni con sim-boli, si-gnifica passare da una rappresentazione "analogica" ad una rappresen-tazio-ne interamente "simbolica", esistendo un'infinità di casi intermedi fra l'uno e l'al-tro estremo.

Per fare qualche esempio, un caso di rappresentazione simbolica dove il pro-cesso di sostituzione dei segni avviene lungo la direttrice metaforica, è ri-scon-trabile in un dipinto di Magritte del 1927, La speranza veloce, in cui l'avvenuta sostituzione è messa in evidenza da una sorta di di-dascalie accostate a strane figure biomorfe con le quali non hanno legame logico: "arbre", "nuage", "chaussée de plomb", "village à l'horizon", "cheval".

Un esempio di sostituzione metonimica è invece individuabile nelle varie ver-sioni del 1948 e 1950 di Comizio di Giulio Turcato, in cui la manife-stazione politica viene sinteticamente rappresentata attraverso le "sineddochi" delle geometriche bandiere rosse innalzate, procedimento memore delle Dimostrazioni interventiste di Balla.

Naturalmente i rapporti di similarità o contiguità stabiliti dagli artisti sono ar-bitrari e possono assumere gradi molto differenti, risultando quindi spesso difficile riconoscere le sostituzioni segniche. Nel caso della sostituzione me-tonimica in particolare essa può assumere tutte le sfumature che tale figura retorica permette: il contenente per il contenuto, la parte per il tutto, la causa per l'effetto, l'astratto per il concreto e viceversa. Una rappresentazione interamente simbolica, in cui la sostituzione dei segni av-viene per rapporti di contiguità, è quella fornita dall'astrattismo, dove la raffigurazione dei referenti (gli oggetti cui ci si riferisce e la loro conseguente rappresentazione pittorica) scompare per far posto ai loro "simboli metonimici". Così per esempio, in base alle proprietà ottiche dei colori di avanzare o retrocedere, semplici figure geometriche colorate possono sostituire gli oggetti rappresentati pittoricamente e le loro relazioni spaziali, come rileva Klee:

"Decisivo ai fini della domanda: 'astratto'? il modo in cui si tratta la dimensione davanti-dietro. Basta sostituire al davanti il giallo e al dietro il blu, ed ecco l'astratto.

Se invece, allo scopo di accentuare o attenuare la dimensione davanti-dietro, si ricorre alla luce, si ha l'oggettivo. Il raggio di luce incidente fa risultare, a seconda dell'angolo d'incidenza, il davanti o il dietro"[7].

E analogamente scrive Kandinsky:

"[...] non si deve dimenticare che esistono anche altri mezzi di conservare la superficie materiale, di creare una superficie ideale e di fissare quest'ultima non solo come una superficie piana bensì di utilizzarla come uno spazio tridimensionale. Già la sottigliezza o lo spessore di una linea, e poi la collocazione della forma sulla superficie, l'intersezione di una forma a opera di un'altra sono esempi sufficienti dell'espansione grafica dello spazio. Possibilità simili offre il colore, che, usato nel modo giusto, può muoversi verso lo spettatore o allontanarsene, tendere in avanti o all'indietro e fare del quadro un essere sospeso nell'aria, cosa che equivale all'espansione pittorica dello spazio"[8].

Strette analogie si ritrovano infine negli scritti di Mondrian:

"Poiché la pittura crea spazio su 'una superficie piana', le è 'necessario un plasticismo diverso da quello naturale' (che 'non' può essere visto su un unico piano).

La pittura ha trovato questo 'nuovo' plasticismo 'riducendo', nell'immagine, 'la corporeità delle cose a una composizione di piani, i quali danno l'illusione di giacere in un unico piano'.

Questi piani, e per le loro dimensioni (linea), e per i loro valori (colore), sono in grado di creare lo spazio senza esprimere prospetticamente lo spazio visivo. Lo spazio viene espresso in modo equilibrato perché dimensioni e valori rappresentano plasticamente il rapporto in modo puro: larghezza e altezza si oppongono senza scorci; la profondità risulta dalla differenza di colore dei piani"[9].

La sosti-tuzione di tipo metaforico non implica invece le stesse conseguenze, in quanto stabilire un rapporto di similarità tra due segni significa in sostanza sostituire un segno con un altro che rimanda a un diverso referente, legato al primo da una relazione associativa (oppure è necessaria come nell'esempio del quadro di Magritte la presenza della didascalia), secondo la gamma delle possibilità offerte dalla direttrice metaforica: dal sinonimo alla metafora vera e propria, fino ai casi estremi dell'antonimo e della tautologia. Proprio quest'ultima del resto può essere individuata nella radicale operazione semantica compiuta da Marcel Duchamp attraverso i suoi celebri ready made, in cui giunge a sostituire il segno con il referente vero e proprio, cioè con l'oggetto reale: si passa dunque da una rappresentazione a una presentazione tout court dell'oggetto, che oltretutto viene rinominato.

L'orientamento metonimico consente dunque di sostituire il segno rappresentativo dell'oggetto, per conti-guità, con un altro segno rappresentativo delle sue relazioni spaziali, temporali o causali: in tal modo di un'au-tomobile in corsa rimarrà la sua scia (e si avrà la "linea andamentale" di Balla), delle foglie di eucaliptus al sole rimarranno i loro giochi cromatici (e si avranno le Compenetrazioni iridescenti ancora di Balla), di una montagna rimarrà la sua silhouette (come nelle prime opere astratte di Kandinsky), di una veduta urbana rimarrà la scomposizione della luce in "tarsie" cromatiche (come nelle Fenêtres di Robert Delaunay) e di un oggetto l'insieme di raggi luminosi da questo rinviati (come nelle opere raggiste di Michail Larionov).

* * *

Le ricerche sulle interferenze sensoriali raccordate dalla facoltà della visione ed espresse attraverso la pittura astratta raccolgono sicuramente l'eredità della cultura tardoromantica e simbolista, che proprio nel progetto di una "sintesi delle arti" (di pittura, musica, letteratura, poesia, teatro, danza) inseguono una visione globale del mondo: così il dramma wagneriano si pone come opera d'arte totale (ma già la nascita del poema sinfonico si incammina lungo il percorso esplorativo del potere della musica di evocare immagini, giungendo fino a Debussy) e la poesia di Mallarmé si fa ricerca del valore musicale, e in generale sonoro, della parola. Frequente proprio nella poesia diviene l'uso di sinestesie e onomatopee, ma è soprattutto il binomio pittura/musica a costituire un nodo importante della cultura simbolista, inteso non solo come esplorazione di analogie tra effetti psicologici di colore e suono, ma anche come ricerca da parte dei pittori di un linguaggio, come quello musicale, scevro da implicazioni referenziali e sostenuto da una grammatica e da una sintassi cui la pittura aspira: in breve linee, colori, forme come melodia, armonia, contrappunto.

Tutte queste suggestioni sono emblematicamente riassunte all'inizio di questo secolo dalle opere ormai quasi interamente astratte del pittore lituano Mikalojus Konstantinas Ciurlonis, ma sono le stesse che filtrano, in clima di piena avanguardia, in artisti quali Kandinsky, Klee, Frantisek Kupka o Francis Picabia. Proprio per Kandinsky, "[...] quando non si vede l'oggetto [...] bensì se ne ode solo il nome, nella mente dell'ascoltatore si forma la rappresentazione astratta, l'oggetto smaterializzato, il quale produce immediatamente una vibrazione nel 'cuore'"[10]; e ancora si legge: "L'oggetto può formare soltanto un suono casuale; perciò può essere sostituito da un altro senza che si abbia una modificazione 'essenziale' del suono fondamentale"[11].

L'interferenza fra le arti dà luogo a interessanti sperimentazioni quali il teatro astratto senza attori, la pittura diviene pittura di suoni e la musica diviene musica di colori, attraverso l'ausilio di speciali macchine che a determinati suoni reagiscono proiettando determinati colori[12]. La volontà di rappresentare una simultaneità di percezioni sensoriali conduce ben presto nelle arti visive all'interferenza di valori tattili, attraverso l'utilizzazione di materiali extrapittorici che segnano la nascita del collage cubista e futurista, dell'assemblage e l'avvio di ricerche polimateriche (da Prampolini ai costruttivisti russi quali Tatlin) e, in seguito, di valori acustici, come le più tarde sculture sonore di Jean Tinguely; e anche in campo musicale si cercano stimoli al di là del codice tradizionale con l'introduzione del rumore (da Luigi Russolo, a Erik Satie o Edgar Varèse) o, in anni successivi, del silenzio e di elementi o eventi casuali forniti anche dagli spettatori (come nelle ricerche di John Cage), in cui l'atto musicale si fa azione teatrale, gesto, performance.

Proprio nell'ambito della poetica futurista del rumore, dalle onomatopee e dalle "parole in libertà" di Marinetti agli "intonarumori" di Russolo e al suo manifesto del 1913, L'Arte dei rumori, tema sviluppato nelle tavole parolibere di Francesco Cangiullo e di Carlo Carrà, in cui la valenza sonora della parola è anche sottolineata sul piano visivo mediante la particolare veste tipografica, si riscontrano interessanti ricerche in direzione sinestetica. In un manifesto del 1913, significativamente intitolato La pittura dei suoni, rumori e odori, Carrà afferma: " Il silenzio è statico [...], qualsiasi succedersi di suoni, rumori, odori stampa nella mente un arabesco di forme e di colori"[13]; e l'autore prosegue auspicando la realizzazione di "insiemi plastici astratti, cioè rispondenti non alle visioni ma alle sensazioni nate dai suoni, dai rumori, dagli odori, e da tutte le forze sconosciute che ci avvolgono", so-ste-nendo che "vi sono suoni, rumori e odori concavi e convessi, triangolari, el-lissoidali, oblunghi, conici, sferici, spiralici ecc." e ancora "gialli, rossi, verdi, turchini, azzurri e violetti"[14]. Tali suggestioni penetrano successiva-men-te e in maniera più compiuta nel manifesto del 1915 firmato da Balla e Fortunato Depero, Ricostruzione futurista dell'uni-verso: "La valutazione lirica dell'universo, mediante le Parole in li-bertà di Marinetti, e l'Arte dei Rumori di Russolo, si fondono con dinami-smo plastico per dare l'espressione dinamica, simultanea, plastica, rumoristi-ca della vibra-zione universale. [...] Daremo scheletro e carne all'invisibile, all'impalpabile, all'imponderabile, all'impercettibile. [...] Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell'universo, poi li combineremo in-sieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per for-mare dei complessi plastici che metteremo in moto", combinando il "rumorismo plastico simulta-neo coll'espressione plastica"[15].

Se questo manifesto sancisce la ricerca già avviata da Balla in direzione astratta, va rilevato che l'artista aveva precedentemente introdotto il tema del rumore in alcune opere del 1913-14, dove compaiono due linee spez-zate (a zig-zag) combinate insieme a formare in genere successioni di rombi e a volte svastiche e sovrapposte a una "linea di velocità" (come la definisce lo stesso Balla) curva. L'equivalenza grafica del rumore viene così resa da quella sorta di "dissonanza" che si produce combinando e sovrapponendo una linea spezzata a una linea curva, soluzione iconografica che trova significative affinità con alcune composizioni di Kandinsky e con le sue teorie sull'analogia di pittura e musica. Confronti in tal senso si possono stabilire principalmente con al-cuni esempi grafici che l'artista inserisce a commento del suo libro Punto, li-nea, superficie (1926), di cui uno in particolare rappresenta una "composizione contrastante di una linea curva e di una spezzata" dove "le proprietà dell'una e dell'altra acquistano un suono rafforzato"[16]; ma esiti molto vicini si riscontrano anche in altre opere, dove figurano piccoli segmenti raggrup-pati su linee, elementi comunque di disturbo "sonoro" nei confronti della continuità di queste ultime.

Al di là di parallele ricerche sul versante della sinestesia, che conducono i due autori all'adozione di analoghi segni e moduli formali, va ricordato che lo stesso Kandinsky farà esplicito riferimento al rumorismo futurista nel corso di alcune sue lezioni al Bauhaus nel 1931 e 1932, in cui riassumerà così i carat-teri specifici del futurismo: "Aggiunta di nuovi elementi: movimento, rumori, compenetrazione" e "uso di materiali nuovi (rumori), dinamicità [...]"[17]. Il rumore, inteso come elemento irregolare e discontinuo che spezza la rego-larità e continuità di un silenzio, di una melodia o di una qualsiasi continuità percettiva, viene dunque trascritto come una linea spezzata che interrompe la regolarità e la continuità di una linea curva, associato in tal modo all'idea e alla rappresentazione del moto e della velocità da questa espressa. L'introdu-zione di questo segno nel codice pittorico astratto, rappresentativo di una sensazione afferente ad una sfera percettiva diversa da quella visiva, implica il problema della "traduzione intersemiotica" o "trasmutazione", del passaggio cioè da un sistema semiotico a un altro[18]. La traduzione di percezioni uditive in segni iconici costituisce il problema della collocazione della figura della sine-stesia lungo una direttrice metaforica o metonimica, di individuare cioè se il processo di trasmutazione (e quindi di sostituzione di un segno con un altro di un diverso sistema semiotico) avvenga per similarità o per contiguità.

Ad un primo approccio sembrerebbe che la linea spezzata, in dissonanza con la linea curva continua, sia il frutto di una sostituzione metaforica, dove tale dissonanza valga "come" una dissonanza acustica o un rumore di disturbo. Ma se si intende la sinestesia come lo sforzo concettuale di riunificare le di-verse sfere sensoriali e ricondurle alla primaria facoltà percettiva e cognitiva della visione, tematica avvalorata dalla naturale priorità accordata a tale fa-coltà dai pittori, ma anche dalle teorie elaborate dalle psicoterapie corporee d'ambito reichiano, prende corpo la suggestiva ipotesi di interpretazione della visione come "sineddoche" delle altre sfere percettive, oltre che come "contenente" e modello rappresentativo astratto di queste ultime, con le quali si pone in una relazione di contiguità[19]; e in tal senso il contrasto di linea spezzata e linea curva, modello funzionale alla restitu-zione della sensazione del rumore, potrebbe configurarsi come un processo di sostituzione metonimica.

Se questo versante di ricerca si configura come adeguamento del linguaggio artistico ad una realtà completamente mutata in senso tecnologico e sensoriale e conseguente espressione di una positiva e ottimistica Weltanschauung protesa al futuro, al progresso e alla riqualificazione estetica dell'"uomo nuovo", vera e propria utopia ideologica carica di conseguenze in anni più recenti, è forse più di tutti il praghese Karel Teige, nel periodo fra le due guerre, a tracciare un quadro storico organico di questa linea che va dalla Gesamtkunstwerk (l'opera d'arte totale) wagneriana alle correspondances simboliste fino agli anni più recenti delle avanguardie, nel tentativo di ricondurre le diverse artes a un'ars una, intesa come "poiesis, creazione sovrana"[20]. Nelle sue teorie "poetiste" si precisa l'idea di una "poesia per tutti i sensi", che lo conduce però verso un'estetica a tutto campo in cui la visione ormai ha perso il suo ruolo privilegiato: "In luogo delle antiche categorie dell'arte, corrispondenti ai sensi estetici superiori (la vista e l'udito) e alle esigenze intellettuali e pratiche dell'uomo, oggi soddisfatte meglio da altre discipline e realizzazioni, il poetismo crea una poesia per tutti i sensi"[21].

Teige aggiunge ai cinque sensi tradizionali le "equivalenze intersensoriali", i "sensi corporali e spaziali" e il "senso del comico"[22], formulando "l'ipotesi di una pulsione produttiva unitaria, ipotesi in contrasto con le verità fondamentali dell'estetica kantiana"[23], pulsione che trova le sue radici nella sessualità e nella libido. Viene così a cadere il primato dell'occhio e della visione come facoltà rappresentativa e conoscitiva, anche se Teige ne riconosce alcune funzioni primarie legate agli impulsi psichici: "La zona erogena più lontana dall'oggetto sessuale, l'organo più 'nobile' (con le parole delle vecchie estetiche), cioè l'occhio, viene straordinariamente eccitato proprio da quella qualità dell'eccitazione la cui causa è ciò che chiamiamo la bellezza dell'oggetto amato. L'impressione ottica è per solito la via più spesso seguita dall'eccitazione libidinosa e su cui ha inizio la selezione che trasforma l'oggetto sessuale in bellezza. L'eccitazione, che crea immagini di bellezza, è a sua volta accresciuta da queste, e questa creazione desta piacere e provoca l'eccitazione di altri organi e sfere erogene [...]"[24].

La posizione critica e ideologica di Teige costituisce in tal modo l'epilogo e al tempo stesso il superamento di un approccio ancora idealistico dell'astrazione come modello rappresentativo della realtà, in favore di un'unità arte/vita fondata su basi materialistiche per cui "la grande scoperta del poetismo è la felicità"[25].

* * *

Rileggendo Worringer e l'analisi dei due impulsi psichici contrapposti, quello dell'empatia e quello dell'astrazione, che è alla base della sua teoria estetica e da cui scaturiscono le due categorie artistiche che l'autore definisce come "naturalismo" e "stile", corrispondenti a due antagoniste visioni del mondo, sembra di poter individuare un'eco della dialettica bello/sublime che aveva caratterizzato l'estetica settecentesca e che Burke e Kant avevano definitivamente codificato: "Mentre l'impulso di empatia è condizionato da un felice rapporto di panteistica fiducia tra l'uomo e i fenomeni del mondo esterno, l'impulso di astrazione è conseguenza di una grande inquietudine interiore provata dall'uomo di fronte ad essi, e corrisponde, nella sfera religiosa, a un'accentuazione fortemente trascendentale di tutti i concetti. Possiamo descrivere questo stato come un'immensa agorafobia spirituale"[26].

In questa "grande inquietudine interiore" che è alla base dell'impulso di astrazione si può infatti cogliere un'apertura verso quella linea del sublime che, dal catalogo di luoghi e manifestazioni fornito da Burke nella sua Enquiry[27] e che si diffonderà nella cultura "gotica" settecentesca e poi in quella romantica, condenserà in realtà quei temi tutti moderni, "l'eros, la morte, l'eclissi dell'Io"[28], che, scavalcando Kant, filtreranno in Hegel, Schopenhauer e Freud, per approdare al Novecento in termini di inquietudine esistenziale. Il pensiero di Schopenhauer del resto, che questa inquietudine porta alla luce, permea la cultura dei primi anni del secolo e proprio Worringer al filosofo tedesco fa continuamente riferimento in maniera indiretta o citandolo espressamente: "Precipitato dalle altere vette del sapere, l'uomo si ritrova, come il primitivo, smarrito e indifeso di fronte all'immagine del mondo, dopo aver capito che 'il mondo visibile in cui viviamo è opera di Maya, frutto di un incantesimo, parvenza labile e inconsistente, paragonabile all'illusione ottica e al sogno, un velo che copre la conoscenza umana, del quale è ugualmente vero e ugualmente falso dire che è o che non è' (Schopenhauer, Kritik der Kantischen Philosophie)"[29].

Il medesimo pensiero pervade, tra l'altro, la speculazione teorica e la ricerca artistica di Kazimir Malevic, nel momento in cui approda a quel "mondo senza oggetti" espresso dalla sua pittura suprematista: "Anch'io mi sentii preso da una soggezione che assunse le proporzioni dell'angoscia quando dovetti abbandonare 'il mondo della volontà e della rappresentazione' in cui avevo vissuto e creato e nella cui realtà avevo creduto"[30].

Il suprematismo di Malevic costituisce indubbiamente una delle fasi più radicali ed estreme dell'arte contemporanea e particolarmente significative in tal senso sono le opere realizzate fra il 1915 e il 1918, quelle cioè che vanno dal Quadrato nero su fondo bianco al Quadrato bianco su fondo bianco. Precedentemente Malevic aveva lavorato sulla scomposizione dinamica degli oggetti, procedendo lungo quella linea di sintesi fra ricerche cubiste e futuriste che aveva interessato l'avanguardia russa in una delle sue prime fasi; successivamente, avvicinandosi ai poeti futuristi e principalmente al linguaggio transrazionale o zaum di Krucënich, mette a punto un procedimento scompositivo delle strutture narrative o sintagmatiche che si risolve in un montaggio di immagini non correlate sul piano semantico: analogamente alle contemporanee ricerche poetiche Malevic si concentra cioè sulle valenze formali e percettive del significante, svincolandolo dal consueto significato cui viene associato. Sarà da queste sperimentazioni che scaturiranno le prime analisi linguistiche dei formalisti russi ed è dal groviglio di immagini "alogiche" che Malevic inizia a individuare e isolare quelle "superfici-piano" che diverranno gli elementi del suo nuovo linguaggio suprematista.

Tali piani si pongono come sostituzioni metonimiche di oggetti liberamente distribuiti in uno spazio a quattro dimensioni, costituendo anzi di questi oggetti una sorta di "facciata". Il nuovo senso dell'infinito che scaturisce dalle mutate condizioni percettive si fa così vertigine dello spazio: "I miei piani costituiscono delle escrescenze dello spazio, impregnato di colore [...]. Un piano pittorico, sospeso sull'abisso della tela bianca, dà alla coscienza una sensazione dello spazio immediata e fortissima [...]. E' sorprendente accorgersi che quanto più calmo è il piano sulla tela, tanto più fortemente si avverte la corrente dinamica del movimento stesso"[31].

Ma all'intuizione sublime di uno spazio infinito Malevic si avvicina nel momento in cui, nel Quadrato nero su fondo bianco, isola quel modulo geometrico che, campeggiando in modo emblematico e assoluto nella bianchezza dello spazio, si pone come quintessenza e origine di tutte le forme possibili, come vera e propria idea platonica, quell'idea che, per Schopenhauer, nasce "dall'unione della fantasia e della ragione"[32]. Il linguaggio pittorico viene ridotto ai minimi termini in relazione al rapporto figura/fondo e al contrasto chiaroscurale, risolto come netta contrapposizione cromatica di due opposti che sembra quasi riecheggiare la biblica separazione fra luce e tenebre e che, nelle intenzioni dell'artista, si traduce in una dialettica opposizione fra la sensibilità e il Nulla: "Il quadrato nero sullo sfondo bianco è stato la prima forma di espressione della sensibilità non-oggettiva: quadrato = sensibilità, fondo bianco = il 'Nulla', ciò che è fuori della sensibilità"[33]. Oltretutto Malevic perviene a un'elementarità del modulo compositivo che non appare scontata o banalmente evidente, dato che l'irregolarità dei lati del quadrato (che in realtà è un trapezio) obbliga il riguardante a un prolungamento dei tempi percettivi per riconoscere la vera essenza formale del significante.

Il passo successivo si delinea come graduale dissolvenza dei piani nello spazio, come nel Quadrato giallo su fondo bianco, in realtà ancora un trapezio o meglio un quadrato in prospettiva che suggerisce un movimento dalla superficie verso il fondo o viceversa, per giungere nel 1918 a quel punto di non ritorno rappresentato dal Quadrato bianco su fondo bianco. La doppia valenza del bianco rende appena percettibili i limiti del quadrato, ormai completamente inghiottito da quella bianchezza che diviene sintesi di tutti i colori e di uno spazio noumenico in cui gli oggetti non si offrono più alla percezione e all'esperienza sensibile. Malevic approda così a quel "deserto" che lo conduce ad abbandonare la pittura in favore della speculazione filosofica pura: "Non ci sono più 'immagini della realtà', non ci sono più rappresentazioni ideali, non c'è nient'altro che un deserto!"[34]. Proprio il deserto costituisce una delle immagini con cui Schopenhauer esemplifica il sentimento del sublime: "Il deserto ha un aspetto terribile, e in esso il nostro stato d'animo diviene più tragico, sicché ci sarà impossibile elevarci ad uno stato di pura conoscenza senza un violento distacco dagli interessi della volontà; e per tutto il tempo in cui persisteremo in tale stato, il sentimento del sublime dominerà nettamente in noi"[35]; ed è proprio attraverso questo "violento distacco" dal contingente, in questa elevazione che la conoscenza pura può essere conquistata nella contemplazione della pura Idea: "[...] dobbiamo, con atto di conscia violenza, strapparci dalle relazioni dell'oggetto che sappiamo sfavorevoli alla nostra volontà: dobbiamo, con uno slancio libero e cosciente, sollevarci al disopra della volontà e del tipo di conoscenza che vi si riferisce"[36].

Se la sparizione degli oggetti nella bianchezza assoluta della luce fa venire in mente per certi versi alcuni dei temi del sublime affrontati da Burke, è proprio da questo autore che conviene partire per una lettura della ricerca artistica di Barnett Newman, che ad un'estetica del sublime fa esplicito riferimento. L'approccio psico-fisiologico di Burke rende la sua opera un vero e proprio repertorio di condizioni percettive che determinano una sorta di fenomenologia del sublime, come l'"oscurità", la "potenza", la "vastità", l'"infinità", la "successione" e l'"uniformità" (che insieme costituiscono l'"infinità artificiale"). E Burke costituisce, insieme allo Pseudo-Longino, una delle fonti cui attinge Barnett Newman, che nel sublime individua la possibilità di affrancare la giovane arte americana dalla tradizione moderna europea: quest'ultima infatti, per il pittore americano, pur con la nascita dell'astrattismo, risolve ancora la sua visione del mondo e i suoi modelli rappresentativi dello spazio e della natura secondo la categoria estetica del bello[37]. Newman ha in mente soprattutto la pittura di Mondrian che, pur implicando nozioni di pluridimensionalità e di infinito, è ancora legata, attraverso la geometria, a un sentimento dello spazio tipicamente europeo, vale a dire razionale e teorico, in cui l'individuo è in armonia con la natura: è in sostanza per Newman una pittura in cui non si trova traccia, tradotto in termini kantiani, di ciò che è "assolutamente grande" (il sublime matematico) o "dinamicamente sublime", vale a dire "un oggetto (della natura) la cui rappresentazione determina l'animo a pensare come un'esibizione di idee l'impossibilità di raggiungere la natura"[38].

Proprio dalla natura, dall'incontaminata natura americana e in particolare dal paesaggio dell'Ohio, Newman ha la "rivelazione" dell'infinito e l'intuizione del sublime[39], la stessa natura che aveva ispirato pittori romantici come Thomas Cole o Frederick E. Church nel secolo scorso. La sua scelta si innesta così su una tradizione americana di cui va però superato l'approccio empirico e descrittivo che identifica il sublime con il paesaggio: questo superamento può avvenire attraverso un processo di sostituzione e riduzione linguistica in cui al dato naturalistico subentra un modello percettivo che fa scaturire il sentimento del sublime in termini di luce, colore e, successivamente, di estensione dello spazio.

Nel 1948, poco prima di pubblicare sulla rivista "Tiger's Eye" il saggio The Sublime is Now, Newman realizza un emblematico dipinto, Onement I, costituito da un fondo monocromo di sapore atmosferico rosso cupo e tagliato a metà da una banda verticale sfrangiata (zip) rosso arancio, in cui oltretutto è a dir poco inquietante la somiglianza con un dipinto del 1918 di Olga Rozanova, pittrice molto vicina alle teorie artistiche di Malevic e che realizza quest'opera nello stesso anno del Quadrato bianco su fondo bianco. L'artista, volgendosi alla sfera della percezione, si accorge che, saturando in senso monocromatico la superficie della tela, sta in realtà svuotando lo spazio, mentre le proprietà irradianti del colore danno vita a un campo avvolgente che diviene proporzionalmente maggiore aumentandone la superficie, come in effetti farà in opere successive che raggiungeranno dimensioni monumentali (per esempio Vir Heroicus Sublimis, del 1950-51, Anna's Light e Who's afraid of Red, Yellow and Blue III, entrambi del 1968, o Chartres, di formato triangolare, del 1969).

Burke, descrivendo quelle fonti del sublime da lui individuate in precise condizioni percettive, riferisce come, "per rendere un oggetto molto terribile, sembra in generale necessaria l'oscurità"[40], ma afferma anche che "una luce come quella del sole, qualora colpisca direttamente l'occhio, poiché sopraffà il senso, è causa di una grandissima idea", che una "luce di una forza inferiore a questa, se si muove con grande celerità, ha lo stesso potere" e che "un rapido passaggio dalla luce all'oscurità o dall'oscurità alla luce produce un effetto ancora più grande"[41]; quindi, concludendo la sezione dedicata alla luce, sostiene: "L'estrema luce, col sopraffare gli organi della vista, cancella tutti gli oggetti in modo da rassomigliare esattamente, nel suo effetto, all'oscurità. [...] Così le due idee più contrarie che si possano immaginare si riconciliano nei loro estremi; ed entrambe, nonostante i loro caratteri contrari, sono tratte a concorrere alla produzione del sublime"[42].

A proposito della "successione" e dell'"uniformità", altra fonte del sublime, Burke osserva: "La successione e l'uniformità delle parti sono gli elementi che costituiscono l'infinità artificiale. La Successione è necessaria perché le parti si continuino così a lungo nella stessa direzione che, con le loro frequenti impressioni sui sensi, imprimano nell'immaginazione un'idea del loro progredire oltre i loro veri limiti. L'Uniformità è necessaria perché, se le figure delle parti cambiassero, l'immaginazione ad ogni cambiamento troverebbe un ostacolo [...]"[43]; e prosegue: "Per ottenere quindi una perfetta grandezza [...] dovrebbe esservi una perfetta semplicità, un'assoluta uniformità nella disposizione, nella forma e nel colore"[44]; però nota anche che in "una parete nuda, data l'uniformità dell'oggetto, l'occhio corre per l'intero spazio e arriva velocemente al suo termine, senza incontrare nulla che possa interrompere il suo procedere, ma senza neppure incontrare qualche cosa che possa trattenerlo abbastanza a lungo per produrre un effetto notevole e duraturo"[45], concludendo così le sue osservazioni: "La vista di una parete nuda, che sia di grande altezza e di grande lunghezza, è indubbiamente grandiosa; ma questa è soltanto una idea e non una ripetizione di idee simili; è quindi grande non tanto dal punto di vista dell'infinità, quanto da quello della vastità"[46].

Già precedentemente Burke aveva parlato dell'"infinità" in questi termini: "L'infinità tende a riempire la mente di quella specie di piacevole orrore, che è l'effetto più genuino e la prova più attendibile del sublime. Vi sono pochissime cose, realmente e per loro natura infinite, che possono diventare oggetto dei nostri sensi. Ma non essendo l'occhio capace di percepire i limiti di molte cose, sembra che esse siano infinite e producono gli stessi effetti che se realmente lo fossero. Siamo ingannati nello stesso modo, se le parti di un oggetto esteso sono disposte in continuazione per un numero indefinito di volte, perché l'immaginazione non incontra ostacolo che possa impedirle di estendere quelle parti a suo piacere"[47].

Ancora riguardo alle grandi dimensioni il filosofo inglese si sofferma poi sugli effetti fisiologici della percezione: "La visione consiste in una immagine, formata dai raggi di luce che sono riflessi dall'oggetto, la quale si dipinge integralmente e istantaneamente sulla retina o sulle ultime terminazioni nervose dell'occhio. Secondo altri, invece, non v'è che un solo punto di ogni oggetto che si imprima nell'occhio in modo da essere percepito immediatamente; ma, col movimento dell'occhio, raccogliamo con grande velocità le diverse parti dell'oggetto, in modo da formare un tutto uniforme. Se si accetta la prima opinione, bisogna considerare che, sebbene tutta la luce riflessa da un corpo grande colpisca l'occhio in un solo istante, tuttavia dobbiamo pensare che il corpo stesso è formato di un gran numero di punti distinti, ognuno dei quali, o il raggio che da ognuno proviene, impressiona la retina. Cosicché, sebbene l'immagine di un punto causi soltanto una lieve tensione di questa membrana, un altro tocco e poi un altro ancora determinerebbero successivamente una grande tensione, fino al massimo grado; e l'occhio intero, vibrando in ogni parte, si avvicinerebbe alla natura di ciò che produce dolore, e per conseguenza produrrebbe un'idea sublime"[48].

Infine, confrontando le due categorie del sublime e del bello, così Burke riassume le sue osservazioni: "Gli oggetti sublimi sono [...] vasti nelle loro dimensioni, e quelli belli al confronto sono piccoli; se la bellezza deve essere liscia e levigata, la grandiosità è ruvida e trascurata; la bellezza deve evitare la linea retta, ma deviare da essa insensibilmente; la grandiosità in molti casi ama la linea retta, e quando se ne allontana compie spesso una forte deviazione; la bellezza non deve essere oscura, la grandiosità deve essere tetra e tenebrosa; la bellezza deve essere leggera e delicata, la grandiosità solida e perfino massiccia"[49].

Burke fornisce così una vera e propria casistica di situazioni percettive in cui le cause e gli effetti del sentimento del sublime derivano dalle proprietà degli oggetti; la necessità di Newman di fare astrazione dalla natura lo conduce però al di là del reale e a definire una visione del sublime attraverso nuovi modelli percettivi e linguistici indipendentemente dall'oggetto. In tal senso Burke può essere recuperato soltanto attraverso lo sforzo sistematico di Kant di ricondurre la categoria del sublime (come del resto quella del bello) al mondo trascendentale della ragione: "il sublime non è da cercarsi nelle cose della natura, ma solo nelle nostre idee"[50]; più precisamente "sublime è ciò che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell'animo superiore ad ogni misura dei sensi"[51]. Il sentimento del sublime per Kant scaturisce dal libero gioco dell'immaginazione e della ragione e dallo scarto che si produce per l'inadeguatezza della prima a rappresentarsi l'infinito, mentre la ragione può pensarlo: si determina così nell'uomo una capacità (e questo è sublime) di estendere l'animo oltre i limiti della sensibilità, che "ci rende quasi intuibile la superiorità della destinazione razionale delle nostre facoltà conoscitive, anche sul massimo potere della sensibilità"[52].

In tal modo si può leggere la pittura di Newman non più come modello rappresentativo del reale, bensì come modello che ricostruisce determinate condizioni percettive che si offrono al libero gioco dell'immaginazione e della ragione. E in questa direzione ha un senso ritrovare nella sua opera i "luoghi" del sublime descritti da Burke: l'infinito è suggerito dall'uniformità monocroma della stesura pittorica, affidata spesso a grandi superfici che avvolgono e investono il riguardante; e gli zips verticali o orizzontali che percorrono l'intera superficie senza interruzioni, proseguendo idealmente al di là dei limiti della tela, si qualificano per il loro contrasto cromatico con il fondo, specialmente nella loro versione sfrangiata come in Onement I, come bagliori improvvisi di luce, ma anche come interruzioni all'uniformità del fondo e come ostacoli, elementi stranianti e di disturbo, che determinano un "distacco" e svolgono una funzione regolatrice nei confronti dell'effetto empatico e avvolgente del colore; oppure, riproposti in sequenza, suggeriscono l'idea dell'"infinito artificiale", articolando la superficie in successioni seriali e aprendo prospettive di ricerca in direzione minimalista.

Ma della fenomenologia del sublime si coglie nella ricerca di Newman anche una proprietà più nascosta e lasciata da Burke fra le righe, quella della "semplicità": "Per ottenere quindi una perfetta grandezza [...] dovrebbe esservi una perfetta semplicità, un'assoluta uniformità nella disposizione, nella forma e nel colore"[53]. E' tale semplicità che si traduce in termini di riduzione linguistica, anche e soprattutto per l'inadeguatezza del linguaggio (in questo caso pittorico) a rappresentare quell'infinito che la ragione può però pensare; ed è in questo processo estremo di riduzione e semplificazione espressiva, proprio per l'impossibilità di esprimere alcunché, che si determina quello scarto della rappresentazione fra le cui lacune si può cogliere la vertigine del sublime.

* * *

Al termine di questa panoramica su alcune tendenze dell'astrazione che conducono a nuove visioni del reale, si vorrebbe concludere con la proposta di una traccia, in via del tutto ipotetica e provvisoria, che intende rileggerne lo sviluppo lungo due direttrici radicali che si muovono esternamente ai confini di quella visione astratta, assoluta, atemporale, ben rappresentata dalla "olimpica" pittura di Mondrian, attestata su posizioni di armonia, composizione, equilibrio, cioè, in una parola, aderente ancora alla categoria estetica del bello e inequivocabilmente classica.

Dalla presa d'atto di un "eccesso" di percezione, tali direttrici sembrano reagire in modi diametralmente opposti. La prima muove da uno "slancio vitale", positivo, e sostanzialmente empatico, nei confronti del reale, per adeguare ed espandere le possibilità rappresentative del linguaggio in direzione di una proliferazione di segni e verso modelli sinestetici. Le conseguenze di tale atteggiamento saranno valutabili in anni più recenti nelle ipotesi di sconfinamento arte/vita e sfera estetica/sfera fenomenologica, riassumibili in manifestazioni dell'arte contemporanea quali il gesto, l'environment o l'happening, e più in generale il ricorso a differenti e molteplici media, anche tecnologici, e la loro utilizzazione simultanea.

L'altra direttrice, recuperando la categoria estetica del sublime, sembra invece di tale eccesso percettivo denunciare proprio l'impossibilità di rappresentarlo, che si traduce in termini di riduzione e rarefazione linguistica, afasia, silenzio, estremo limite che precede la morte dell'arte stessa. Proprio l'estremizzazione di questa linea può condurre da una parte alla scelta linguistica del monocromo assoluto, inteso non più come modello percettivo, ma come visione interiore e luogo meditativo (come in Yves Klein); dall'altra intervengono scelte ben più radicali quali la tabula rasa degli achromes di Piero Manzoni, vera e propria fine della comunicazione e spazi bianchi del nulla, dopo i quali c'è solo l'ultima, utopica e disperata velleità di un'appropriazione estetica del mondo, rappresentata dalla Socle du Monde, estremo limite prima di una morte questa volta anche fisica, forse quella stessa morte che proprio Burke pone poco più in là dell'esperienza estrema del sublime.

Lungo questa linea il sublime si riannoda così a quell'inquietudine dell'uomo di tutti i tempi che faceva dire ad Agostino, nella sua lode a Dio: "E vuole celebrarti l'uomo, questa particella della tua creazione, l'uomo che si porta dietro la sua morte [...]"[54]; ed è lo stesso fremito esistenziale che, nel Novecento, mina l'uomo moderno come un male incurabile, quell'uomo che ha ormai scoperto la propria disperata solitudine nel mondo: "I mortali sono gli uomini. Si chiamano i mortali perché possono morire. Morire significa essere capaci della morte in quanto morte. Solo l'uomo muore. L'animale perisce. Esso non ha la morte in quanto morte né davanti a sé né dietro di sé"[55].

Note:

[1]J. Nigro Covre, Introduzione, in W. Worringer, Abstraktion und Einfühlung, München 1908 (trad. it.: Astrazione e empatia, Torino 1975, p. XIV). Su Fiedler cfr. anche M. Podro, The parallel of linguistic and visual formulation in the writing of Konrad Fiedler, Torino 1961.

[2]W. Worringer, op. cit., p. 77.

[3]Cfr. F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Paris 1922 (trad. it.: Corso di lingui-stica generale, a cura di T. De Mauro, Roma-Bari 1967; III ed. rived. 1985, p. 85).

[4]Alcuni temi di questo paragrafo e del successivo sono già stati affrontati nel saggio: M. Rinaldi, L'analisi semiotica e la lettura iconografica della pittura astratta: note per un'ipotesi metodologica, Roma 1996, cui si rimanda anche per un approccio sintetico ad alcune nozioni generali di carattere semiotico e ad alcune problematiche di lettura e decodificazione dell'arte astratta.

[5]Cfr. R. Jakobson - M. Halle, Fundamentals of Language, The Hague 1956, pp. 55-82, ora in R. Jakobson, Essais de linguistique générale, Paris 1963 (trad. it: Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia, in Saggi di linguistica generale, a cura di L. Heilmann, Milano 1966, III ed. rived. 1985, pp. 22-45).

[6]Ivi, pp. 41-42.

[7]P. Klee, Das bildnerische Denken, Basel 1956 (trad. it.: Teoria della forma e della figurazione, a cura di M. Spagnol e R. Sapper, vol. I, Milano 1959, pp. 72-73).

[8]W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, München 1912 (trad. it.: Dello spirituale nell'arte, in Idem, Tutti gli scritti, a cura di Ph. Sers, vol. II, Milano 1974, p. 119).

[9]P. Mondrian, De nieuwe beelding in de schilderkunst (1917-1918), ora in Idem, Writings, New York s.d. (trad. it.: Il neoplasticismo in pittura, in Tutti gli scritti, a cura di H. Holtzman, Milano 1975, p. 42).

[10]W. Kandinsky, op. cit., p. 83.

[11]Ivi, p. 101.

[12]Su questo tema cfr. alcuni saggi in The Spi-ritual in Art: Abstract Painting 1890-1985 (cat. della mostra, Los Angeles, County Museum of Art, 23 November 1986 - 8 March 1987; Chicago, Museum of Contemporary Art, 17 April - 19 July 1987; The Hague, Haags Gemeentemuseum, 1 September - 22 November 1987), Los Angeles-New York 1986: M. Tuchman, Hidden Meanings in Abstract Art, pp. 17-61; S. Ringbom, Transcending the Visible: The Generation of the Abstract Pioneers, pp. 131-153, e W. Moritz, Abstract Film and Color Music, pp. 297-311. Un volume recente (con ampia bibliografia) dedicato al tema della sinestesia è quello di L. Pi-gnotti, I sensi delle arti. Sinestesie e interazioni estetiche, Bari 1993.

[13]C. Carrà, La pittura dei suoni, rumori e odori (1913), in G. de Marchis, Giacomo Balla. L'aura futurista, To-rino 1977, p. 37.

[14]Ibidem.

[15]G. Balla - F. Depero, Ricostruzione futurista dell'universo (1915), ivi, pp. 106-107.

[16]W. Kandinsky, Punkt und Linie zu Fläche, München 1926 (trad. it.: Punto, linea, superfi-cie. Contributo all'analisi degli elementi pittorici, a cura di M. Bill, Milano 1968, didascalia della fig. 62, p. 104).

[17]Cit. in G. de Marchis, op. cit., p. 38.

[18]Cfr. R. Jakobson, in R. A. Brower (edited by), On translation, Harvard 1959, pp. 232-239 (trad. it.: Aspetti linguistici della traduzione, in op. cit., pp. 56-64, in part. p. 57).

[19]Tale contiguità è stata ampiamente affrontata dalle psicoterapie corporee che, a partire da Wilhelm Reich, Charakternalyse, Kopenhagen 1933 (trad. it: Analisi del ca-rattere, Milano 1974), hanno indicato sette anelli o blocchi muscolari trasversali lungo l'asse longi-tudinale del corpo, corrispondenti a specializzazioni espressive e funzionali (raggiunte o man-cate); tali anelli sono quello oculare, orale, del collo, del torace, del diaframma, del ventre e del bacino. Il primo è situato nella regione compresa tra la linea inferiore del naso, la nuca e la sommità del capo, includendo quindi gli organi di senso che, sviluppandosi per primi in suc-cessione, assumeranno un'importanza primaria nella registrazione della realtà: udito, olfatto e vista. Di questi organi si registra una predominante uditiva nella vita intrauterina, olfattiva nella neonatale e visiva in seguito, fasi che coincidono anche con l'evoluzione della specie umana, fino a fare dell'uomo attuale un'ani-male "ottico" (cfr. C. A. Paolillo, Le basi anatomo-fisiologiche ed orgonomiche della au-diofono-logia dinamica, in "Energia Carattere e Società", Napoli, I, vol. 1 (2), n. 2, dicembre 1991, p. 278, e M. Maz-zone, Anima e corpo. Sintesi delle lezioni di Anatomia Artistica tenute all'Accademia di Belle Arti di Sassari negli anni accademici 1993/94 e 1994/95, Roma 1995, p. 36).

A tale proposito è singolare e significativa la coincidenza con la successione dei termini che fi-gurano nel citato manifesto di Carrà, La pittura dei suoni, rumori e odori.

[20]K. Teige, Manifest poetismu, in "ReD", I, n. 9, 1928 (trad. it.: Manifesto del poetismo, in Idem, Arte e ideologia 1922-1933, a cura di S. Corduas, Torino 1982, p. 318).

[21]Ivi, p. 317.

[22]Cfr. ivi, pp. 316-317.

[23]Ivi, p. 318.

[24]Idem, Básen, svet, clovek, in "Zverohruh", I, n. 1, 1930, (trad. it.: Poesia, mondo, uomo, ivi, pp. 324-325).

[25]Idem, Manifesto del poetismo, cit., p. 319.

[26]W. Worringer, op. cit., p. 36.

[27]Cfr. E. Burke, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful, London 1757, II ed. 1759 (trad. it.: Inchiesta sul Bello e il Sublime, a cura di G. Sertoli e G. Miglietta, Palermo 1985, IV ed. 1992).

[28]G. Sertoli, Presentazione, in E. Burke, op. cit., p. 33, cui si rimanda per un panorama sintetico e per una rassegna bibliografica su queste tematiche, oltre che per la definizione moderna, dopo la traduzione del Peri hupsous dello Pseudo-Longino da parte di Boileau nel 1674, del concetto di sublime. Sul riaffiorare di una poetica del sublime nell'arte contemporanea, cfr. M. Carboni, Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Roma 1993, e in particolare i capitoli dedicati alla pittura di Malevic e Newman, qui presa in esame.

[29]W. Worringer, op. cit., p. 39.

[30]K. Malevic, Die Gegenstandlose Welt, Dessau 1927 (trad. it.: Il mondo senza oggetti (Suprematismo), in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano 1959, XII ed. 1982, p. 384).

[31]K. Malevic, Lettera a Matjushin (1916), cit. da A. B. Nakov, in K. Malevic, Ecrits, par A. B. Nakov, Paris 1975 (trad. it.: Scritti, a cura di A. B. Nakov, Milano 1977, p. 114).

[32]A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Dresden 1818, III ed. Leipzig 1859 (trad. it.: Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di G. Riconda, trad. di N. Palanga, Milano 1969, nuova ed. 1991, p. 77).

[33]K. Malevic, Il mondo senza oggetti (Suprematismo), in M. De Micheli, op. cit., p. 385.

[34]Ivi, pp. 383-384.

[35]A. Schopenhauer, op. cit., p. 243.

[36]Ivi, p. 241.

[37]Alcuni degli argomenti qui esposti relativamente alle concezioni estetiche di Newman sono già stati trattati in un precedente articolo: M. Rinaldi, Sublime americano, in "Apeiron - Quaderno d'Arte Contemporanea", Messina, II, n. 3, giugno 1992, pp. 45-47.

[38]I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, Berlin-Libau 1790, poi Hamburg 1880 e Leipzig 1902 (trad. it.: Critica del Giudizio, trad. di A. Gargiulo rivista da V. Verra, Bari 1970, II ed. Roma-Bari 1984, pp. 120-121).

[39]Cfr. Th. B. Hess, Barnett Newman, New York 1969, p. 73.

[40]E. Burke, op. cit., p. 86.

[41]Ivi, p. 103.

[42]Ivi, p. 104.

[43]Ivi, pp. 98-99.

[44]Ivi, pp. 151-152.

[45]Ivi, p. 152.

[46]Ibidem.

[47]Ivi, p. 98.

[48]Ivi, p. 148.

[49]Ivi, p. 139.

[50]I. Kant, op. cit., p. 98.

[51]Ivi, p. 99.

[52]Ivi, p. 107.

[53]Vd. nota 37.

[54]Agostino, Confessiones, Strasbourg 1470, poi in F. Skutella, Bibliotheca Teubneriana, Leipzig 1934 (trad. it.: Confessioni, Milano 1989, IV ed. 1993, p. 3).

[55]M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Pfullingen 1954 (trad. it.: Saggi e discorsi, trad. di G. Vattimo, Milano 1976, ried. 1991, p. 119).

 

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