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Elogio della «frivolezza» (Parol 6, 1990)

Inconro con Paolo Ruffilli

Vetri - Dovendo dire due parole di presentazione di P. Ruffilli incentrerei la mia attenzione su Piccola colazione, l'ultima sua raccolta di poesie pubblicata da Garzanti. [P. Ruffilli, Piccola colazione, Garzanti, 1987]. Mi ci soffermerei molto brevemente, proponendo quindi soltanto qualche rapidissima impressione di lettura.

Mi pare che il modo migliore di iniziare sia di leggere un testo della raccolta, che sta, certo non a caso, in una posizione molto particolare, significativa e indicativa, in quanto è quello che inaugura il libro. Effettivamente si tratta di un testo-chiave - almeno così mi pare - che apre varie strade alla comprensione della raccolta, indirizzando i passi del lettore che se ne lasci guidare verso distinte, ma tutte suggestive e convincenti, mete di senso.

Ecco il testo, allora:

La parola, per me
veniva da distante.
Un a priori, quasi,
l'avvertivo. Un eccitante.
In un processo in
qualche modo inverso.
Nel darle per riscontro
una realtà che invece,
più toccata e presa, più
sfuggiva inconsistente
ai cinque sensi
.
Con l'effetto di essere
lanciata contro un corpo
pronunciato e, nel
suo dirlo, di colpo
riafferrato.

Mi limiterò ad additare - non più che additare - una sola delle vie interpretative della raccolta che questo testo suggerisce di percorrere (per seguirne davvero, passo passo, l'intero itinerario, occorrerebbe troppo lungo discorso).

L'indicazione segnaletica che scelgo è quella della distanza. Nel testo, infatti, si dice subito, con avviso urgente e repentino: La parola, per me, venivo da distante. Sappiamo così di trovarci in una situazione di poesia in cui la parola è ricevuta, e in cui il poeta si pone in posizione di accoglimento della parola. Questa viene da lontano. Fermiamoci su questo avviso, che la raccolta ribadisce e conferma, segnalando, lasciando intendere, quali siano i "luoghi" da cui la parola giunge. Due "luoghi", essenzialmente: l'uno è, per così dire, la "realtà esterna"; l'altro è la "realtà interna". C'è, dunque, un doppio venire della parola da distante, che è rifratta dalla voce del poeta, nella voce del poeta, in uno scandito rintocco di echi: un pulsare vocale quietamente ritmato. Questa parola che viene da distante è duplice: due sono le sue fonti, e doppia è la sua identità. Facciamo, a questo proposito, qualche esempio.

C'è un parola che, ho detto, viene dalla "realtà esterna": la incontriamo nelle sequenze verbali che, nel testo, compaiono chiuse tra virgolette, come altrettante citazioni, spiccate da un discorso per il resto spentosi nel silenzio.

"... è stato ucciso/in strada,/sotto casa,/da due giovani/scappati su un motore". "Ma guarda lì, che/roba. Che vigliacchi."/"Ogni giorno così./Passami i piatti". "Pronto. Chi è?/Non c'è. Non è tornato". "Quei soldi, allora./Hai chiesto? Te li danno?". "Se te la prendi, vedi,/la colpa è solo tua".

Qui, la parola ha una sua particolare dizione: è una parola secca, senza risonanza, ferma.

Un'altra parola - e indicherei, questa, come proveniente dalla "realtà interna" - che ha diversa dizione, occupa i tangenti spazi del testo: è una parola briosa, viva e vivace; e questa vivacità e vivezza, questa sua gaiezza è sottolineata dai giochi fonici, dal rintocco di certe rime, di certi accordi, di certi toni.

" ... Madre matrice/guscio da cui si spoglia/il viscere/ vulva oscura caverna/madreperlacea conchiglia/fodero guaina./Madre matrigna/nodo filo di ferro/corda ritorta/capo di gomena/cavo canna filo di rame./Madre madrina/palo a cui tiene la serie/base puntello/bacchetta che guida/remo spranga timone./Annaspare nel filo/tendere frangere/districare l'involto".

" ... Piena che porta/che piega che smonta/da sponda a sponda/che cala che salta./Onda che prende/che piomba e dilaga/che versa che fonde/che spande/che dissipa avvolge/congiunge./Galleggiando fluttuando".

Ecco: il fascino della raccolta, e di tutta la poesia di Ruffilli in generale non sta soltanto nell'avventuroso intrigo, avvincente, di discordi sonorità e semanticità in cui il lettore è coinvolto, con continue sorprese, improvvisi sperdimenti e ritrovamenti; sta anche nel sapiente accordo, nella raffinata orchestrazione delle due parole, nell'armonia del loro dettato.

Ruffilli - L'aula dove siamo ora è un'aula in cui io venivo da studente a seguire le lezioni e c'è proprio una parte del mio libro Piccola colazione che si svolge qui, non solo in quest'aula, ma in questo Istituto. E' la Bologna dell'Università, tra il 1968 e il 1972. E con grande emozione che parlo qui e ora, proprio perché "l'avventura" dell'Università è stata un momento importante, decisivo: in qualche modo, diciamo, al negativo, ma come ostacolo fondamentale per andare avanti. Ma, di questo, magari parleremo poi.

Voglio prendere l'avvio da quella che era stata fin dall'inizio, quando Nanni mi telefonò, l'occasione da cui partire: cioè la necessità, o la presunta necessità, della poesia. E su questo tema ho steso alcuni punti, proprio per individuarli meglio e non evadere lungo il discorso - il che non significa che, oltre questi punti, poi non si possa divagare nelle diverse direzioni.

Mi premeva sottolineare, innanzitutto, un fatto a proposito di questo interrogarsi sul perché e sul per come. Mi sono convinto, nel corso degli anni, che gli scrittori sono gli unici, almeno come categoria, a chiedersi di continuo il perché di quello che fanno. Non mi pare di aver verificato che questo capiti agli altri artisti: né ai pittori di chiedersi perché dipingano, né ai compositori perché facciano musica. Probabilmente deve trattarsi di una sorta di surplus di cattiva coscienza, o magari di un frainteso vincolo etico, non certo, e di questo sono sicurissimo purtroppo, di una maggiore consapevolezza.

Perché si scrive? Per forza di cose si rimane perplessi di fronte a questa domanda; ci si dovrebbe chiedere, allora, allo stesso modo, perché si sogna o perché si desidera, e francamente non si capisce a chi possano servire le eventuali risposte: non certo a chi sogna o a chi desidera, né a chi scrive. La ragione è forse che interessano agli studiosi del fenomeno, i quali, per altro, farebbero bene a non tenere in troppa considerazione le risposte degli scrittori, che sono sempre tendenziose se non, addirittura, avariate e false. Con ciò, però, capisco bene che si svuota dall'interno un'indagine come quella alla quale mi viene chiesto di collaborare, e allora ho corretto un po' il tiro, senza, per altro, ricapitolare qui tutte le teorie sulla scrittura: teorie che, ripeto, interessano gli studiosi ma non, sicuramente, gli scrittori. E dirò di più: teorie delle quali credo sia doveroso che gli scrittori non si interessino affatto, facendo perfino violenza alla propria curiosità.

Perché scrivo? Scrivo per dare pronuncia al mio interesse per me stesso, così almeno mi pare; perché, di sicuro, l'unica cosa che mi abbia davvero interessato in maniera continuativa fin dalla più tenera età è questo interesse verso me stesso: il resto rientra nella mia ottica solo in quanto si riflette su questo specchio. Il che non significa affatto prendere le distanze da sé e mettere a fuoco nel giusto rilievo anche l'altro da sé; anzi, secondo me, è un modo non ipocrita e veritiero di farlo. Vi confesso, dunque, di sentirmi, ogni volta che scrivo, in quella traiettoria contraddittoria che punta dall'io al senso e alla ragione e viceversa. Scrivere, nella mia esperienza, mi sembra una specie di cannibalismo che spinge quotidianamente al rimasticamento di ogni pezzetto di sé. Ma, naturalmente, da questo punto in poi direi di lasciar perdere le supposte ragioni e di parlare piuttosto di sogno: perché questo io credo che sia il mio sogno di scrittore.

Gli scrittori che mi interessano, del resto, sono quelli che sono caratterizzati da questa forma di sogno, che è poi un'ossessione a cui rimangono fedeli restando sempre se stessi, spostandosi solo per millimetri dal nucleo intorno al quale ruotano. La mia ossessione, se ho capito bene, è quella di scrivere il mio modo irrisolto e di tentare di farlo affidandolo a una pronuncia lieve e sfuggente: un'onda leggera capace di scendere dentro il dolore e il dramma della realtà che mi sembrano altrimenti impronunciabili. Celando, direi consapevolmente, ma anche per istinto, nel riflesso del luogo comune, lo scandalo e la trasgressione. Quali sono allora i modelli? Sono modelli, per me, prima di tutto musicali: Mozart e Rossini, innanzitutto, e i loro librettisti Da Ponte e Sterbini. Ma volendo parlare di poesia in senso più stretto, sono poeti più vicini nel tempo come Saba o Penna, e poeti più lontani di grande pronuncia melodica come Metastasio, o il Tasso dei madrigali o come Leopardi.

In questa ossessione di smontare e rimontare me stesso (il me stesso di cui parlavo prima) ho sentito come necessario di affidarmi a una grazia sottile: quella leggerezza che è l'unica che riesca a trascinare con sé e a dare ala a ciò che invece è volgare, grave, pesante e impasta e caratterizza la vita di ogni giorno. Insomma, ciò che mi interessa è quello che attira verso il basso, però per pronunciarlo cerco di rovesciarlo e di indirizzarlo verso l'alto. In questa direzione mi sembra che sia fondamentale andare per la propria strada, inevitabilmente anche isolati, senza aggregarsi a nessun altro, rinunciando all'approvazione dei più: delle vestali del tempio e dei maestri à la page. Questo lo dico perché, soprattutto in passato, si camminava per scelta strategica o di necessità parallelamente alle indicazioni che venivano da quelle vestali del tempio e da quei maestri à la page. Del resto a me non è mai interessato un gran che. Mi è sempre piaciuta una sottilissima indicazione di Elsa Morante, a questo proposito, che vi leggo: "Come i protagonisti dei miti, delle favole e dei misteri ogni poeta deve attraversare la prova della realtà e dell'angoscia, fino alla limpidezza della parola che lo libera e libera anche il mondo dai suoi mostri irreali. E in questa coraggiosa traversata ogni poeta è un pioniere, perché il dramma della realtà non ha termine ed è sempre un altro".

Proprio per questo, a maggior ragione, visto che di consapevolezza in qualche modo mi si chiede conto, estendo al futuro il mio progetto di scrittore: "chiudere il fuoco nel cerchio della grazia", per usare una metafora sempre di Elsa Morante. Ma, intendiamoci, si tratta di un fuoco che non comporta violenti incendi e neppure ritorni di fiamma. Mi interessa sottolinearlo, nella direzione di quella leggerezza a cui facevo riferimento prima. Una leggerezza che si traspone, spesso e volentieri, in frivolezza: io sottoscrivo l'elogio necessario della frivolezza, che è sempre stata la virtù degli ingegni. Sono convinto che per pronunciare veramente il "sublime" occorra partire dal calco, dall'orma, da una traccia sottile, per una legge dell'inversamente proporzionale: tanto più basso è il tono, tanto più alto è l'effetto: più la materia è grezza e tanto più raffinato è il risultato. Non è che intenda rinunciare alla grandezza delle cose, ma trovo giusto rilevarla nella loro piccolezza. In fondo, dal tempo dei tempi, sulla scena dell'arte si sono sempre confrontate due grandi scuole: quella che inseguiva il sublime nel tono elevato, nella scelta dei grandi eroi, delle grandi storie, dei superlativi, delle lettere maiuscole, del tono drammatico e l'altra, quella che riteneva molto più saggio affidarsi a una legge fisica, una legge che regola la vita di ogni giorno: la legge, appunto, dell'inversamente proporzionale. Quella per cui, per conquistare le grandi figure, occorre affidarsi alle piccole; e per rappresentare il sublime occorre scegliere la strada del tono dimesso, del raso terra, dello stile comico. Come sapete, questa è una direzione che in Italia non ha mai avuto campo aperto, perché la tradizione italiana è una tradizione accademica, d'impostazione fortemente classicista; è una tradizione che ha sempre privilegiato il tono drammatico, la scelta del grande eroe, della grande storia, dell'intonazione elevata, del bello scrivere. Ma vi prego di riflettere un attimo sul fatto che in realtà le cose sono andate diversamente da ciò che sembrano, sul fatto che l'apparenza nasconde altre direzioni. Sì, è vero, non c'è stato mai spazio nella tradizione italiana (per finire in quella novecentesca) per le scelte che andavano contro questa corrente; ma se poi andiamo ad esaminare le esperienze di tutti i nostri maggiori scrittori, scopriamo che hanno lavorato, come dire, al margine di questa tradizione; hanno tentato di mettere in scacco questa tradizione, apparentemente facendone parte, nella realtà dichiarandosi al contrario. Penso, ad esempio, all'Ottocento: penso al Manzoni, ai Promessi sposi che sono un romanzo comico, anche se travestito da romanzo storico, quindi la negazione della linea tradizionale ufficiale. I Promessi sposi è un romanzo travisato, lo sanno tutti. Attraverso la scuola ci viene proposto come un modello pedagogico, mentre è ben altro. Ma ancora più clamoroso è il caso di Leopardi. Leopardi è autore di uno dei libri più rifiutati, le Operette morali; un libro di intenzioni filosofiche e comiche, un libro che non è soltanto finito all'Indice, perché la Sacra Congregazione lo riteneva tale da traviare le coscienze, ma è finito all'Indice di quella che può considerarsi la storia della letteratura italiana: è un libro praticamente rifiutato. La critica o lo ha negato, secondo la vecchia formula d'impostazione crociana per cui dove c'è pensiero non ci può essere poesia, tanto meno poi laddove c'è ironia; o, in qualche modo, lo ha ridimensionato. Le Operette morali è un libro che deve la sua parziale rivalutazione ai filosofi, alle nuove correnti filosofiche degli Anni Sessanta. E' un libro di impostazione antiretorica, antiaccademica; è un libro dell'ironia, della comicità, del pensiero.

Ma, addirittura, restando all'Ottocento, persino il più coturnato dei nostri poeti, il Foscolo, quello che pronunciava a piena voce i suoi versi, ha sentito l'esigenza di andare contro corrente traducendo in italiano, in tempi impensabili, il Viaggio sentimentale di Sterne, cioè un'opera comica, un'opera che era mille miglia lontana da ciò che si considerava letterario in Italia.

Faccio queste citazioni proprio perché "la scuola" alla quale io mi richiamo è una scuola che, nella realtà dei fatti, ha i suoi grandi interpreti anche nella tradizione italiana, anche se questi interpreti si trovano collocati in altre caselle. E' la scuola della grande tradizione di pensiero e di poesia orientale: il Tao, il Libro della Regola celeste. Tutta la tradizione orientale non ha mai separato il pensiero dalla poesia, così come non ha mai separato la poesia dalla musica; erano una cosa unica nell'esperienza corrente, non soltanto di chi scriveva queste cose, ma anche di chi vi partecipava, in un modo o nell'altro, come lettore o semplice ascoltatore.

Perché dico questo? Dico questo perché nello spazio di questa scelta estetica non c'è posto per le distinzioni che invece hanno attraversato la tradizione culturale italiana. Il riferimento d'obbligo è a Croce. Ma, in realtà, Croce ha soltanto chiuso un'epoca, nel senso che si è fatto portavoce di un certo modo di pensare, rilanciandolo in termini teorici. Ma era una realtà che già attraversava la cultura italiana, quella della distinzione tra la forma e il contenuto: una distinzione mostruosa a mio Parere, una distinzione che è la causa di tutta una serie di equivoci e malintesi che sono perdurati, e perdurano, fino ai nostri anni.

Ho citato la tradizione orientale, ma potrei citare anche quella medio-orientale, che poi ha influito sulla nostra civiltà. Ad esempio il pensiero giudaico-cristiano. Anche questo rientra nella categoria che ha fatto la legge dell'inversamente proporzionale, fino alla banalizzazione estrema di certi dettati del Vangelo: gli ultimi saranno i primi; chi tenta di salvarsi l'anima è colui che

se la perde; ecc. Ma la legge dell'inversamente proporzionale direi che è la regola secondo cui è impostato, sia a livello di forma (se vogliamo usare questa distinzione che per noi sembra qualcosa di inevitabile) che a livello di contenuto, tutto il pensiero giudaico-cristiano. Così come a questa legge si commisura anche il pensiero occidentale alle sue origini: quello dei presocratici, in cui si pronuncia una verità che è insieme poesia-pensiero-musica, e lo si fa obbedendo a quelle stesse regole che possono essere in qualche modo ricapitolate in quella legge dell'inversamente proporzionale che ho più volte citato.

E' questa una linea che ha una sua tradizione più scopertamente radicata altrove che non in ltalia (anche se, in realtà, abbiamo visto che, seppure in maniera sotterranea, vive ed esercita la sua azione decisiva anche da noi) come quella francese, inglese o russa, e che per altro culmina in quella che è la più avanzata ricerca letteraria del Novecento. E a questo proposito c'è, io credo, un malinteso: spesso si sente dire che proprio la poesia sarebbe la forma di ricerca letteraria più avanzata, io non ne sono affatto convinto, anzi sono convinto del contrario. Da questo punto di vista la direzione che indicherei è quella che viene fuori dalla commissione dei generi, dalla composizione delle varie forze in campo: il "genere senza generi" insomma, che a ben guardare non è affatto una novità. Perché il "genere senza generi" era la soluzione della tradizione orientale, era la soluzione delle scritture giudaico-cristiane ed era la soluzione di una forma letteraria, a me particolarmente cara, questa sì radicata nella tradizione italiana, per altro a torto musicale: il libretto d'opera.

E libretto d'opera è la soluzione dei contrasti intorno ai generi, è una mescolanza di generi perché, per esigenze di copione, l'opera dev'essere insieme una commedia, una serie di dialoghi, una successione di descrizioni, una successione di affondi lirici e di parti cantabili che devono suscitare una serie di riscontri emozionali, devono realizzare degli echi più sotterranei. Ma, ripeto, il libretto d'opera non è mai stato preso seriamente in considerazione come testo letterario, se non da qualche isolato. E' sempre stato, in qualche modo, conteggiato nello spazio musicale e non in quello letterario. Invece fra i librettisti (e prima ho fatto due nomi: Da Ponte, librettista di Mozart, e Sterbini, librettista di Rossini) ci sono prove letterarie di grandissimo livello in questa direzione. Naturalmente sto parlando di un libretto d'opera che non è il melodramma italiano, che è tutto un altro caso. Io parlo dell'opera buffa, parlo di alcuni testi esemplari in cui si è perseguito questo intento della mescolanza dei generi, e lo si è fatto in quella chiave che dicevo prima: la chiave dell'opera buffa, la chiave del temperamento di Mozart e di Rossini. La scelta della leggerezza, la scelta dell'ironia, la scelta della frivolezza per esprimere ciò che pesa, ciò che significa di più, ciò che è più drammatico, facendolo in una chiave di rappresentazione e insieme di meditazione. Perché il libretto d'opera è una cosa straordinaria: si pensi, ad esempio, ai libretti di Da Ponte. Sono anche dei testi, dove non solo si racconta una storia (che tutti conoscono e che diventa, alla fine, solo un pretesto), dove si fanno delle considerazioni d'ordine psicologico, ma anche filosofico; dove si dà voce pura all'emozione, ma soprattutto alla rete, alla trama delle emozioni, cioè a quei filamenti profondi e nascosti secondo cui la parola viene su dal fondo e la si lancia in questo atto di conoscenza traducendola in un suono, in una pronuncia melodica. Ma non solo. Nei libretti d'opera si fa anche un'altra cosa modernissima: si fa della metaletteratura, perché si parla di come si deve fare entrare in scena un personaggio, o farlo uscire, o perché si tengono lì quei due personaggi a parlare fra loro. Si fa anche questo tipo di intervento di ordine saggistico.

Ci sono tanti esempi e alcuni di questi clamorosi, come nella Cenerentola di Rossini, il cui librettista è Ferretti, dove, ad un certo punto, sulla scena si sospende quello che sta accadendo per ragionare sul perché a quei protagonisti si stanno facendo fare quelle scelte, perché si fa loro pronunciare quella battuta, ecc.

Insomma, dico tutto questo per sottolineare un genere che mi sta particolarmente a cuore, nella direzione dell'inversamente proporzionale. Una scelta che sottoscrivo sia come desiderio di consapevolezza su di me, sia come talento, come indole che mi si addice. Proprio perché nella mia vita quotidiana ho scoperto, sulla mia pelle, che bisogna misurare nel piccolo il grande, e in

ciò che è particolarmente grave, nel senso che va verso terra, le proprie speranze, le proprie illusioni.

Tra l'altro, ho trovato un riscontro di questa situazione, nella stessa ricerca scientifica. Voi sapete che la scienza va in questa direzione, perché è convinta, proprio attraverso la mole delle sue esperienze e la sua storia, che per scoprire l'infinito bisogna scendere nel sempre più piccolo, perché è lì che si potrà trovare qualcosa dell'Ignoto, non puntando verso il grande. Ripeto, è una legge di natura. Come si può sfuggirvi? Non credo sia possibile sfuggire a una legge di natura, nonostante tutti gli sforzi e i desideri in senso contrario. Un'altra prova sono gli effetti dilaceranti dell'energia atomica: dov'è che si ottiene il massimo della potenza? Nel nucleo più piccolo. E' facendo esplodere il più piccolo che si ottiene il massimo dell'effetto. Perché questo non dovrebbe valere, se vale nella vita di tutti i giorni, anche quando pensiamo, sognamo e scriviamo?

Domande e risposte

Nanni - La cosa che mi incuriosisce di più è quella che hai detto all'inizio: "guai agli studiosi!". Ma credo che la cosa vada interpretata in modo scherzoso perché, successivamente, quando hai sviluppato il discorso sul libretto d'opera, hai esternato questo tuo interesse, sottolineando che uno dei suoi elementi positivi è il fatto che esso sia anche metaletteratura; e poi, in un altro passaggio del tuo discorso, ti sei qualificato come non crociano, proprio perché Croce poneva una distinzione netta tra poesia che era intuizione e pensiero che era filosofia. Sappiamo tutti che, secondo Croce, le due cose non possono stare insieme, perché dove c'è pensiero e riflessione non può esserci poesia. Ora, il tuo anticrocianesimo, il tuo amore per il libretto d'opera, sapendo che in esso c'è un livello di metaletteratura, ecc. automaticamente ti portano a inglobare all'interno dell'operazione letteraria o poetica gli studiosi di letteratura, i quali sono metaletterati e non sono crociani se pensano che la poesia esige contemporaneamente una dialettica di pensiero e intuizione. Quindi ti chiederei di precisare meglio in che senso lo studio può diventare una dimensione negativa per la poesia, anzi per la produzione della poesia. Perché hai invitato i poeti a cancellare le loro tentazioni concettuali? Sembra che queste tentazioni concettuali si pongano, all'intero della poesia, in contrasto con la nascita stessa della poesia. In altre parole: per te bisogna vivere la contraddizione o la si può anche articolare in modo più omogeneo?

Ruffilli - Sicuramente bisogna vivere attraversando la contraddizione, è impossibile non farlo. La lotta è quella tra i due estremi, da una parte l'intelligenza, che uno non può fingere di non avere, dall'altra il talento, ammesso che uno ne abbia. Sul campo sono due forze che si contrastano, almeno nel senso che tendono a far valere ciascuna sull'altra una specie di diritto di prelazione. Il problema è sempre quello di trovare il giusto equilibrio, perché è chiaro che l'intelligenza non può non esercitarsi.

Per ciò che mi riguarda la soluzione non può che essere quella più difficile: mettere d'accordo l'una e 'l'altra senza rinunciare né all'una né all'altra. E' chiaro che in noi agiscono sempre queste due forze, che non necessariamente sono sempre contrapposte, ma vanno in direzioni diverse.

Prima si parlava di una parola che "sale in superficie", che "viene da lontano", ha detto bene Vetri; ma viene da lontano perché trascina con sé dei filamenti, che sono così ramificati e vanno così in profondità che determinano per forza questa realtà di lontananza. Dall'altra parte c'è questa tendenza dell'intelligenza a misurare e quindi a cercare di estrarre possibili motivi: le ragioni, il come, il perché. Le due forze, secondo me, devono trovare una composizione, e devono trovarla senza rinunciare reciprocamente alla carica di significanza che hanno: è qui il punto. E' inevitabile che, scegliendo questa direzione, si scelga, come dire, il relativo. Ma è giusto, secondo me, scegliere il relativo, scegliere il principio di contraddizione, proprio perché la contraddizione è nell'ordine dei fatti della nostra interiorità.

Studente - Io volevo chiederle di chiarire il concetto in base al quale lei distingue fra "cose pesanti" e "cose leggere". In base a che cosa lei considera che un oggetto "basso e pesante" possa diventare "alto e leggero" per la poesia? Non capisco bene questa distinzione in cui un oggetto diventa importante per la poesia mentre non lo è di per sé.

Ruffilli - Intanto devo dire che l'aggettivo "importante" non era nelle mie intenzioni: se l'ho pronunciato è stato erroneamente, nel senso che non è questo il punto. Io parlavo di un tentativo di tradurre ciò che pesa nell'esperienza nella sua pronuncia più leggera, più lieve, più brillante. Faccio un esempio. Nella mia esperienza, così come nell'esperienza dei più, è impossibile non fare i conti con la realtà e specchiarsi nella sua natura drammatica. Il dramma è, direi, la condizione prima della vita, nell'esperienza che se ne può fare, e naturalmente ci sono livelli diversi di dramma.

Ecco, visto che la vita è una cosa drammatica (lo si sperimenta sulla propria pelle giorno per giorno) come dare pronuncia al dramma della propria vita? Facendo, ad esempio, come si faceva ad Atene all'epoca di Pericle, attraverso una bella tragedia con tanto di urla, pianti, grida, strappandosi i capelli e gettandosi per terra? E questa la via? Mi sono chiesto. Sicuramente no, per me. Né dal punto di vista del mio temperamento, né da un punto di vista di scelta razionale, di consapevolezza. Per altro, sapendo per esperienza che non esiste niente di nuovo sotto il sole e che quelle che ci sembrano novità sono semplicemente scoperte nostre, ma che altri avevano fatto prima di noi, quindi, verificando in altri queste scelte, ho detto: per me la pronuncia del dramma dev'essere un modo, nella conoscenza, di prenderne le distanze perché risalti, per quella legge dell'inversamente proporzionale, con una forza ancora maggiore. E ancora di più oggi. Perché se voi vi guardate intorno, o siete a casa che mangiate davanti al televisore, vedete che lì ci sono centinaia di morti, e la cosa non vi turba più di tanto, ormai, come effetto. Voi continuate a mangiare e vedete che lì si è consumato un dramma, ma quel dramma è spettacolarizzato ormai: attraverso la televisione ha perso densità, è diventato superficie, qualcosa che accade senza coinvolgerci. Allora io, oggi, cosa faccio? Scelgo, di fronte a quell'immagine, volendo rappresentare il dramma, di urlare, di piangere, di gridare? Come minimo sfioro il patetico. Ma devo essere già bravissimo per rimanere a livello di patetico, perché se la situazione mi sfugge dalle mani cado nel comico involontario, ottenendo il peggiore dei risultati possibili e immaginabili.

La scelta di una pronuncia lieve, che è poi un insegnamento che viene da molto lontano, è la scelta di raffigurare il più possibile fuori di sé, ma non per questo partecipando di meno, una certa situazione: darle forza attraverso la leggerezza, attraverso la musica. Era quello che faceva Mozart. Se voi considerate la sua vita, vedete che egli ha tradotto il suo dramma in una pronuncia frizzante, lieve, scegliendo la presa delle distanze, l'ironia. E, quando dico ironia, ci terrei a sottolineare un aspetto fondamentale: Croce diceva che dove c'è ironia non può esserci poesia, in realtà non aveva capito nulla. E questo anche per un vecchio malinteso per cui l'ironia dovrebbe scatenare le risate. Ma non è questo. L'ironia può essere riso o sorriso, ma non necessariamente: le due cose non sono affatto legate. L'ironia è (fuori dagli schemi comuni) un modo di venire a patti con quella contrapposizione che dicevo prima, tra talento e intelligenza. Un compromesso nobile, elegante e anche molto produttivo da un punto di vista espressivo. E' questa l'ironia secondo me: una scelta che ha una lunghissima tradizione. L'ironia non è stata inventata dagli illuministi, che pure ne hanno dato prove molto significative. L'ironia viene da molto lontano: era una misura dell'espressione, si legava a quel territorio "miracoloso" in cui i generi, in quanto tali, non esistevano, perché vivevano in un genere che era al di sopra di tutti gli altri, e alla cui pronuncia si mettevano in moto contemporaneamente risposte diverse che riguardavano il pensiero, le emozioni, il puro peso del suono e tutte queste cose messe insieme.

Studente - Il prof. Nanni ha parlato all'inizio di "necessità socio-culturale". Lei ha subito precisato che il poeta deve scrivere per se stesso, isolandosi dagli altri, andando diritto per la sua strada. In questo modo, però, il rapporto con la società viene a mancare quasi completamente. Poi ha anche parlato, citando la Morante, "né di grandi fuochi, né di ritorni di fiamma": questo significa accettazione della società in quanto tale e isolamento in una propria poetica che non mette in discussione nessun valore affermato, o le cose stanno diversamente?

Ruffilli - Innanzitutto non intendevo dire che uno scrittore deve isolarsi dalla società e scrivere per sé; ognuno fa la propria esperienza. Nella mia esperienza, io ho attraversato diversi momenti e diversi nodi irrisolti o complessi di colpa. Quando frequentavo l'università, qui a Bologna, in quegli anni scrivere poesie era quasi un reato, a meno che queste poesie non avessero una direzione privilegiata, che andava verso un riscatto comune dell'uomo in quanto membro della società, in quanto membro sfruttato da una società, che si serviva di lui per fini che non avevano niente a che fare con la sua personalità. Allora mi ricordo che l'ordine del giorno era che non si poteva pensare a uno scrittore se non "impegnato". E' uno dei tanti malintesi che hanno attraversato l'Italia, in particolare nel secondo dopoguerra.

Ecco, era sicuramente una visione parziale e miope, per non dire cieca; nel senso che il cosiddetto "impegno" non si sa bene cosa voglia dire. E' più impegnato uno scrittore che compone un nuovo inno sul tipo di "avanti popolo alla riscossa ... " oppure no.

Impegnato non significa nulla, anche perché si tratta di verificare nel concreto ciò che uno scrittore ha scritto, e vedere in che termini ci interessa, se ci interessa; in che misura suscita in noi reazioni in una direzione o nell'altra, ma in ogni caso di "crescita" come si diceva allora.

Io, nella mia esperienza, dovevo riconoscere che questa indicazione generale era una indicazione sbagliata, perché i cosiddetti scrittori impegnati mi sembravano inconsistenti. Qualcosa mi poteva interessare, altro no. Era comunque un'indicazione sbagliata. In uno scrittore mi interessava qualcosa che mi coinvolgeva, in una direzione o nel suo esatto contrario. Cioè, qualcosa, che mi spingesse ad essere in accordo con lui, o che mi spingesse ad essere in disaccordo, ma, comunque, che mi coinvolgesse ad un livello significativo. Le mie letture, quindi, mi davano come risposta che ciò che io cercavo era difficile innanzitutto da definire (potevano anche essere cose diversissime fra di loro, addirittura, opposte), ma quando lo trovavo me ne accorgevo, e sicuramente non coincideva quasi mai con le indicazioni correnti.

Quando mi sono messo a scrivere l'ho fatto nella direzione che mi sembrava e che sentivo come necessaria e sufficiente per me. Non mi sono messo a scrivere per fare un libro, che ne so, da pubblicare per ottenere denaro o chissà cosa; non era questo il mio interesse. Il mio interesse andava nella direzione di qualcosa che fosse per me necessario e sufficiente e, in qualche modo, urgente. E cos'era questo qualcosa di urgente che io inseguivo? Era tentare di fare chiarezza dentro di me, perché nella mia esperienza (allora come adesso) verificavo questa incessante fuga all'inseguimento di un fantasma che non si materializzava mai. Come chiamarlo questo fantasma? Forse Verità.

E' stato Benjamin a parlare della "necessità del rimando" con cui ciascuno di noi fa i conti man mano che cresce. Uno va alla scuola elementare e lì impara ... ma i dubbi restano, tante cose non gli sono chiare, però gli dicono: "aspetta e vedrai; lascia tempo al tempo". Poi va alla scuola media e lì i dubbi invece di diminuire aumentano, ma la risposta è la stessa. Allora va avanti, arriva all'Università, che è una specie di meta che bisogna doppiare, perché io ero convinto che lì mi si sarebbe chiarito tutto, e invece non mi si è chiarito proprio nulla. Allora in questo inseguimento, in questa ossessione di conoscere le proprie coordinate, io mi riconosco.

Questa è la mia esperienza, però non pretendo che altri facciano la stessa cosa. Quello che interessa fare a me è occuparmi di me stesso. Tra l'altro, questo oggetto di ricerca, dopo tanti anni ancora resiste, non mi è venuto a noia. Per me vale sempre il Libro della Regola Celeste: il saggio conosce il mondo e non ha mai aperto le finestre. E la legge dell'inversamente proporzionale: più uno scende dentro di sé e più può rispecchiare l'altro da sé, non viceversa. Perché, se io mi proietto fuori di me, quasi sicuramente prendo degli abbagli.

 Nanni - Visto che sono stato chiamato in causa, vorrei precisare una cosa. Nella mia introduzione [Dall'introduzione all'intero ciclo di conversazioni su La poesia necessaria in "Parol" n. 4/1988 pp. 33-35] ho prospettato, grosso modo, un quadro di tre possibili necessità: una necessità psicologica, una necessità socio-culturale e una necessità tecnico-retorica. Ora, la risposta che Ruffilli ha dato in merito alla necessità della poesia, mi pare che si possa, se Ruffilli me lo permette, schematizzare sul primo tipo di necessità: cioè scrivo per me. In fondo, quando io parlavo di necessità psicologica, intendevo questo rapporto endoverso tra la ,poesia e chi la produce. Però non è che gli altri tipi di necessità possano essere pensati ad esso giustapponibili, da esso separabili. Penso piuttosto a un modello a scatole cinesi in cui una necessità implica l'altra; per cui datane una si hanno immediatamente le altre due. Quindi, procedendo per questa strada, direi che Ruffilli, prospettando come poeta una necessità di primo tipo, prospetta anche la necessità di secondo e di terzo tipo. Naturalmente sono d'accordo che bisogna, per poter dare senso a questa inclusione, interpretare diversamente il termine impegno. Secondo me non è possibile porre l'opposizione impegno/non impegno, perché nel momento in cui una poesia diventa linguaggio è di fatto dentro al sociale. Nel momento in cui una poesia diventa testo quindi linguaggio, si pone come fenomeno intersoggettivo, perciò la necessità di primo tipo diventa automaticamente, secondo me, anche la necessità di secondo tipo, perché di fatto il linguaggio è un luogo intersoggettivo, sociale, culturale. Ma diventa subito anche la necessità di terzo tipo, perché questa poesia sarà costruita pure in un qualche modo. Voglio dire che ci sarà pure una tecnica di costruzione, e se c'è una tecnica di costruzione ci sarà anche una sua organizzazione retorica, e se c'è una organizzazione retorica c'è anche una risposta necessariamente data da questa poesia alla tradizione linguistica della poesia. Allora come si può dire non-impegno se l'impegno è inevitabile? Secondo me si può dirlo solo precisando una distinzione fra gli impegni: da un lato un impegno politico in senso stretto, partitico, e dall'altro un diverso tipo di impegno che potremmo chiamare, con una brutta parola, umanitario: oppure potremmo chiamarlo antropologico, che, se non altro, lo indica scientificamente, togliendo di mezzo il cuore e tutto ciò che il cuore si porta dietro.

In fondo la tragedia di tutte le rivoluzioni è sempre stato lo scoramento tra la rivoluzione tecnico-politico-amministrativa e la rivoluzione antropologica. Nel senso che, da un lato, si rovesciano le strutture di un stato, ma non si cambiano, dall'altro, gli animi, le convinzioni, il modo di rapportarsi alla realtà. E così, di fatto, la rivoluzione fallisce, si ristruttura con gli stessi difetti dell'organizzazione precedente e così via.

Direi, allora, che in fondo Ruffilli con il suo discorso non è che abbia rifiutato l'impegno, ha scelto tra un impegno politico-partitico, in senso stretto (in qualche modo già squalificato all'interno della stessa cultura che lo proponeva, non dimentichiamoci del famoso veto di Vittorini di "suonare il piffero alla rivoluzione"), e una rivoluzione sui tempi lunghi, una rivoluzione antropologica. Cioè: scrivo dei testi, voglio in qualche modo praticare un certo vero, ve li dò cioè li pubblico, li faccio circolare augurandomi, e questo mi auguro che accada, che un infinito numero di altre persone collabori con me a praticare questa ricerca.

In questo senso, anche per Ruffilli credo si possa parlare di impegno.

Ruffilli - Sono d'accordo con quello che ha detto Nanni, aggiungo solo che il fatto che io sia poco socievole è una questione privata che non ha niente a che vedere con quello che scrivo. E io scrivo di ciò che conosco. Del resto la vecchia regola del mondo, ricapitolata molto bene da Flaubert, dice: scrivi di quello che conosci se vuoi essere veramente universale.

Nanni - Perciò, raccogliendo la sua precisazione, non è che per questa strada ci si isoli, si pratica l'altro in forma diversa.

Studente - Vetri, a proposito della sua poesia, ha parlato di una "parola che viene dall'interno" e di una "parola che viene dall'esterno". La prima più briosa, la seconda più secca. E poi ha parlato di una sinergia che unisce le due.

Mi potrebbe spiegare il gesto tecnico che usa nella sua poesia per far questo?

Ruffilli - Da una parte c'è quella predilezione per il libretto d'opera che fa questa operazione: lega fra loro diversi livelli di linguaggio, quindi parole diverse. Dall'altra c'è una considerazione, diciamo pure ossessiva, che mi ha sempre accompagnato: il verificare come ciascuno di noi abbia una specie di manopola, regolando la quale cambia registro, cambia livello linguistico. Ad esempio a scuola c'è un certo livello linguistico ufficiale, quando si è interrogati, e ce n'è un altro in cui basta poco e niente, anche solo un'occhiata. Ecco, mi ha sempre colpito in maniera ossessiva lo scorrere parallelo di questi livelli dentro di noi; e questi livelli scorrono sempre parallelamente, non s'incontrano mai, non c'è un punto di interferenza fra l'uno e l'altro, ognuno va per la propria direzione. Ciò nonostante c'è un esito, come dire, unificante, c'è un effetto di orchestrazione: questo mi interessava e questo perseguivo. E come modello mi pareva che il libretto d'opera avesse già dato delle indicazioni molto precise e significative. Cioè si possono far convivere, come nella realtà convivono, questi linguaggi tra di loro in una orchestrazione comune, ma conservandoli ciascuno al proprio livello.

Poi, l'altra cosa che mi ha sempre affascinato, rispetto al parlare con gli altri, in cui c'è l'esigenza, la necessità di un certo ordine per convenzione, per scambiarsi delle comunicazioni, è la libertà assoluta del pensiero: cioè di quando uno pensa e realizza questa libertà sincronica in cui non esiste più passato presente o futuro; in cui si mescolano parole e immagini, e le parole hanno, oltre che un certo suono, anche una certa forma. Non so se ci avete mai fatto caso, ma spesso e volentieri molte delle nostre parole, risuonando nella nostra mente, non hanno solo, un suono, ma anche una forma. Sono degli oggetti vaganti. Ecco questo mi ha sempre affascinato: questi minimi oggetti vaganti in questa specie di infinito, in questo cosmo in cui non si sa da dove vengano né dove vadano. Anche questo mi interessava cercare di tradurre, e naturalmente per cercare di tradurre una cosa del genere ho dovuto fare delle scelte. E' chiaro che non potevo pensare di realizzare, se non attraverso quella successione filamentosa, l'effetto, oltre che sonoro, dell'immagine, della misura anche geometrica che hanno le parole. Dall'altra i dialoghi che sono mescolati in questo libro, dovevano rispondere alla legge d'economia della lingua: farsi intendere con chiarezza. Ma farlo secondo l'uso comune, che è un uso secondo me splendido: cioè l'uso dei luoghi comuni. Io sono un sostenitore, un rivoltatore dei luoghi comuni. Mi pare che oltre al sapore che hanno per la loro storia, siano destinati, magari fra qualche anno, ad essere studiati come la forma espressiva più carica, più colorita; forse un giorno verranno considerati un modo espressivo barocco. D'altra parte se noi guardiamo la televisione (è un riferimento inevitabile), dove il linguaggio si è scolorito, dove si usano anche parole difficili, tecniche, nei suoi confronti il più banale dei luoghi comuni ha una forza poetica straordinaria. Se io dico: "te ne do un sacco e una sporta", a emergere sulla scena è un'immagine splendida. In questo senso io amo il luogo comune.

 

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