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INTERVISTA A LUIGI SQUARZINA

di  PESCE MARIA DOLORES

Professor Squarzina, nel 1945, dopo aver conseguito il diploma di regia alla Accademia di Arte Drammatica, venuto subito dopo la Laurea in Giurisprudenza, ha iniziato una lunga e significativa carriera all'interno del Teatro Italiano svolgendo diversi ruoli : regista, drammaturgo, direttore di teatro prima allo Stabile di Genova e poi a quello di Roma, critico, studioso del teatro, infine Docente universitario al DAMS di Bologna e all'Università di Roma. Quale di questi ruoli considera più suo e da quale si sente meglio connotato ?

Dovrei dire che non li avrei affrontati tutti quanti se non avessi pensato che erano, in fondo, la stessa cosa, che erano un'unità. Una certa vocazione didattica, ad esempio, dovrebbe essere implicita al lavoro di regista e d'altra parte forse io avrei dovuto continuare così come avevo iniziato, io ero soprattutto un autore ma, devo dire, questo non è un mestiere che in Italia apra  prospettive sicure, in particolare per le cose difficili che io andavo scrivendo e quindi mi sono trovato soprattutto ad indirizzarmi verso l'attività pratica. Questo anche perché trovai appassionante il compito di rompere le barriere che c'erano nella civiltà teatrale italiana nei confronti dello spettacolo moderno. Certe resistenze, ad esempio, degli attori verso la direzione di regia, molta resistenza invece dei teatri ai costi di lunghe chiusure per i periodi delle prove, poca sicurezza nella scelta del repertorio, una modalità di intervento del tutto assistenzialistica e capricciosa, diciamo politica, dei poteri pubblici nel teatro. Quindi tutta quella eredità del periodo fascista che non aveva concepito il teatro neanche come strumento specifico di propaganda, affidata questa soprattutto alla radio e al cinema. Questa era dunque una impresa abbastanza audace da attirare un gruppo di giovani quali eravamo noi che allora operavamo abbastanza all'unisono, fino a che vita e carriera non ci hanno separato. Specialmente quelli, come me, usciti dall'Accademia negli anni dal 1945 al 1950 erano abbastanza determinati a modificare lo stato di cose allora vigente, proprio come voleva e pensava Silvio D'Amico che aveva concepito l'Accademia come unità di insegnamento di regia, unità di insegnamento di recitazione,  integrati da un po' di  studio di scenografia, di storia del Teatro e insieme un po' di danza. Insomma una scuola specifica, direi con un fine operativo, non una Grande Scuola con tante materie come forse ci sarebbe voluto, ma una bella scuola, una scuola forte dove soprattutto noi imparavamo tra di noi, perché eravamo allora una generazione di persone che credevano l'una nell'altra. Anche la pressione degli ultimi anni di guerra in fondo serviva, perché ci motivava politicamente, ci dava anche l'idea che, una  volta usciti da quel tunnel si sarebbe potuta svolgere una attività in luce. In effetti quegli anni furono molto difficili, all'uscire dall'accademia, perché le resistenze dell'ambiente, come le ho detto, erano forti. Però i tempi erano anche maturi sia perché, da un lato, le stesse compagnie private, a cominciare dalla Compagnia Stoppa e Morelli, con Visconti, e da altre si aprivano allo spettacolo moderno, sia perché dal 1948, mi pare, nascevano i teatri a gestione pubblica, con il Piccolo di Milano, e subito dopo con Genova, Torino e via così. Quindi il periodo così detto eroico durò tutto sommato per gli Anni 50, neanche, devo dire che già nel 1951 - 52, quando io e Gasmann facemmo il Teatro d'Arte Italiano, si era fuori dal tunnel, si lavorava già con il concetto moderno. Certo non quello di oggi, non c'era la possibilità di fare tante prove e il repertorio era inoltre ancora molto sensibile ai successi di Broadway. D'altronde, come dire, il teatro di Broadway aveva allora un grande valore, soprattutto perché  alcuni contenuti tematici erano per noi nuovissimi. Un'altra cosa importante era che si cominciavano a formare dei gruppi che evolvevano insieme. Anche noi dell'Accademia, al principio sostanzialmente io, Gasmann, Salce e Celi, cercammo di stare insieme e così le scritture di attori come Buazzelli, Manfredi le facemmo noi. Dopo con Gasmann che ormai era diventato un prim'attore di richiamo, famoso, e dunque c'era la possibilità di sviluppare una compagnia nostra, formammo appunto quel Teatro d'Arte Italiano che per due anni fu molto importante a Roma e anche nel panorama del teatro italiano. Ad esempio potemmo fare l'Amleto in edizione integrale   nella mia traduzione, oppure il mio "Tre quarti di luna", o anche il Tieste di Seneca, spettacolo dimenticato, ma tutto sommato fondamentale. Non solo perché per la prima volta si rappresentava Seneca, ma soprattutto perché per la prima volta, seppur in un modo un po' brado, si tentava di fare un teatro crudele alla Artaud. Poi con Gasmann ci separammo perché, per così dire, lui era troppo attore ed io ad altro versato e continuammo ciascuno per conto proprio. Contemporaneamente si venivano formando altre nuove piccole comunità ed insieme i Teatri Stabili cominciavano a funzionare. Io all'inizio ero contrario ai Teatri Stabili perché li consideravo troppo burocratici e in ultima istanza impastoiati con la politica, come in realtà quasi sempre è. Però quando ho cominciato a lavorare free lance a Genova con Ivo Chiesa, mi sono man mano convinto che i Teatri Stabili potevano essere condotti con criteri non burocratici, con scelte non eminentemente o esclusivamente politiche. E così dopo spettacoli importanti rappresentati a Genova, come "Misura per misura", "I demoni", soprattutto "Ciascuno a suo Modo", ma anche "Uomo e Superuomo", nel 1961 accettai l'offerta di Ivo di diventare Direttore insieme a lui. Quello fu il passaggio per me, da una attività ad un'altra, perché dirigere un teatro è diverso che fare delle regie sciolte, perché ora parliamo di fare delle scelte, perché si deve scegliere un repertorio. Non solo si può formare un gruppo di attori, ma anche un gruppo di tecnici e, alla fine, si affronta, non voglio dire l'educazione teatrale di una intera città, ma qualcosa che in fondo ci somiglia.   

Mi sembra che il teatro italiano contemporaneo, inteso proprio come sistema, come organizzazione, sia connotato da un'insieme di specializzazioni che si affiancano senza veramente amalgamarsi in un linguaggio comune, in un prodotto che sia veramente collettivo. Lei cosa ne pensa ?

Io ho scritto su questo, sia un intervento di carattere universitario nei primi anni 70 che si intitola "Nascita, apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante", sia alla voce "regia" nella Enciclopedia Treccani, che poi ho ripubblicato anche in volume. In questi scritti ho cercato di dire che, da una parte, questa diversità era innegabile e, dall'altra, conteneva una sostanziale unità, se si  interpretava il tutto come azione verso la Società per il mezzo del teatro. Non è detto che, allora o adesso, tutti dovessero pensarla così, ma a me sembrava che queste divisioni, questi comparti, queste specializzazioni, come avanguardia, teatro pubblico, cantine, teatro tradizionale fossero tante vite di una stessa vita, non andassero dunque concepite antagonisticamente. Questo, credo, anche per una mia naturale propensione alla didattica, per cui ho sempre concepito e ho sempre creduto in  un ruolo pubblico del teatro, ovviamente non partitico, ma indirizzato alla polis, cioè ad una comunità, un paese, una civiltà, una situazione, una storia. Questo è stato un po' il discrimine rispetto ad altri registi, altrettanto importanti, che però non hanno sentito molto questa spinta, o l'hanno sentita in un modo diverso. Del resto anche questo non è obbligatorio, perché si può fare del grande teatro in piena autonomia rispetto ai problemi della storia o della politica, ma non ovviamente rispetto alla Società. Quello che non mi ha mai convinto è il formalismo, perché la mia naturale formazione mi porta a confrontarmi con i problemi vissuti e perché in fondo mi è sempre sembrato un rifugio in quanto non è una soluzione, ma un chiudersi dentro una corazza.

Nel Novecento, in particolare, vi è stato il prevalere in tempi e luoghi diversi dell'una o dell'altra funzione, con caratterizzazioni man mano definite "teatro di regia" ovvero " teatro dell'attore". Adesso in quale situazione sta il teatro italiano ?

Sta in una situazione che, più che di confusione, definirei di opacità, perché il teatro italiano è sempre più dipendente dalle sovvenzioni e dagli interventi dello Stato, il quale Stato, nelle sue decisioni, è abbastanza cervellotico. Cerca di prendere una strada, poi la modifica, anche ultimamente ha cambiato e tenta di promuovere programmazioni triennale e di facilitare nuovi gruppi che si insediano. Ad esempio quest'ultima soluzione, se da un lato sembra venire naturale, dall'altro nasconde un clientelismo politico più che evidente.  Tutto ciò non affronta i problemi di fondo del teatro italiano che, in sostanza, consistono nella necessità, scusate il bisticcio, di avere più fondi, cioè investimenti più consistenti, perché con le attuali disponibilità questi compiti diventano assai difficili da assumere. Vi è stata poi nella scena italiano una singolare, interessante, caratteristica, quella di aver realizzato nel secondo dopoguerra i programmi non attuati a suo tempo dalle avanguardie storiche. In realtà si è sempre preso spunto da quelle posizioni, sia di teatro totale, sia, diciamo, di teatro di provocazione, ed è però significativo che quelle voci abbiamo parlato nel secondo dopoguerra, è stato, credo, molto significativo per l'evoluzione della cultura italiana non solo teatrale. Anche a Genova ho cercato di far venire dei gruppi indipendenti e la cosa non è stata affatto facile, perché vi era una naturale resistenza, un naturale egoismo dall'altra parte, dalla parte cioè del teatro tradizionale. Però quello che ritenevo si dovesse fare ho cercato di fare, anche perché non ho mai creduto ad una impostazione crociana di unità dell'opera d'arte, ma ho sempre creduto di più nel montaggio, nell'opera libera che non tende ad una armonia prestabilita, se non, a volte, in apparenza, ma in realtà sempre con dei segnali di scardinamento. Questa, a mio nodo di vedere, è la linea che ho sempre cercato di seguire il più a lungo possibile, soprattutto per tutto il periodo in cui ho lavorato, per così dire, da padrone, in un teatro pubblico.

Nel corso di una mia intervista ad Edoardo Sanguineti, questi, proprio riguardo a ciò, rilevava la necessità di sviluppare anche da noi, similmente a quanto avviene già in Europa in special modo in Germania, la figura del DRAMATURG, diversa dall'autore e dal regista, intesa cioè come colui che progetta la modalità della realizzazione scenica lavorando sul testo letterario e avendo in mente l'attore che lo reciterà, il luogo ove verrà messo in scena, quindi organizzando tutta la materia che partecipa del fare teatro in un linguaggio coerente. Quale è la sua opinione ?

In proposito anche se non ripubblicata, può essere ritrovata una mia intervista di molto tempo prima su "Sipario", intitolata appunto "L'autore è morto, viva il Dramaturg?" con il punto interrogativo. Era un articolo abbastanza lungo, perché allora Sipario era una rivista con ampie aperture teoriche, che fosse ancora sotto la direzione di Franco Quadri. In quel testo affrontavo il problema che, poi non è stato raccolto. L'unico è Meldolesi che ha cominciato un libro sul DRAMATURG ma mi ha confessato di non essere andato molto avanti, almeno per ora. Quindi io non posso che essere d'accordo. Magari non la vedo così totalizzante la figura del dramaturg, per me è la presenza dell'autore nel teatro, sia dell'autore come sé stesso che come mano verso gli altri autori, quale è appunto nel teatro tedesco, ma non solo nei teatri tedeschi che, come noto, sono iperorganizzati. In particolare bisogna pensare che figure come Brecht si sono formate come dramaturg, che poi molti autori sono stati dramaturg di sé stessi. Come altrimenti definire queste figure complete che sono state, o sono, autori, attori, registi e che si formano in tutto questo. Pensiamo a De Filippo, a Dario Fò oppure a Carmelo Bene, figure che si sono autonomizzate e hanno fatto questo auto-lavoro, più su corde proprie, perché ovviamente vi è anche una certa tendenza ad un narcisismo dell'autore più che ad applicarsi a testi altrui. Figure dunque piuttosto isolate. Quindi secondo me è una questione che il teatro italiano, come sistema, non affronterà mai, perché non ci saranno mai soldi e perché i teatri stabili formano giovani in grado di fare un ufficio studi e anche di collaborare, da questo punto di vista, con il Direttore ma non integralmente, non raggiungendo questa specificità, questa organicità. Questa figura dunque mi sembra un po' contraria allo spirito, al carattere del teatro italiano.

Nella tradizione italiana, quale quella da lei tratteggiata, non le sembra che la figura del dramaturg possa essere ostacolata anche dalla distinzione tipicamente nostrana tra studioso, scrittore di teatro, uomo di teatro, quest'ultimo alle prese con gli aspetti pratico operativi di questa attività ? Insomma dalla diatriba delle cosiddette "cattedre separate"

Quello che dice è vero ma, secondo me, c'è nella nostra tradizione anche la tendenza a fare tutto insieme, da parte di ciascuna delle figure citate, secondo il vizio un po' italico di non lasciar niente al vicino, di appropriarsi un po' di tutte le funzioni. Anche in politica tutti vogliono le funzioni degli altri, ma questo è un po' un tratto caratteriologico degli italiani. Da un altro punto di vista a lungo, come lei sa, la letteratura drammatica è stata tenuta separata dallo spettacolo. Abbiamo in effetti molto lottato con l'Enciclopedia dello Spettacolo, tappa fondamentale sia per me che per tutti, di introdurre la Storia e la Critica dello Spettacolo autonomamente dalla Letteratura Drammatica. Alla fine forse ci siamo riusciti anche troppo. Oggi per lo più nessuno si occupa di drammaturgia, ma tutti scrivono sulle feste, sugli attori, sui registi. Di laureati con tesi in Drammaturgia oramai ne vedo molto pochi, quindi come sempre in questo sforzo si è andati al di là dell'appropriato, ma in fondo credo sia stato salutare. Adesso addirittura la letteratura drammatica è quasi collaterale rispetto all'insegnamento del teatro, e questo secondo me non va del tutto bene. Il testo infatti, secondo me, contiene già tutto, è il codice per tutti gli spettacoli possibili, quindi è il frutto, in fondo, di un equivoco teorico pensare ad una maggiore importanza della rappresentazione rispetto al testo. Bisogna studiarli separatamente e dare molto spazio alla conoscenza della storia dello spettacolo e alla documentazione, questo è corretto e in questo siamo riusciti, questa è una cosa che la mia generazione ha realizzato in pieno, sia nella struttura delle cattedre che nella pratica.

In occasione del trentennale del D.A.M.S. , per Lei che ne è stato uno dei fautori e vi ha insegnato per anni Istituzioni di Regia, questa Istituzione ha costituito e costituisce un ponte  tra queste due funzioni del fare il teatro, oppure rischia di essere una conferma, un consolidamento, della loro presunta separatezza e distinzione ? Per dirla in altro modo, si è o rischia di accademizzarsi ?

Il D.A.M.S.  di Bologna ha retto a lungo con una sua specificità, era il posto dove la parte della storia era molto limitata, nel senso che era sempre interpretata come un avvio ad altro, mentre altrove trionfano e trionfavano le storie. Poi con il tempo la caratterizzazioni delle istituzioni universitarie.  E' in fondo, poi, una questione di cattedre e di concorsi, cioè diventa difficile conservare ad una cosa che è nata in un certo modo la sua specificità. Io me ne sono andato per svariati motivi, non ultimo il fatto che dopo diciassette anni non ne potevo più di treni. Diciassette anni sono tanti e poi io facevo soprattutto il regista. In realtà io prendevo un treno la domenica, stavo a Bologna il lunedì, il martedì, delle volte anche il mercoledì mattina, anzi spesso provavo con la compagnia già il martedì sera. Era una cosa quindi abbastanza massacrante, anche se la facevo molto volentieri. Però credo che proprio la presenza di persone come me, diciamo così "operative", dava un senso al D.A.M.S. , che invece al contrario può rischiare di essere concepito come un ricettacolo di carriere "accademiche", la qual cosa secondo me, se forse è fatale, non è nel suo spirito. Nel D.A.M.S. c'erano tante possibilità non attuate e l'operatività in fondo era abbastanza limitata. Noi ci battevamo per una maggiore operatività e, per questo, io feci anche una conferenza a Bologna in cui ho cercato di spiegare come l'operatività potesse dispiegare a fondo le potenzialità del D.A.M.S.  Poi quello che non potemmo fare noi traboccò spontaneamente nelle strade perché quella prima iniziale esperienza finì in fondo negli anni settanta e sappiamo come finì. Però secondo me questo fu quasi inevitabile non tanto per ragioni politiche quanto per intrinseca vocazione del nostro insegnamento, della concezione del teatro come vita. Adesso però non so, non ho più il polso della situazione, e poi ne sono nati altri di D.A.M.S., una a Roma e uno a Torino, ciascuno molto diverso dagli altri, e altri stanno per nascere. E pensare che all'inizio ci prendevano in giro per quello che tentavamo di fare, ma in fondo ciò lo rendeva più bello, perché dava la consapevolezza di essere su una strada nuova e giusta, perché già allora i giovani cominciavano a comprendere il cambiamento della comunicazione e dei mezzi della comunicazione. Lo comprendevano forse più di noi stessi anche senza essere coscienti fino in fondo. E' stato facile quindi trovare degli adepti anche se all'inizio non sapevamo bene cosa venivano a studiare. Adesso probabilmente ne sanno un po' di più, anche se, a quanto mi dicono, molti ancora si iscrivono convinti di diventare attori o registi. Però in fondo, grazie a quella storia, l'Università ha potuto diventare la mamma di Grotowsky, del Living e anche, a suo tempo, la mamma di Kantor. Cioè c'è stato, credo proprio grazie al D.A.M.S., un atteggiamento di apertura e comprensione verso quel teatro e quel mondo. Paradossalmente se scorgo, al contrario, un limite nei professori attuali è un certo atteggiamento di chiusura verso quello che loro considerano il teatro tradizionale, il teatro professionale. Non lo vedono chiaro; in fondo per loro esiste Barba, ma non esiste quasi Ronconi; vi è dunque un pregiudizio virtuistico associato ad un atteggiamento fintamente pauperistico, forse. Un atteggiamento che neanche io sono riuscito a modificare, pur combattendolo. Io infatti credo che il grande teatro ha sempre abbracciato tante e diverse cose. Però, in fondo, per chi non viene dalla professione risulta anche di maggiore soddisfazione diventare professori tutelando piccoli gruppi. Forse è un desiderio di piccolo potere che, all'inizio, ha anche avuto un riscontro positivo, non ha guastato, ma può guastare con il tempo anche perché sono funzionalità francamente incompatibili.

 Che funzione pensa possa avere l'esame di psicologia all'interno di un corso di studi del D.A.M.S., esame tuttora presente tra i fondamentali, e di cui credo Lei abbia a suo tempo parlato ?

Bisogna vedere cosa si intende per psicologia. Se si intende lo studio dei meccanismi psichici che portano al teatro, io ha sempre pensato che la mimesi sia precedente alla comunicazione. Il primo istinto che si forma nell'individuo all'interno del grembo materno è la mimesi, poi viene la comunicazione. E su questo ha scritto bellissime cose Benjamin, tra le più belle che ci siano. Anche io ho scritto molto su questo e in questo senso per psicologia intendevo lo studio di queste facoltà, ma poi ignoro fino a che punto questa idea sia stata sviluppata.

Secondo Lei, per ritornare riformulandola alla domanda che Le ho già posto e a cui ha già dato un prima risposta, il D.A.M.S. negli anni ha sviluppato maggiormente il lato accademico o in qualche modo ha anche contribuito alla crescita, all'evoluzione e allo sviluppo del sistema teatrale in Italia ? Nel senso che le persone che vi si sono formate sono entrate con profitto, portando una esperienza riconosciuta e qualificata, nelle vicende del Teatro in Italia ?

In questo senso è indubbio. Innanzitutto hanno trovato sempre facile collocazione professionale; non è vero che si creavano o si creano disoccupati. Se appena appena valevano qualche cosa hanno trovato collocazione e anche in buone posizioni. Perché soprattutto il D.A.M.S., appena lo cominci, mette voglia, ti fa capire che devi fare, devi operare. Non devi fare qualcosa aspettandoti che qualcuno lo venga a riconoscere, al contrario devi e ti devi proporre. Questo spero che resti sempre nel D.A.M.S. che rimanga sempre anche se, inevitabilmente vi è in ogni istituzione simile il rischio dell'accademizzazione, se non della sclerotizzazione quanto meno quello della normalizzazione.

Tornando agli anni della sua direzione al Teatro Stabile di Genova, mi sembra che quella esperienza sia connotata da una impostazione eminentemente storica e socio-politica, che andava dalla satira-apologo di costume al dramma documento attinto dalla storia; questo sia nella sua attività di scrittore teatrale, che come indirizzo quale direttore di Teatro Pubblico. Cosa rimane di quella esperienza nel teatro contemporaneo ?

Devo dire che forse non sono molto d'accordo su una tale connotazione, perché in realtà noi volevano procedere per filoni e, di conseguenza, cercavano di non fossilizzarci in una strada sola. In effetti quando tentammo, tra le altre, la strada di un teatro di impostazione storico dialettica, di teatro legato ai problemi sociali, quando facemmo per intenderci "8 Settembre" oppure "Rosa Luxemburg"  per non dire "Cinque giorni al Porto" o anche "Il Processo di Savona", fu soprattutto per il mio desiderio di trovare nella storia della città qualcosa che valesse la pena di essere portato sulla scena del suo teatro. Come noto i genovesi sono sempre piuttosto sfiduciati in sé stessi per principio. Così, cercando, venne fuori il processo di Savona con Pertini e il racconto del primo sciopero generale in una città in guerra. Sotto quello stimolo vennero, poi, da me per fare "8 Settembre"  Zangrandi e Enzo De Bernart. E quello certamente fu un filone, ma solo un filone, che considero in sé, a parte, di drammaturgia applicata, non è arte teatrale ma azione mediante il teatro. Anche perché, va detto, allora la televisione non faceva quelle grandi ricostruzioni storiche di adesso, che, tra l'altro, non consentirebbero più quel tipo di teatro in quanto la televisione è tutto meno che dialettica. Quel teatro voleva invece essere dialettico, infatti ci furono sempre reazioni anche molto forti. Ad esempio quando feci "Rosa Luxemburg" Edoardo Sanguineti scrisse cose di fuoco perché non lo riteneva ortodosso. Sembrava antileninista ed io, con un po' di meraviglia, facevo presente che se era così non esistevano più le diversità e abolire le diversità è, e sarebbe stata, una tragedia. Anche "Cinque giorni al porto" fu foriera di polemiche, questa volta perché considerato troppo riformista. Ma certamente era riformista, ma non il testo, quanto l'evento come tutti gli eventi di confronto sindacale. La Camera del lavoro del primo novecento non poteva che operare in un certo modo. Tutte accuse che, un po' ingenuamente come mia natura, forse non mi aspettavo, però in fondo è corretto così e alla lunga quelle intenzioni si sono rivelate abbastanza giuste. D'altra parte il lavoro di ricerca mi divertiva, ed è fondamentale perché consente di far emergere molte e nuove cose anche da sé stessi non solo dai documenti. Poi c'è stato il filone di Goldoni, ma è sostanzialmente autonomo da quello. Io sono stato il primo ad usare il memoir all'interno dello spettacolo in "Una delle ultime sere di Carnovale". Anche in quel caso si levarono scandali dai difensori dell'ortodossia crociana in nome dell'autonomia dell'opera d'arte che non ammetterebbe intrusioni. Ma da lì sono poi ripartiti in molti per ripensare Goldoni, anche Massimo Castri nella sua ultima regia goldoniana utilizza i memoirs dimenticati su un tavolo. E poi l'uso di quello che io chiamo il poeta in fabula, che ho utilizzato per il "Molière-Bulgakov" e, ancor prima, nella guerra per una riduzione di "L'avventuriero Onorato" che poi non sono riuscito a portare in scena, anche quello è un, altro, filone, centrato in un certo senso in una sorta di iperintroduzione dell'autore nell'opera in base ad una volontà, quasi, di restituzione intera dell'opera al suo autore. Una sorta, in sostanza, di riduzione dell'autonomia dell'opera d'arte, perché, oltre ai crociani, anche gli strutturalisti sostengono che l'opera d'arte alla fine non l'ha fatta nessuno.

Quindi una certa impostazione "politica" del Suo Teatro sussisteva.

E' indubbio anche per l'uso di certi mezzi, ad esempio quando usavo costume moderni per Shakespeare, oppure quella altra volta che ho usato la televisione in scena per interviste inserite in "8 Settembre", tutte esperienze che non si sono conservate purtroppo, e dico purtroppo perché fu una cosa pazzesca. Allora, si era nei primi anni settanta, la gente ricordava con forza e lucidità le vicende e le tragedie dell'8 Settembre e venivano così alla luce delle storie bellissime. E poi altri esempi ancora, ma tutte cose che valeva la pena di tentare; non di insisterci da morire, ma di tentare certamente sì. E in genere il pubblico genovese rispondeva, devo dire un meraviglioso pubblico; l'abbiamo aiutato anche noi, ma avercene di pubblici così. Chissà se è rimasto tanto ricettivo. Tutto questo però in un quadro di diversificazione e non di ripetitività. Certamente io credo e dico che i tempi cambiano perché il Teatro Pubblico, che costa allo Stato e quindi alla collettività, deve essere motivato. Io non penso che questo significhi solo fare dei buoni spettacoli, ma adesso è così, è solo così. Il discorso è "cerco di fare bene i miei spettacoli e con i soldi che mi danno possono farli meglio che in un altro posto". Io non ho mai pensato dovesse essere così, anche perché ho lavorato molto nel teatro privato, nel teatro commerciale, quindi so della schiavitù delle risorse, e della conseguente reticenza al rischio. Il Teatro Pubblico, potendolo, può rischiare il nuovo. Ad esempio dopo che abbiamo fatto le Baccanti, che non si facevano da tantissimo tempo, molti hanno rischiato le Baccanti di cui si successero svariate rappresentazioni. Di questo sono rimaste poche immagini, perché non vi erano abbastanza soldi per registrare e solo i lavori passati in televisione, il migliore dei quali considero sia il "Molière/Bulgakov", possono essere rivisti. Questo anche per una certa ritrosia dei genovesi che normalmente considerano inferiore quello che succede nella loro città. A questo proposito io, che in tutto andavo d'accordo con Ivo Chiesa, non sono mai riuscito a convincerlo ad aprire alle canzoni, in una città famosa per i suoi cantautori. Per lui il teatro non doveva mischiarsi con questo. Eppure la cosa era genovese ma, forse proprio per questo, non gli stava a cuore.

A questo proposito non trova che il teatro contemporaneo sia, in genere, fin troppo privo di spunti, anche polemici, e di innovazioni ?

In verità non vado moltissimo a teatro, in questo periodo, anzi ci vado piuttosto di rado perché, almeno per quanto mi riguarda, non mette tanta voglia. Però il pubblico in verità continua ad esserci, non abbandona il teatro anche quello più tradizionale, soprattutto in provincia. Spesso le compagnie di tournèe si avvalgono come trascinamento del nome televisivo, ma comunque il pubblico va e questo è un bene. 

Non crede che si sia ora realizzato un certo ritorno al passato, quando, anche ai tempi in cui la sua generazione ha cominciato, il pubblico si recava a teatro soprattutto per vedere il "grande nome", l'attore famoso. In Europa invece il teatro di regia esisteva da oltre 40 anni ed è stata appunto la generazione del dopoguerra ad introdurre questi elementi di innovazione, a riaprire le dinamiche dopo l'immobilismo del periodo fascista. Lei pensa che questa innovazione non abbia veramente attecchito nella cultura teatrale profonda ?

Io credo ci sia una vera e propria regressione, inaspettatamente rapida, a seguito della quale quegli elementi di innovazione sono diventati prematuramente "storici". Quando mi trovo a parlare con gli studenti dei miei spettacoli degli anni 60, di quelli che io considero importanti, percepisco che loro ne conoscono alla perfezione struttura e motivazioni, ad esempio delle "Baccanti", ma li vivono come elementi già troppo distanti, appunto "storici", e non come motori attuali di ricerca. Quelle vicende dovrebbero essere, credo, ancora cronaca, attualità.

Adesso sta preparando un nuovo spettacolo ?

No, ho appena finito di scrivere una commedia che mi ha impegnato a lungo. In prevalenza ora faccio un lavoro, per così dire, da tavolino. Poi sto lavorando ad alcune prefazioni per l'editore Marsilio; ne ho appena terminata una di 80 pagine e ora preparo quella di "L'Avventuriero  Onorato". Ne ho fatti tanti di spettacoli che ora, più che prepararne altri, mi piacerebbe orientare e stimolare, magari, qualcosa di nuovo.

Per concludere vuole farsi Lei una domanda ?

C'è un punto interessante tra le cose che ci siamo detti, che vorrei sottolineare. Ci fu un momento, e lo spettacolo nello specifico era "Le Baccanti", in cui io anticipai il D.A.M.S.. perché, in primo luogo, la traduzione la feci fare a Sanguineti, poi la fecero tutti una nuova traduzione, su consiglio di Scabia, del quale poi rappresentammo a Genova un commedia con i costumi di Polidori e la musica, anzi la non musica perché allora non si facevano musiche originali, di Donatoni che poi ha anche lui insegnato al D.A.M.S. Si era allora nel 1968 e fu come prefigurare la scelta di un gruppo di persone che dovevano, in qualche modo, operare insieme. Poi, in realtà, la scelta e le scelte di Marzullo partirono da altri concetti, a parte Polidori che gli consigliai io, partirono, come motivazione, dal concetto dei "migliori" , da un certo punto di vista. Però mi domando se oggi sarebbe ancora possibile, questa è una domanda, mettere insieme delle persone destinate ad un certo futuro. Non so se sarebbe più possibile nel teatro, e questo mi dispiace.

E questo perché, secondo Lei ?

Non lo so, questa è una domanda a cui è molto difficile rispondere. Forse sia per una sorta di incompatibilità delle persone l'una con l'altra, che allora era inferiore, sia per un disincanto dei letterati verso il teatro ancora maggiore di prima. Forse per questi e tanti altri motivi, però mi chiedo come allora fu possibile e come penso ora non lo sia più. Anche al "Piccolo Teatro" sono riuscite cose ora inimmaginabili; ad esempio Maderna dirigeva le loro musiche e comunque era un gruppo di collaboratori di punta, ora non credo sia più così.

Con una domanda ed una risposta che attende di chiudersi e concludersi, mi accomiato. E la domanda non può che continuare ad occupare il mio pensiero, perché credo sia sintomatico chiudere così l'intervista con Luigi Squarzina.

Con un uomo cioè per il quale il fare teatro è attività in cui, credo, il fare prevale sul Teatro, nel senso in cui la creatività è un operare in rapporto al mondo circostante, in un rapporto dinamico e reciproco di stimoli, appunto di domande e risposte.

E' un teatro che non accentua ed enfatizza distinzioni teoriche o concettuali, ma le usa in funzione della comunicazione, in cui il rapporto con la Comunità è prevalente.

Il teatro di Squarzina in questo senso è maieutico, fa emergere conoscenze.

E' un insegnamento importante di fronte a tempi e persone che si fanno depositari di certezze

 

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