Attilio Scuderi
L'Europa e le lingue.
Traduttori ed interpreti nel romanzo europeo

Torna all'indice completo del numero Mostra indice delle sezioni Inserisci testata


Sommario
I.
II.
III.
IV.
Premesse
Lingue in esilio
Gli interpreti, ovvero le lingue in scena
Lingue e plurinazionalià



§ II. Lingue in esilio

I. Premesse

 

«Che cos'è l'Europa? Un pensiero sempre insoddisfatto».
(Paul Hazard)

«L'Europa delle lingue ha un destino suo proprio e non può ispirarsi a modelli stranieri [...] L'originalità dell'Europa è l'immensa diversità delle lingue e delle culture che esse riflettono [...] L'Europeo vive nel plurilinguismo. Dovrà allevare i suoi figli e le sue figlie nella varietà delle lingue e non nell'unità».1

Con questa tesi, chiara e forte, Paul Hagège avviava, alcuni anni or sono, una serrata ricostruzione diacronica e sincronica sulla storia e i destini delle lingue europee. Se la riflessione del linguista non scartava volutamente la sirena nazionalista, nel riaffermare il francese come una tra le lingue federative dell'Europa nascente, l'autorevolezza e il livello dell'operazione scientifica la rendevano e la rendono, allora e ancor oggi, uno strumento quanto mai utile nel dibattito continentale sul pluralismo linguistico e culturale. Dibattito, pesa il solo ripeterlo, arretrato per posizioni e consapevolezza, qui da noi. Vorremmo allora provare ad entrare nel merito di tale confronto aggirandone, per così dire, la natura puramente teorica, osservando invece che ne è del linguaggio e delle lingue come «temi» e come «personaggi», come attori che entrano nel testo letterario e lì giocano il loro ruolo. Sarà un breve e veloce sondaggio, ma ricco di nomi, volti, geografie.

 

§ III. Gli interpreti, ovvero le lingue in scena Torna all'inizio della pagina

II. Lingue in esilio

 

«Sicché l'intento iniziale fu di avvicinare l'Europa agli europei».
(Czeslaw Milosz)

L'Europa è un campo di geografie in contrasto, una topologia multiforme arata, nel corso della storia, da molteplicità di progetti e dal martellante ricorrere di «spinte» di lunga durata: Drang nach Osten, imperialismo della «Terza Roma» moscovita, baricentro mitteleuropeo e controspinte mediterranee, solo per citarne alcune. E' il luogo in cui le lingue hanno fatto le nazioni e il nazionalismo linguistico ha proceduto più alacremente alla creazione di comunità immaginate e poi volute, conquistate. Ma è anche un'arena che più fortemente ricorda e riafferma, fino ai nostri anni, l'irriducibilità ad ogni tensione prepotentemente monolinguistica avversa alla sua più intima natura, al suo, si direbbe, DNA culturale.

«Rustschuck, sul basso Danubio, dove sono venuto al mondo, era per un bambino una città meravigliosa, e quando dico che si trova in Bulgaria ne do un'immagine insufficiente, perché nella stessa Rustschuck vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue. Oltre ai bulgari, che spesso venivano dalla campagna, c'erano molti turchi, che abitavano in un quartiere tutto per loro, che confinava col quartiere degli «spagnoli», dove stavamo noi. C'erano greci, albanesi, armeni, zingari. Dalla riva opposta del fiume venivano i rumeni [...] C'era anche qualche russo [...] Tutto ciò che ho provato e vissuto in seguito era sempre già accaduto a Rustschuck. Laggiù il resto del mondo si chiamava Europa e, quando qualcuno risaliva il Danubio fino a Vienna, si diceva che andava in Europa».2

È come venire catapultati nel cuore di una pellicola di Kusturica tra le più variopinte e rutilanti, magari, chissà, Gatto nero, gatto bianco. Già dalle primissime pagine l'autobiografia di Elias Canetti, immergendoci nella Macondo dell'infanzia e proponendo l'intero percorso a ritroso quasi un sogno fatto in Europa, afferma il tema della pluralità linguistica e impone la lingua come personaggio dell'intero racconto. Una persona narrativa che gioca un ruolo centrale nella vicenda di questo ebreo sefardita, e quindi «spagnolo»,3 che vive infanzia ed adolescenza a cavallo tra il bulgaro originario, il dialetto judezmo della comunità ebraica, l'inglese appreso a Manchester e finalmente il tedesco, imposto violentemente dalla madre, veicolo di un potentissimo odio-amore, vera e propria materna lingua-Heimat. La parabola della lingua salvata di Canetti, uno dei nuclei generativi della sua intera opera, contiene in sintesi e per metafora il destino plurilingue, spezzato ma sempre riaffiorante, di quella parte d'Europa, talora a noi ignota, che mal risiede sotto l'etichetta di Est. Così, scorrendo le prose autobiografiche di altri autori dell'est europeo, capita di veder frantumarsi le categorie «naturalizzate» dalla nostra tradizione nazional-statuale, nella descrizione di comunità interlinguistiche e interculturali, nella rievocazione di stati plurinazionali di origine secolare in cui appartenenza e cittadinanza superano la statica triade di un'unica lingua, cultura e religione.

«Nella campagna si parlava lituano e, in parte, anche il polacco. Nella cittadina, dove venivano portati i prodotti agricoli al mercato, si usava per la vita quotidiana il polacco e lo yiddish. Ma il gendarme che trascinava la lunga sciabola, l'ufficiale tributario, il controllore delle ferrovie (..) si rivolgevano agli indigeni in russo [...] Il miscuglio di sangue polacco, lituano e tedesco, di cui io sono esempio era cosa talmente comune da lasciare ben poco spazio per i fautori della purezza razziale [...] L'accesso al cerchio interiore dove si recitava il mistero razziale e nazionale mi era precluso».4

In La mia Europa Czeslaw Milosz ha realizzato uno dei più lucidi e intensi racconti di sé del '900. La semplice categoria autobiografica non rende ragione della complessità poetica di un testo costruito come riflessione sul senso della storia e sul peso dei condizionamenti culturali. La natura cosmopolita ed apolide dell'io narrante è iscritta nella sua composita eredità familiare: fieramente lituano per discendenza, polacco per lingua, russo per nascita, ebreo per appartenenza politica - l'intellighenzia marxista e di sinistra - Milosz intende presentarsi quale dimostrazione vivente dell'impossibilità di «regolarizzare» (sotto codici nazionalisti) la cultura est europea. Egli rivendica dunque una differenza specifica, un'assenza di forma interiore quale cifra poetica, quale specchio della mancanza di una società consolidata. Come la sua città, detta Wilno dai polacchi, Vilnius in lituano, Vilna in bielorusso, anch'egli vorrebbe assumere metaforicamente mille e nessun nome, divenire la coscienza ipertrofica di una molteplicità culturale quale risposta ostinata alla richiesta di «atavizzazione» imposta dall'età dei nazionalismi. Nel testo si inseguono le vicende di una comunità apolide, quella dei poeti e degli intellettuali slavi e centroeuropei, perseguitata dallo zarismo prima, dal nazismo e dal comunismo poi. A questa comunità potremmo aggiungere uno dei lettori privilegiati di Milosz e fine traduttore, ovvero il poeta russo Iosif Brodskij. Anche lui costretto all'esilio dall'Unione Sovietica nel 1972, in piena età brezneviana. Anch'egli abitante di una città che ha cambiato nome - la sua Peter, San Pietroburgo/Leningrado - il quale sceglie di raccontare la propria vicenda autobiografica lontano dalla lingua madre, in idioma straniero, perché «un'altra lingua accolga i miei morti».5 Eppure cosciente, come il poeta polacco, di quanto la lingua sia patria e dimora per un poeta esiliato. Concetto espresso in sintesi da una lirica di Milosz dal titolo Mia lingua fedele:

Mia lingua fedele,
ti ho servito.
Ogni notte ti mettevo davanti le scodelline dei colori,
perché tu avessi e la betulla e la cavalletta e il ciuffolotto
conservati nella mia memoria.
E' stato così per molti anni.
Sei stata la mia patria perché un'altra è mancata.6

 

§ IV. Lingue e plurinazionalià Torna all'inizio della pagina

III. Gli interpreti, ovvero le lingue in scena

 

«I loro piedi senza radici non si ferivano mai».
(Agotha Kristof)

Javier Marìas è uno dei narratori europei delle ultime generazioni di maggiore interesse. I suoi romanzi sono spesso costruiti come testi musicali, composti e giocati sul ritorno di leitmotiv, sul ritmo sinuoso di lunghi complessi sintattici, sull'alternarsi di voci e stili, sulla compresenza di un fitto tessuto intertestuale che privilegia la presenza di più lingue e talora la citazione in lingua originale. Così Un cuore così bianco (1992) - che trae il titolo dal Macbeth, come farà poi Domani nella battaglia pensa a me (1994) ricorrendo al Riccardo III shakespeariano - narra la storia di un mistero familiare a lungo taciuto e infine rivelato e tende a proporsi come un apologo sul dire e il non dire, sulla reticenza e la sua dura responsabilità. Il personaggio principale, voce narrante del racconto, è un interprete. Il testo di conseguenza assume il carattere, diremmo col Debenedetti critico di Pirandello, di moderno «romanzo internazionale»: le sue ben studiate ambientazioni sono le sessioni delle Nazioni Unite e del Parlamento Europeo, le riunioni dei grandi organismi internazionali e i summit diplomatici. L'immagine caustica della «democrazia globale» e dei suoi istituti riceve una critica ironica nelle parole dello stesso protagonista, quando ne descrive un funzionamento viziato da incontinenza e nevrosi linguistica.

«La verità è che in questi organismi l'unica cosa che effettivamente funziona sono le traduzioni, non solo, vi è in essi un'autentica febbre metaforica [...] al punto che tutto viene immediatamente tradotto in varie lingue, perché non si sa mai. Noi traduttori e interpreti traduciamo e interpretiamo continuamente [...] il più delle volte senza che nessuno sappia bene per chi si traduce né per chi si interpreta».7

A questo stato di alienazione linguistica, i cui effetti nella realtà paiono a noi tutti ben misurabili, si lega una svolta narrativa fondamentale. Chiamato a prestare opera di interprete simultaneo per l'incontro tra un politico spagnolo ed una esponente del governo britannico, il protagonista muta volutamente una battuta del dialogo, sin lì violentemente routinario, spostando l'intera conversazione su un inatteso binario.

«- Desidera che le ordini un tè? - disse il funzionario spagnolo.
E io non tradussi, voglio dire che ciò che gli feci dire in inglese non fu la sua gentile proposta (da manuale e piuttosto tardiva, bisogna riconoscerlo), ma quest'altra:
- Mi dica, lei è amata nel suo paese?».8

Parte da qui una nuova, ben più interessante, fase del dialogo tra i due diplomatici in cui Juan interverrà a correggere e limare al fine di restituire il colloquio alla sua natura di scambio interpersonale, che verterà ora sui temi cari all'autore del potere e dell'amore, della coercizione e della libera scelta affettiva. Da questa «svolta» maturerà anche l'incontro con la futura moglie, anch'essa di professione interprete, nonché l'intero intreccio del racconto. Ma ciò che a noi interessa è la natura di riflessione sul linguaggio (e su quella sua funzione cardinale che è la traduzione, lo scambio tra lingue), che l'intera sequenza narrativa riveste. Il racconto di Marìas si mostra infatti come un utile viatico narrativo alla «Europa delle lingue» che l'unione politico-monetaria tenderebbe oggi a realizzare, ne è diremmo una raffinata trattazione sociologica giocata sul piano romanzesco. Dalla sua acuta ironia qualche politico accorto, ove ve ne fossero, potrebbe trarre più d'un insegnamento…
Ma continuiamo il nostro percorso; infatti, la figura dell'interprete, quale veicolo e simbolo dell'incontro/scontro tra lingue, ricorre, con altre caratteristiche ma eguale intensità narrativa, anche nell'opera di un'altra scrittrice, l'ungherese Agotha Kristof. Abbandonato il paese d'origine durante l'invasione sovietica del '56, la Kristof vive oggi in Svizzera e utilizza da tempo il francese come lingua dei propri racconti. Uno di questi, dal titolo Ieri (1995), narra la storia di Tobias, emigrato ancor giovane da un paese nell'est europeo e operaio in un'area ricca del continente che ha tutta l'aria di somigliare ad uno dei cantoni elvetici. In questa figura la scrittrice ha tracciato il diagramma più duro e reale della condizione dell'uomo in esilio, spatriato da un'identità culturale ed affettiva. La prosa disseccata, la sintassi radicalmente elementare, un tessuto metaforico ardito, forniscono al lettore la sensazione, intensa e paurosa, di camminare su un abisso psichico. La ricerca di patria trova un motivo ossessivo nel ritorno di una figura d'infanzia del protagonista, la sorellastra Line, di cui egli s'innamora in modo disperato. Tobias, che scrive poesie nella sua nuova lingua e tiene un diario di cui leggiamo ampi brani, riceve un giorno una lettera: il tribunale chiede la sua opera di interprete nel processo intentato a un suo connazionale. Così, durante la penosa udienza e la condanna dell'uomo, egli riallaccerà i contatti con la comunità di emigrati nel suo paese. Anche qui, il romanzo si fa in parte documento sociologico: si descrive la vita espropriata dell'emigrato, la solidarietà e l'alienazione, i suicidi di solitudine e il senso di colpa per essersi costruiti una seconda vita (il protagonista vive sotto il falso nome di Sandor).
I temi dell'esilio e dello sradicamento, la riflessione sui processi identitari individuali e collettivi, sono affini a molti intellettuali ed artisti di origine slava, per primo l'autore ceco Milan Kundera. In uno dei recenti romanzi, scritto in francese, dal titolo La lentezza (1995), Kundera narra, tra le altre, la storia di un entomologo ceco, tornato alla professione dopo la caduta del regime filosovietico, che partecipa ad un convegno in Francia, il primo dalla acquisita riabilitazione. Goffo e timido, compiaciuto ma intimorito, il professore raffigura per sintesi il complesso d'inferiorità e di ritardo nei confronti della storia degli intellettuali nel dopo-dittatura. Significativa la scena delle procedure di accettazione al congresso.

«Mentre gli altri affollano chiassosamente la hall e il bar adiacente, lui entra nella sala vuota [...] Accanto alla porta c'è un tavolino con l'elenco degli invitati e una giovane donna che sembra sola e derelitta quanto lui. Si china dunque verso di lei e le dice il proprio nome. La ragazza glielo fa ripetere due volte [...] Pieno di paterna amabilità, lo scienziato glielo indica col dito: CECHORIPSKY.
"Ah, il professor Sescioripì?".
"Si pronuncia Ce-co-rijp-schi [...] Lei conosce Jan Hus?".
La segretaria getta una rapida occhiata all'elenco degli invitati e lo scienziato ceco si affretta a spiegare:
"Come lei sa, fu un grande riformatore della Chiesa. Un precursore di Lutero. Ma quello che lei non sa è che Jan Hus fu anche un grande riformatore dell'ortografia…"».9

Con intento didattico e insieme ironico, Kundera porta in scena l'intera storia della lingua e della scrittura ceca. La riforma di Hus e la nuova ortografia rinascimentale, la sua estensione ai paesi vicini, Lituania? Lettonia?, e l'ignaro e candido stupore della sua interlocutrice, le trascurate norme grafiche e la loro intima poesia (gli accenti circonflessi rovesciati, espunti dal resto d'Europa, in volo come rondini sulla pagina…). L'effetto è duplice, di ironica sottolineatura di ogni nazionalismo linguistico e di malinconica constatazione della tremenda ignoranza che l'Europa ha di se stessa. Significativa ci pare dunque, sia pure all'interno di un'opera da collocare nella fase più debole dell'autore, la scelta di fare della storia di una lingua «minore», come molte a rischio di estinzione, un tema del racconto romanzesco; scelta che segna l'attenzione crescente, nell'ultimo decennio del secolo trascorso, per la raffigurazione del linguaggio nelle opere di più narratori, e tra i più interessanti, della scena continentale.10
A confermare tale attenzione segnaliamo ancora, tra gli altri, due casi emblematici nel panorama italiano. Il primo è quello di Erri De Luca, scrittore napoletano che porta costantemente sulla pagina linguaggi vecchi e nuovi, antichi e dispersi. Così, dal racconto Tu, mio (1998) sino al più recente Montedidio (2001) lo yiddish, la lingua degli ebrei centro-orientali pressoché estinta dall'Olocausto, diviene una sorta di «ritorno del represso linguistico», simbolo dell'Europa delle lingue marginali, morte o moribonde.11 E' questa stessa Europa ad andare in scena nell'opera di un altro autore italiano, stavolta un regista, Silvio Soldini. In una vera e propria «trilogia sull'altro», inaugurata da Un'anima divisa in due (1993), proseguita da Pane e tulipani (1999) e conclusa da Brucio nel vento (2001), Soldini raffigura l'altra Europa, l'Europa dei linguaggi minori: il romani dei gitani, l'italiano degli immigrati, le lingue degli esuli del continente. Intensamente poetico è così il protagonista della seconda pellicola, impersonato da uno stupendo Bruno Ganz; emigrato di lingua tedesca in una Venezia onirica e stralunata, egli parla un italiano perfetto, rinascimentale e ariostesco, l'italiano della poesia e della tradizione letteraria. L'effetto di straniamento così ottenuto restituisce allo spettatore italiano, nell'«interpretazione» del personaggio, una lingua rinnovata attraverso l'estraneo, il diverso, il linguisticamente altro, e poeticamente sottratta all'impoverimento mediatico che la consuma, inavvertitamente, inarrestabilmente. Non a caso Soldini, attento alla tematica dell'altro e del linguaggio, traspone nell'ultima pellicola, Brucio nel vento, il romanzo della Kristof, la storia di Tobias e di Line, in modo quanto mai fedele, fino al finale, da lui restituito ad uno scioglimento positivo, ad un esito che contempla ancora una felice utopia.
Interpreti e traduttori, esuli e spatriati, popolando libri e pellicole dell'ultima generazione di opere ed artisti europei, talora proprio a cavallo del passaggio cruciale costituito dalla firma del Trattato di Schengen, indicano nel conflitto, nell'incontro e nello scontro tra le lingue, il punto critico della costituenda unione politica. Segnalano la sofferenza delle condizioni di pluralità culturale e riaffermano questa stessa pluralità come condizione per la comprensione, la conoscenza, la costruzione di una soggettività collettiva aperta e molteplice. L'unica accettabile per l'Europa del dopo-Auschwitz.12

 

Vai alla fine dell'articolo Torna all'inizio della pagina

IV. Lingue e plurinazionalià

Dietro la questione linguistico-culturale c'è infatti la questione politica, legata alla forma delle nostre istituzioni nazionali nell'era globalizzata.
E' di questi giorni la notizia che una nazione culturalmente europea, se Israele è una costola della cultura europea, realizza un lungo muro attorno ai suoi territori per difendersi dalla drammatica aggressione dell'altro e del diverso. A questa tragica mancanza di immaginazione politica, un nuovo muro, vale la pena forse di rispondere riprendendo la riflessione del filosofo basco-spagnolo Fernando Savater il quale, in un suo volume dal titolo Contra las Patrias, proponeva, seguendo una linea di pensiero che va dalla Arendt ad Isaiah Berlin, di mettere in cantina, progressivamente ma decisamente, il vecchio armamentario otto-novecentesco legato alla triade Patria-Popolo-Nazione, in favore della creazione di una condizione di plurinazionalità costitutiva dei nostri sistemi democratici. Un'analisi, quella di Savater, che ancor più ci interessa perché prende l'avvio dal valore primario del linguaggio in un'opera di profonda riforma culturale.

«L'unica alternativa attiva, ma non distruttiva, alla violenza è la comunicazione, centrata attorno a quello strumento privilegiato che è il linguaggio umano [...] L'aumento delle possibilità di comunicazione è un fattore che favorisce l'aumento della conflittualità, ma in cambio diminuisce la violenza [...] Niente radica più profondamente la pace dello Stato spagnolo della protezione e lo sviluppo del basco, del catalano, del gallego [...] Perché ogni parola rispettata è una violenza evitata».13

L'impossibilità di comunicazione, l'ignoranza delle reciproche lingue (tanto reale quanto metaforica) favoriscono intolleranza e rifiuto e impediscono quella fisiologica conflittualità culturale che è l'unico viatico alla costruzione di identità molteplici. Solo sistemi plurinazionali capaci di conciliare realmente nazioni diverse nello stesso sistema aperto, «nazioni» europee e africane, occidentali e asiatiche, e attrezzati concretamente al dialogo e al confronto di culture, possono fornire una risposta alla crescente conflittualità interculturale ed ai suoi fautori, dovunque questi si trovino.
La ricchezza linguistica europea rappresenta in tal senso un bene da preservare, un bene che dovrebbe renderci più sensibili ai pericoli del monolinguismo. Apprendere più lingue possibili, essere cittadini plurilingue di un mondo globalizzato significa essere capaci di abbracciare la diversificazione del mondo.

«Questa capacità di ascolto non è solo il segno di una naturale disponibilità nei confronti dell'altro. Potrebbe un giorno rivelarsi salutare in un mondo dove gli esiliati dal benessere [...] stanchi delle diseguaglianze decidessero di dare una forma violenta al desiderio, mai appagato, di essere finalmente ascoltati».14

 

Precedente Successivo Scheda bibliografica Torna all'inizio della pagina Torna all'indice completo del numero Mostra indice delle sezioni


Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2003

Giugno 2003, n. 1