Teresa Spignoli
«L’Affrica» di Giuseppe Ungaretti, tra prosa, poesia e musica

 

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Sommario
I.
II.
III.
Una sceneggiatura radiofonica
Rilevanza filologica
Ungaretti e la musica


 

§ II. Rilevanza filologica

I. Una sceneggiatura radiofonica

Tra le carte del Fondo Ungaretti conservato presso l’Archivio Contemporaneo «A. Bonsanti» del Gabinetto scientifico-letterario «G.P. Vieussex», è presente una sceneggiatura radiofonica1 nella quale sono orchestrati in una partitura a più voci, una serie di testi prosastici e poetici, accomunati dal riferimento alla terra d’origine del poeta. Come si legge sulla prima carta del copione radiofonico, L’Affrica fu trasmessa mercoledì 17 marzo 1948 alle ore 23.20 dai microfoni della Radio RAI di Roma all’interno della rubrica il «Teatro dell’Usignolo», realizzata da Leonardo Sinisgalli, Franco Rossi (regista), Gian Domenico Giagni (musicista) e Sergio Pugliese (commediografo).2
Ideato nel novembre del 1947 e trasmesso dalle frequenze di Radio Rossa e Radio Azzurra, «Il Teatro dell’Usignolo» si poneva l’ambizioso obiettivo di portare nelle case degli ascoltatori «le grandi parole della poesia di tutti i tempi»,3 da Leopardi – con cui si apre e si chiude il ciclo di letture4 – agli autori classici (Virgilio5, Sofocle6, Saffo7) e moderni (Mallarmé8, Wilde9, Twain10, ecc.) sino alla stretta contemporaneità (Landolfi11, Pratolini12, Bernari13, ecc.). L’articolato programma culturale della rubrica mirava idealmente a sostituire – afferma Sinisgalli – il «libro che teniamo sul comodino» e sfogliamo tra la «veglia e il sonno»,14 proponendo una sceneggiatura teatrale di testi poetici, con letture a più voci accompagnate dalla musica. La particolare attenzione alla connessione tra parola poetica e musica, garantita dalla collaborazione di Modigliani, è sottolineata da Franco Rossi che, nell’editoriale di presentazione alla rubrica pubblicato sul «Radiocorriere», prende a prestito le parole pronunciate nel 1932 da Alfredo Casella, relativamente alla funzione della radio:

«Se c’è una speranza da coltivare, è questa: che la parola, verbum antico ed immutabile riottenga la sua funzione chiara e inconfutabile di suprema espressione: nulla, infatti, è tanto chiaro nell’arte come la parola. La quale è canto, musica, pensiero, descrizione, avvenimento, azione, tutto. La radio ha da restituire alla parola la sua mirabile potenza».15

Programma, questo, che non poteva non suscitare l’interesse di Giuseppe Ungaretti, da sempre particolarmente attento sia ai rapporti tra i generi artistici, in particolare tra poesia, musica e pittura, che al rapporto tra la creazione artistica e i progressi tecnologico-scientifici della società:

«La trascrizione e l’orchestrazione radiofonica della poesia non è una novità. Ma essa sola può far progredire la radio come arte, e precisamente per questo: perché il linguaggio poetico essendo un linguaggio estremamente sintetico, contiene in sé tutte le difficoltà, tutte le possibilità di difficoltà da risolvere per dare alla pura parola ogni possibilità d’effetti vocali».

Con queste parole - contenute in una carta autografa conservata in ACGV16 - Ungaretti commenta la messa in onda, nella notte di mercoledì 18 marzo, della "sua" Affrica, composta dal montaggio di una serie di poesie, prose e traduzioni, variamente collegate al paesaggio africano. Sin dal titolo essa rivela una continuità con la sezione omonima del volume di Traduzioni pubblicato per i tipi di Novissima nel 1936,17 accogliendo le due versioni arabe – Tam tam degli animali e Lamento arabo – che chiudevano la raccolta,18 a cui si aggiungono tre prose (Il povero nella città19, Il demonio meridiano20, Giornata di Fantasmi21) e cinque poesie (Il paesaggio d’Alessandria d’Egitto22, Silenzio23, Giugno24, Un sogno solito25, Ricordo d’Affrica26), tra loro intercalati senza soluzione di continuità, a formare un testo autonomo articolato in una struttura teatrale garantita dall’alternanza di più voci: due «donne», due «speaker», due «arabi», un «negro», una «voce fuori campo», il «coro». Qualora si considerino i testi inseriti nel copione radiofonico, risulta dunque evidente come la scelta dei brani e il loro montaggio, non fosse affatto casuale, ma rispondesse a un preciso intento creativo, sebbene il poeta, mischiando abilmente le carte, ne riconduca la responsabilità della scelta unicamente a Leonardo Sinisgalli e a Gian Domenico Giagni:

«È una sorpresa ritrovarsi fra cose quasi dimenticate, in un modo così famigliare e come se il loro risorgere potesse non essere ormai inopinato. Già stasera mi avete, cari amici, restituito la cordialità del ricordo per cose che m’erano sfuggite dalla mente o che mi pareva non appartenessero più a me. Sinisgalli, il caro Sinisgalli, trascurando la sua propria opera di poeta, e di poeta di raro valore, insieme a Giagni, altro caro amico, e valente poeta, hanno frugato nelle mie vecchie carte e hanno trovato una delle mie [...] prime poesi[e], una poesia del ’15, [...]. Eppoi i due trascrittori, saccheggiarono scelsero con oculatezza nei miei appunti d’un nuovo soggiorno fatto in Egitto nel 1930».27

Ora se è vero, come risulta dalla testimonianza di Romeo Lucchese – collaboratore a più riprese della rubrica - che «la preparazione di ogni trasmissione [...] veniva fatta in équipe»28 e che il montaggio era realizzato per lo più dal regista Franco Rossi e da Gian Domenico Giagni, è invece assai poco credibile che Ungaretti non abbia avuto un ruolo nella scelta di quelle vecchie carte, che tanto impolverate e dimenticate non erano, visto il lavoro di revisione delle prose egiziane compiuto proprio in quel torno d’anni per la stesura de Il povero nella città. D’altronde è lo stesso poeta, in una lettera all’editore Alberto Mondadori, a fare esplicito riferimento al futuro volume, in quel frangente ancora allo stato progettuale:

«Caro Alberto / mercoledì alle 23, dopo il notiziario, nelle comunicazioni della Radio Rossa, il teatrino dell’Usignuolo, di Sinisgalli e Giagni, daranno la mia Affrica (poesie, traduzioni e brani scelti di prose: il mio "viaggio in Egitto" che sto "preparando" [)]. Sarei lieto se tu potessi ascoltare questa trascrizione radiofonica di cose mie. Sinisgalli e Giagni in questa loro impresa fanno miracoli. Spero che Iddio mi darà la forza per portare a termine prima dell’Autunno il Viaggio in Egitto. Vorrei, prima della fine dell’anno, poterti dare questo primo volume delle mie prose».29

 

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II. Rilevanza filologica

Il copione radiofonico si inserisce dunque nella lunga vicenda elaborativa del libro di prose, più volte annunciato, sin dal 1942, come imminente nelle lettere all’editore Mondadori,30 ma sempre differito, fino alla tarda pubblicazione nel 1961 con il titolo Il deserto e dopo. Inizialmente concepito come «un libro per pochi»31 destinato a «un numero di lettori speciali: gli amatori di problemi di stile», il Povero nella città si connota, nelle intenzioni di Ungaretti, come «un’antologia di prose scelte con fini di mera dimostrazione dell’apporto che può essere stato il mio al rinnovamento della nostra prosa d’oggi». Se non è questa la sede per ripercorrere in modo dettagliato le tappe di tale vicenda editoriale,32 tuttavia occorre rilevare come il testo dell’Affrica possa aver assunto, a livello macrotestuale, non poca importanza nell’organizzazione dei materiali per il Povero nella città, sia per quanto riguarda l’inserimento, assieme a testi prosastici (prose e saggi), di poesie (Calitri)33 e traduzioni (Lamento cairino),34 che relativamente al nucleo tematico attorno a cui viene a convergere l’intera plaquette, ossia il tema del «demonio meridiano»,35 dell’«ora cieca»36 del deserto, che informa di sé le prose egiziane come i testi dedicati alla Magna Grecia (Campania e Puglia).37 Si delinea in questo modo la geografia favolosa di un paesaggio che racchiude entrambe le sponde del Mediterraneo – l’Egitto e il Sud Italia – in una saldatura tra Oriente e Occidente, che appare essere teoricamente giustificata dalla figura del faqir, protagonista del saggio Il povero della città,38 in cui vengono a convergere la figura del povero e del matto appartenente alla tradizione popolare araba e quella invece occidentale del Don Chisciotte cervantiano.39 A livello testuale le prose utilizzate per la redazione del copione radiofonico presentano una serie di varianti che in massima parte sono riconducibili ad uno stadio intermedio tra la pubblicazione nella «Gazzetta del Popolo» e l’inserimento nel Povero nella città.40 Il lavoro di revisione delle prose per il volume edito dalla Meridiana prosegue incessante dalla consegna del manoscritto – avvenuta nel dicembre del 1948, per tramite, e non sarà un caso, proprio di Leonardo Sinisgalli41 – fino al maggio del 1949, con la restituzione ad Angelo Guazzoni delle bozze corrette: «Ho avuto ancora molte correzioni da fare: bisognava fare arrivare il libro a un’unità, e c’erano ancora dei punti privi di equilibrio. Succede sempre così con le cose vecchie, e che dovevano avere un altro fine, e un’altra fine».42 Le forbici del poeta agiranno soprattutto nella eliminazione, proprio a ridosso della pubblicazione, sia del Tam tam degli animali che del brano dedicato al sudanese. La figura perturbante del «colosso d’un ebano compatto come l’oro» è interessata da un processo di progressivo distanziamento: originariamente inserito all’interno della prosa Pianto nella notte, il sudanese viene assimilato, all’interno del testo Il povero nella città, alla figura sacra del «faqir»43 e successivamente isolato in una prosa autonoma – Anche oggi44 – alfine espunta dalla plaquette, probabilmente proprio in ragione di quell’equilibrio e di quell’unità macro-strutturale cui mirava il poeta nella revisione del volume, e a cui – come ha sottolineato Ossola45 – mal si accordava l’elemento onirico e inconscio veicolato dalla figura del sudanese:

«Suonava a perdifiato, fermo come una statua, il flauto; era come, a udirla avvicinarsi, quella musica, se l’animo mi fosse tirato giù in un pozzo; e anche oggi m’avviene se all’angolo cambio di strada, che quel ricordo, senza nemmeno darmi il tempo di pensare e di distinguere, mi getti nel terrore, - mi getti strappato avulso e incarcerato in una smemoratezza senza fondo».46

La musica del flauto suonato dal sudanese si identifica con la «canzone, rauca, malinconica, maledetta»47 che scioglie il sangue all’arabo del deserto, oppure con «la nenia noiosa delizia»48 del «fellà [...] accoccolato nell’antro / del sicomoro»49 che si pone come leit-motiv dell’Affrica, non solo nella scelta oculata dei testi, si pensi per l’appunto al recupero della poesia Il paesaggio d’Alessandria d’Egitto, o alla dislocazione in posizione incipitaria e poi in chiusura di trasmissione del Tam tam degli animali, quanto nell’attenta partitura musicale del copione, come testimoniano le frequenti notazioni relative all’accompagnamento del coro, alla scelta degli strumenti e agli effetti sonori.50 Difatti, in calce alla lettera inviata ad Alberto Mondadori per annunciare la trasmissione, Ungaretti ne mette in evidenza proprio la valenza musicale e teatrale: «Si tratta di un vero e proprio spettacolo teatrale, a più voci, con interventi musicali e di rumori».51

 

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III. Ungaretti e la musica

L’attenzione di Ungaretti per la scena musicale a lui contemporanea è attestata per lo meno dalla frequentazione del milieu culturale delle avanguardie primo-novecentesche, si pensi in primo luogo alla «Voce» in cui erano attivi Bastianelli, Torrefranca e Pizzetti, ma anche al vivace ambiente parigino frequentato in quel periodo da Alfredo Casella, segretario della Société Musicale Indépendante, e legato d’amicizia, tra gli altri, a Cocteau, Picasso, De Chirico e Savinio, che – lo si ricordi – nel 1914 compone Les chants de la mi-mort, la cui pièce per piano è eseguita nella sede della rivista di Apollinaire «Les Soirées de Paris».52 Oltre a ciò, è nota la collaborazione di Ungaretti con musicisti a lui contemporanei come Ildebrando Pizzetti53 e Luigi Nono,54 nella realizzazione di partiture musicali tratte da sue poesie, e che prosegue per tutto l’arco della sua attività poetica.55 In questo quadro il copione radiofonico dedicato all’Affrica rappresenta un caso assai singolare, non solo, ovviamente per l’orchestrazione teatrale del testo, quanto perché esso costituisce l’unica rappresentazione musicale interamente basata sulle modulazioni della nenia araba, di contro invece al côté musicale colto e raffinato in cui si inscrivono gli altri progetti. Il costante riferimento alla musica classica e lirica, nonché al rapporto prosodico tra parola e musica all’interno del verso, informa di sé il macrotesto poetico ungarettiano, qualora si pensi alla titolazione di componimenti e sezioni da Sogni e accordi del Sentimento del Tempo, sino alla Terra Promessa e al Taccuino del Vecchio: Canzone, Cori, Recitativo, Variazione, Finale, Cantetto, Canto a due voci;56 o alla stessa organizzazione drammatica dei libri evidente soprattutto nella Terra Promessa, definita dallo stesso poeta come un «melodramma»,57 laddove anche le raccolte precedenti sono ricondotte a tale ambito:

«Come L’Allegria, il Sentimento è diviso in capitoli. Non per capriccio. Ogni diversa parte di questi due libri, forma un canto, nella sua organica complessità – con i suoi dialoghi, i suoi drammi, i suoi cori – unico e indivisibile».58

A ciò si affianca e si lega senza soluzione di continuità, il riferimento alla musica originaria e viscerale della nenia araba, che torna a emergere in più luoghi dell’opera ungarettiana:

«Quel vociare piano che torna, e torna a tornare, nel canto arabo, mi colpiva. Nell’accompagnamento d’un morto, quella sorta di costanza monotona che si differenzia quasi insensibilmente per quarti di tono, quel borbottio lento, [...] non avrò ritenuto altro insegnamento orientale, ma vi pare davvero poco? In quel salmodiare s’insediava il valore d’Essenza e ne divenivo quasi inconsapevolmente consapevole. Il mio sentimento del nulla s’era andato costituendo in tale modo».59

La poesia araba - prosegue Ungaretti - è «poesia di musica, non di colore»,60 nenia monotona intonata dai ciechi – non a caso definiti «fachir dei morti»61 - durante le processioni funebri, capace di veicolare, attraverso l’iterazione fonica, le rime e le assonanze, l’idea del nulla, ottenuta con una progressiva dissoluzione di ogni significato della parola nel ritmo originario e incantatorio di una musica che precede il processo verbale e dunque le immagini da esso generate.62 Così come la luce accecante del deserto è ciò che sancisce la dissoluzione dell’immagine visiva,63 allo stesso modo l’iterazione del suono, la sua costante e monotona ripetizione, attraverso le cadenze di una musica che preesiste al linguaggio e ne è origine, concorre a dissolvere nell’eco la stessa sostanza sonora della parola poetica, che si approssima ai margini del silenzio, secondo un procedimento non dissimile da quello utilizzato da Campana in poesie come Batte Botte, Barche amarrate, o Genova.64 Si pensi ad esempio allo schema ritmico a rime baciate di Canto beduino – pubblicata tra l’altro nel 1932 sulla «Gazzetta del Popolo», a ridosso del reportage egiziano – in cui la valenza incantatoria della parola poetica65 – sottolineata dalla rima «canta/incanta» (paronomasia isomorfica) – sancisce l’equivalenza tra sogno e morte.66 Oppure e in modo ancora più evidente, si pensi alla litania funebre che accompagna il progressivo dissolversi dell’immagine del mare in Finale,67 in cui la parola «mare», ripetuta alla fine e all’inizio di ogni verso, si propaga come un’eco per minime variazioni di tono, secondo una progressione che dalla negazione del suono – «più non muggisce, non sussurra il mare» – giunge fino alla negazione della sua consistenza visiva – «incolore campo è il mare» – e dunque alla sua definitiva dissoluzione: «Morto è anche lui, vedi, il mare». Del resto lo stesso copione radiofonico si chiude proprio sull’immagine della città di Alessandria che lentamente svanisce alla vista del poeta, e perdura soltanto nell’ultimo ed estremo bagliore «dei lumi sospesi nell’aria torbida», a sancire un Silenzio – questo il titolo della poesia - che non è soltanto auditivo, ma anche visivo: "silenzio degli occhi" appunto, che se in Lindoro era interrotto dal sorgere dell’alba e dunque dal riemergere delle forme dall’indistinzione della notte,68 qui invece viene a sancire, nella coincidenza tra dimensione visiva e auditiva, la definitiva dissoluzione della realtà sensibile, come sottolineato iconicamente dai puntini di sospensione che concludono la sceneggiatura:

«VOCE (riprendendo) ...Me ne sono andato una sera // Nel cuore durava il limio / delle cicale // Dal bastimento / verniciato di bianco / ho visto / la mia città sparire (tam tam) / lasciando / un poco / un abbraccio di lumi nell’aria torbida / sospesi.

(tam-tam forte.
Riprende lontana la prima nenia araba, con le voci delle due donne, il Coro e il negro.
Diventa incessante, poi dissolve e sullo sciacquio, lentissima)

VOCE (sussurrata, vicina) ...una abbraccio di lumi nell’aria torbida sospesi...

(poi il)

GONG»

La sceneggiatura, dunque, oltre a costituire un’importante testimonianza della partecipazione di Ungaretti a programmi radiofonici,69 si pone, cronologicamente, ad un punto di snodo centrale nel macrotesto ungarettiano, sia per quanto riguarda la complicata vicenda editoriale de Il povero nella città (come primo nucleo di aggregazione della prose africane, nonché prima revisione delle "vecchie carte" di viaggio utilizzate successivamente anche nella stesura del Monologhetto), sia relativamente all’elaborazione della Terra Promessa, non solo per l’importanza precipua che nella raccolta viene ad assumere il riferimento all’ambito musicale, quanto per la vocazione scenica e teatrale che ne connota l’organizzazione macro-strutturale, evidente soprattutto nelle prime redazioni.70

 

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Giugno-dicembre 2012, n. 1-2


 

 

 

 

 

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